L’imbarco di Mimì, alla fine, gli era costato più del biglietto, acquistato on line sette mesi prima, in offerta super promozionale di una compagnia low cost. Quasi il doppio, per dire la verità. Poi c’era stata quella spiacevole storia, lì alla biglietteria dell’aeroporto di Orio al Serio. – In questo volo è previsto già il trasporto in cabina di due cani; è il massimo consentito dal regolamento, quindi la sua bestiola dovremo caricarla nella stiva – gli aveva detto la biondina slavata in divisa celeste-pigiama che era di turno al check-in. La bestiolina era Mimì, appunto. Una gatta di diciassette anni, manto maculato in bianco, marrone e ruggine, piccolo delizioso relitto al quale Fabrizio era rimasto aggrappato al momento del naufragio del suo trentennale matrimonio. Il salvagente morbido e peloso che gli aveva permesso, sia pure a fatica, l’approdo alla spiaggia tranquilla di una solitudine non più tormentata come era stato i primi tempi. – Non se ne parla nemmeno – aveva ribattuto deciso Fabrizio. – Il trasportino lo porto con me. Non era stato facile, aveva anche dovuto alzare la voce, a un certo punto. Cosa che non era mai stata abituale, per lui, uso praticamente da sempre, per indole e attitudine, a non elevare mai i toni oltre un certo limite. Una caratteristica che, a primo impatto, poteva sembrare un sintomo di timidezza e di scarso vigore; solo il morbido involucro di una volontà interiore di consistenza ferrea, per chi lo conoscesse abbastanza in profondità. Non era stato facile, ma alla fine l’aveva spuntata lui. Anzi, loro: lui e Mimì, che aveva effettuato il viaggio, comodamente accovacciata nel suo trasportino, sulle ginocchia di Fabrizio.
Il sole di Sardegna, già rovente a giugno, li folgorò all’uscita di Elmas. Erano in automobile, adesso, una Punto noleggiata all’Avis. Climatizzata, naturalmente: per Mimì, da sempre, viaggiare aveva rappresentato uno stress, e adesso era lì che respirava con la bocca aperta e la lingua fuori. – Tra poco saremo arrivati – disse dolcemente Fabrizio. – Perdonami per averti causato un ulteriore piccolo tormento, ma questa è una cosa che dovevamo fare, io e te. La gatta strizzò gli occhi, due volte. Il suo modo silenzioso di dire: “Stai tranquillo, uomo: ho capito” – Da qui sei partita, quando ti trovammo in giardino, malridotta trovatella. Ti ho portato in giro per l’Italia, dietro ai miei trasferimenti da zingaro, e qui ti riporto. Voglio farti rivedere il mare, il tuo mare.- mormorò ancora lui, ricacciando indietro un boccone di singhiozzi che rischiava di strozzare la gola e mozzare il respiro.
Aveva sempre temuto quel momento.
Fin da quando Mimì altro non era che un minuscolo batuffolo colorato, dalla coda appuntita e dagli occhi immensi. Una fedele e affezionata compagna di vita che aveva dolcemente condiviso con lui una parte del lungo cammino: l’ultimo tratto della strada nel paese del latte e del miele, con sua figlia che veniva su, dritta e rigogliosa come una spiga di grano e sua moglie che gli riservava ancora sguardi d’amore, invece che di sospetto e sordo rancore. Prima che tutto cominciasse ad andare in frantumi. E anche dopo, se è per questo.
Sì, Fabrizio aveva sempre temuto, quel momento, perché sempre aveva saputo che, prima o poi, sarebbe inesorabilmente arrivato.
Era cominciato tutto come cominciano queste cose: una roba da niente, la gatta che si leccava in un modo un po’ strano, un’ulcera quasi invisibile su uno dei capezzoli nascosti tra il morbido pelo dell’addome.
Una visita dal veterinario (e quelli sì che erano brutti viaggi, per Mimì, fin dalle prime vaccinazioni), una sentenza spietata, l’inutile sofferenza di un’operazione inutile.
– Le resta un anno di vita, forse qualcosa di più, ma non troppo. – gli aveva detto la dottoressa. – Cosa posso fare? – aveva chiesto stupidamente lui, annichilito dalla sorpresa e dal dolore. – Trasformi i suoi ultimi mesi in qualcosa che sia il più vicino possibile al paradiso dei mici, sempre che ne esista uno – era stata la risposta, accompagnata da una affettuosa stretta di mano sull’avambraccio.
Così aveva fatto, dedicandosi al suo animaletto totalmente. L’aveva coccolata, accarezzata, blandita in tutti i modi possibili, ricompensato cento volte più di tanto dalle quiete fusa di Mimì. Si era persino illuso, a un certo punto, che forse non sarebbe successo mai, che forse il veterinario aveva sbagliato tutto, che forse la sua adorata gattina fosse davvero un highlander immortale della categoria felina, come diceva qualche volta Arianna, sua figlia. Scoprendo, in quel sorriso, i denti perfetti che ormai da un anno, dopo la dura separazione con sua moglie Camilla, Fabrizio aveva occasione di rivedere solo di rado.
Mimì non morirà … magari il tumore si è fermato, è regredito, magari …
Poi erano arrivati i colpi di tosse, che avevano cominciato a squassare il piccolo petto della bestiolina. Il respiro sofferto, affannoso, in certi momenti. Quasi un rantolo penoso. Momenti sempre più frequenti. E … … era cominciata la difficoltà di trattenere il cibo, e il corpo si era rapidamente avvizzito, il muso si era scavato, perdendo in fretta la sua morbidezza da pelouche.
Il mare era agitato, sotto l’ingiuria sibilante del maestrale. Sceso dalla macchina Fabrizio poggiò la gabbietta sulla sabbia e la aprì.
Mimì era sempre stata una gatta timida, per niente amante degli spazi aperti, come se la libertà la spaventasse, invece di attirarla. Ma c’era qualcosa di diverso, stavolta. Cacciò furi il muso, annusando freneticamente l’aria, come era solita fare quando si affacciava al balconcino di casa. “La vecchia casa”, pensò Fabrizio. “Quella casa”. Nella nuova non c’erano né logge né terrazzo. Poi, incredibilmente, venne fuori dalla gabbietta, senza ulteriori esitazioni. Stirò languidamente il corpicino ormai smagrito, poi avanzò, procedendo lentamente su quella soffice polvere, a lei ignota, in direzione del mare. Coraggiosamente, tranquillamente, sfidando gli spruzzi umidi che le sputava addosso il maestrale. Fabrizio la seguì, passo passo, finché non la vide fermarsi a pochi decimetri dalla prima sabbia lambita dal mare. Lei si volse, levando lo sguardo verso il suo volto. Era come se volesse comunicargli qualcosa, e lui sapeva bene cosa: del resto Mimì non aveva mai avuto bisogno di miagolare, per farsi comprendere. Fabrizio allora si chinò, prendendola tra le braccia. La sentiva rabbrividire sotto il pelo umido. Se la strinse addosso, delicatamente, riscaldandola con le carezze e con il calore del proprio petto. Tornò indietro, vicino alla strada accovacciandosi con la gatta in braccio tra due vecchie cabine, per ripararsi un po’ dal vento, che sembrava volersi accanire ogni minuto di più. Le lisciò la gola, avvertendo il battere del cuore sotto i polpastrelli. Le stropicciò teneramente le orecchie. Le sfiorò il dorso, fino all’attaccatura della coda. Poi ancora le passò le dita lungo il muso, massaggiandole la pelle sopra le gengive, come le piaceva tanto. La sentì rilassarsi, sempre di più, fino ad abbandonarsi completamente, addormentata.
Fabrizio non piangeva più, adesso. Le sue lacrime se n’erano già andate tutte via. “È a me che tocca”, pensò. “Solo io posso farlo, Mimì”.
Muovendosi adagio, per non farla svegliare, infilò la mano nella tasca del giubbotto: la siringa e quella fiala, che dopo tante insistenze alla fine si era decisa a consegnargli la dottoressa, erano lì.
Stava passando un aereo. Con la sua scia bianca sembrava voler dividere a metà l’azzurro intenso del cielo.
Troppo in alto, troppo lontano, per fare rumore.
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Patrizio Pacioni |