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Una domenica particolare



Una domenica così non me la scorderò mai più!

Di una cosa sono sicuro: nel corso della mia lunga vita … uhm, vediamo un po’: sono “uscito al secco” già da … eh sì … sette mesi – un’eternità, non è vero? -, eppure quello che mi è capitato domenica, non mi era mai successo e credo che non mi succederà neanche mai più – giuro -.

Uno pensa: oggi è domenica. Dopo una settimana di lavoro – oh, fare il neonato è una faticaccia mica da niente – avrò pure diritto a dormire un po’ di più? Mi sarò meritato una doppia razione di pappa e coccole? O no? E infatti mi sono svegliato tardissimo – verso le cinque e mezzo del mattino – con il mio consueto appetito: non c’era che lanciare il solito “richiamo” alla mamma. Probabilmente era domenica anche per lei perché subito dopo mi venne a prelevare dalla culla per portarmi nel “lettone” e per offrirmi – finalmente – la colazione. Ah! … nel lettone c’era anche il mio papà! Fatto strano perché in genere, a quell’ora, era già in fermento da un bel po’. Evidentemente era domenica pure per lui: tutti gli altri giorni, ma più tardi, la mamma, mezza addormentata, mi prendeva la manina, l’agitava a destra e a sinistra, poi mi diceva: “Saluta papà, che va al lavoro” … – come se potessi già parlare – . Alla fine si toccavano tra loro con la bocca, papà mi faceva dei versacci in chissà quale lingua e, finalmente, ci lasciava in pace per tutta la giornata. Ma non prima di averci urlato: “Ci vediamo stasera! Ciao, famiglia!”

Eh già, quella doveva essere proprio domenica perché il mio papà se ne stava lì a sonnecchiare nel lettone e l’unica cosa che sentii pronunciargli in modo sbiascicato fu: “Sta’ buono, bello a papà … che oggi andiamo in aeroporto”.

E’ probabile che qualsiasi altro mio “collega” avrebbe reagito protestando sonoramente ma, un po’ perché mi stavo succhiando il mio solito mezzo litro, un po’ perché non sapevo cosa fosse di preciso “aeroporto” … beh … non me ne curai più di tanto. La cosa però puzzava … eh sì, puzzava più della mia cacca più caccosa!

Da quando ero uscito al secco, c’erano state molte cose che non avevo compreso e ora, quella parola … “a e r o p o r t o”.

Ora, me lo immagino, sapete … penserete che io sia il classico pargoletto paranoico con la classica “sindrome da crescita” … e invece no! Io non ho paura di crescere! E neanche di finire nel buffo mondo degli adulti! Non ci credete, eh? Non volete sentire neanche le mie ragioni? Peggio per voi!

Tanto per dirne una, sopra la mia culla, non c’erano appesi i soliti oggetti ameni: gli angioletti, le pecorelle, le farfalline, i cavallucci. No. Sopra la mia c’erano tutti gabbiani multicolori – come se esistessero i gabbiani verdi o a palline bordeaux -. Io li avevo visti i gabbiani! Quella volta che eravamo andati al mare: non erano così! Ne sono sicuro.

Ad esempio, tornando alla culla, la coperta che la mamma aveva aggiunto ai primi freddi, non era una classica copertina – ne avevo viste diverse nei lettini dei miei amici -. No. La mia aveva disegnato sopra tutti aeroplanini. Deformi – è vero – ma erano aeroplanini. Oh, dico “deformi” perché quelli “sani”, credo che fossero invece nelle fotografie giganti che erano disseminate ovunque … nelle pareti della mia stanza. Ora che ci penso, anche le pareti della mia stanza erano parecchio strane: foderate di carta con su tutti … aeroplanini, e ti pareva? Quante stranezze, non è vero?

E pure il mio papà era assai strano. Forse perché faceva il pilota. La mamma mi chiedeva sempre: “Da grande, farai il pilota come papà, vero?”.

“E che ne so?!” le avrei risposto, ammesso che avessi potuto parlare … e anche se avessi potuto, che pretese! Gli adulti non lo sanno che a quest’età si vive alla giornata? Che diavoletto ne so cosa farò quando sarò “lungo” come papà? Intanto, io faccio colazione, beccati questa, tieh!

In effetti parecchie cose erano strane: i giocattoli che avevo – oh, tutti aeroplani! -, i vestiti che indossavo – pure quelli con gli aeroplani -, le storie – di aeroplani e grandi piloti – che ogni volta mi raccontavano per farmi dormire, e perfino il mio nome – Francesco – a volte mi suonava strano: vuoi vedere che s’erano ispirati a qualche personaggio famoso? Chissà?

Pensavo: sarà così proprio il mondo dei grandi, o forse sono io che non lo capisco ancora bene? Comunque ora c’era un’altra parola strana da aggiungere alla lista delle stranezze.

****

Una domenica terribilmente particolare

Dopo colazione, non poteva mancare un po’ di riposo, così schiacciai un pisolino, tanto per favorire la digestione. Durò poco: mi risvegliai all’improvviso mentre quei due “vigliacchi” tentavano di abusare di me: mi avevano già tutto lustrato e lucidato – o quasi – ed erano pronti a vestirmi con l’abito che più odiavo: una tuta integrale felpata con un cappuccio di pelliccia pungente.

Ripensandoci anche la mia tuta sembrava la copia in piccolo di quella che portava papà quando andava al lavoro: l’ennesima stranezza.

Naturalmente non potevo lasciar correre un affronto del genere, così … non volendo … mi liberai dei liquidi e dei solidi superflui. Non vi dico la reazione dei miei amabili genitori: mio padre incominciò a pronunciare parole insensate – credo che gli adulti le chiamino bestemmie – e mia madre con l’aria stizzita, prese ad urlare: “E ma che cagone che sei figlio mio! Che cagone! Ma cos’hai mangiato? Un campo di prugne?”

Purtroppo, dopo un primo momento di smarrimento, i miei si ripresero alla svelta tanto che mi ritrovai addosso quattro mani indiavolate che mi sottoposero di nuovo alla tortura del bagnetto, della talcatura, della incrematura e infine della vestizione. Me l’ero proprio voluta io. Ma giuro che quando sarò lungo, mi prenderò la soddisfazione di fare a loro, quello che loro hanno fatto a me da piccolo. Brutti maniaci!

Ad ogni modo, mi portarono sull’automobile di papà – la riconoscevo subito perché anche quella, guarda caso, era pure assai strana: aveva tutti i sedili pieni di aeroplanini, e pure aeroplanini erano attaccati alle pareti trasparenti -.

Mah … davvero molto strano anche il mio papà!

Comunque partimmo per non so per dove e … che volete? … sistemato nel seggiolone, si ondeggiava quel poco per … farmi ricadere in catalessi!

Non saprei dire quanto viaggiammo: forse mezz’ora, forse un’ora, sta di fatto che quando mi risvegliai, mi ritrovai in braccio alla mamma sul bordo di un enorme campo di cui potevo vedere solo un lato perché c’era come rete … sì, credo che fosse una rete, mentre per il resto non se ne vedeva la fine. Allora era questo “aeroporto”?

Ed ecco che papà assunse la classica faccia di “pesce lesso” sprecandosi in una sua personalissima quanto sconclusionata esibizione di rara erudizione: svolse una dotta dissertazione, prima circa l’aeroporto, poi riguardo la zona, poi attorno le splendide condizioni mete … re, meteorologiche, o come caspita si chiamano, e poi … non so di cos’altro diavolaccio perché – non potete immaginare – era una tale sproloquio … che quasi mi stavo riaddormentando. Quando … ad un tratto un tizio urlò a squarciagola: “Via dalle pale!”.

Pensai subito: “Eh, ma quanto è arrabbiato questo! Chissà che gli avranno mai fatto per farlo diventare così cattivo?”.

A volte la mamma, quando litigava con papà mi prendeva da parte e mi diceva: “Non parlarci con quello, che oggi gli girano, le pale!”, oppure quando, solo per la decima volta – nel corso della giornata – mi bagnavo un “pochino” addosso, sempre la mamma, mi minacciava con: “Ah regazzì, attento che m’incominciano a girà le pale, eh?”.

Anche papà, se aspettava più di dieci minuti che io facessi il ruttino, dopo aver preso la poppata delle tre – del mattino -, si metteva a dire sdegnato: “Eh, ma che pale ‘sto bambino!”.

A volte, invece, mi sussurrava trionfante nell’orecchio: “Lo sai? Tua madre è proprio una donna con le pale!”

Tutte le volte però, la cosa finiva lì: o le pale erano nascoste chissà dove e non si vedevano quando giravano, oppure me lo dicevano solo per mettermi paura. Chissà? Insomma queste terribili “pale” io non le avevo mai viste, tanto che alla fine, quasi non ci credevo … che i grandi le avessero davvero.

Mi dovetti ricredere quando, da dove avevo sentito urlare il tipo, da quella specie di aeroplano … eh sì, credo che quello fosse un aeroplano … si scatenò un tale putiferio, un tale rumore, e poi fumo e pure un po’ di puzza, che pensai: “Accidenti come gli girano le pale! Almeno c’ha avvertiti in tempo!”

Allora mi domandai: “Chissà se i miei genitori le hanno uguali?” Comunque ero stato fortunato perché fino a quel momento non le avevano mai usate contro di me: giravano talmente veloci che non avrei mai resistito – il pannolone non mi avrebbe protetto! –

Quelle del tipo inviperito erano così grandi e potenti, che dopo qualche secondo, ci arrivò un ventata micidiale di aria ghiacciata! Perché, quando la mamma doveva freddarmi la minestrina, invece di soffiare a perdifiato non faceva così, eh? Perché? Perché quando d’estate faceva tanto caldo non le facevano girare, invece di sventolare certi aggeggi di carta a striscioline sovrapposte, eh?

Comunque bisogna ammettere che i grandi sono veramente bravi a tenersi addosso quel popò di pale! Soprattutto a portarle in giro! Ah … ecco: forse le smontano e le lasciano a casa! … boh? Altra cosa strana!

****

Una domenica decisamente particolare

Assorto in questi insolubili misteri della vita, m’ero completamente dimenticato che s’era fatta, anzi, s’era bella che sfatta, l’ora della colazione. Non è che la mamma fosse mai stata particolarmente attenta agli orari dei miei pasti: se non c’ero io a fare la “sirena” … beh, potevo anche morire di fame. In quell’occasione no. Con fare furtivo e deciso, tornammo all’automobile. Sembrava come se le si fosse messo a trillare il campanello del forno elettrico che usava per scaldarmi le pappine. Lì finalmente, mi concessi il meritato mezzo litro di latte. Anzi di più … visto che era domenica … eh, sì, mi spettava anche il dolce!

Il mio papà era sparito, naturalmente. Allo sproloquio iniziale, la mamma aveva subìto impassibile e io – anche se avrei voluto tanto, e non potete immaginare quanto – non potevo certo sculacciarlo sul sederino, come faceva con me. Insomma subito dopo ci aveva lasciati in pace … aveva attaccato a parlare fitto fitto e a gesticolare in direzione del cielo con un’altro tizio che era già lì sul prato.

C’era qualcosa che non andava: tutto sembrava studiato nei minimi dettagli … e sentivo pure una terribile puzza di cacca … eh no, non poteva essere la mia: finita la colazione la mamma si era preoccupata pure di cambiarmi il pannolone, perciò non ero io. Ero convinto: doveva essere una congiura!

E infatti ne ebbi la conferma quando mi legò sul seggiolone con tutte le cinture disponibili dentro l’automobile e, messo in moto, ci trasferimmo davanti ad una strana casa tutta di metallo . A quel punto cominciò a mettersi addosso una tuta del tutto simile a quella che … eh già, anche papà aveva indosso. Insomma a che gioco giocavano quei due? Sicuramente non a: “l’aeroplano smontatutto” o a “l’aeroplano impazzito” oppure a “scontro di aeroplani”, che erano poi i giochi che facevo a casa con loro. Bah? La risposta comunque venne a breve. La mamma si mise a parlottare con uno strano figuro, indicando, contemporaneamente me o l’automobile – non so -. Sicuramente parlavano di me perché sentii:

“Non si preoccupi signò, che ce penso io ar pupo”.

Oh, dico! Pupo ci sarai! E poi io già penso da solo! Non ho mai capito quale fosse il nome del tipo: mentre mia madre stava dicendo: “Grazie, Mar…”, un altro arrabbiato urlò:

“Via dalle pale!” e a seguire altro rumore e altra ventata fredda. Fatto sta, che quell’immonda di mia madre ebbe il coraggio di affidarmi a quel bruto … e anche brutto, va bene? E questa è un’altra delle nefandezze che non le perdonerò mai, madre snaturata!

Mentre prendevo nota dell’affronto nel “Libro delle vendette”, il campo intanto … andava animandosi. Da una stradina, che fino a quel momento non avevo notato, incominciavano, a sfilare delle strane automobili: erano uguali a quella del mio papà ma erano legate con una corda a uno strano coso a forma … di supposta, eh sì … di supposta – lo sapevo bene com’erano fatte perché avevano cercato, senza riuscirci, di metterle anche a me quando m’era venuta la tosse -.

Non so per quale motivo … ma a vederli, mi venne in mente una strana parola che avevo sentito tante volte quando ancora ero dentro la mamma … ah quelli sì ch’erano stati bei tempi! Giocare nell’acqua, dormire e mangiare. Peccato ch’era durata poco: tutt’a un tratto m’ero ritrovato “al secco” in mezzo ad un sacco di gente tutta vestita di verde, mah …

Qual’era la parola? Ah, sì: “a” … “alli”, no … “allian” … “alliande”, ah ecco … “aliante”. Ma sì, era aliante perché a forza di sentire da dentro la mamma: “Quando mi porti in aliante?” e poi ancora “Quando mi porti in aliante?”, alla fine ne avevo fatta una cantilena che ripetevo durante i miei giochi: “Quando quando mi porti in aliante – e via un calcio – quando quando mi porti in aliante – e giù una gomitata – quando quando mi porti in aliante – sotto con una testata – …” e così via. Quanto mi divertivo!

In quel momento, invece, non mi divertivo per niente: avevo freddo – e fortuna che quei due infamoni dei miei genitori m’avevano vestito con la famosa tuta felpata spinosa – perché nonostante ci fosse un pallido sole, s’era alzato un vento davvero forte. Forse qualcuno in cielo s’era così arrabbiato, ma così arrabbiato che gli dovevano girare terribilmente. Cosa? Le pale, no?

Comunque, tornando alle supposte … cioè, agli alianti … ormai sul prato ce n’erano davvero parecchi. Tutti colorati di bianco – a parte qualche grosso segnaccio – e tutti in fila … come se fossero stati lì ad aspettare qualcosa. Bah, vallo a capire il mondo degli adulti!

C’era una frenesia, un’agitazione in … aeroporto che prima non avevo notato: gente che andava e veniva, alianti che correvano dietro alle automobili, persone che seguivano alianti … e la fila sempre più lunga. E poi un rumore generale, come un ronzio di moscone in cielo e un fracasso a tratti anche sul prato. Ma non solo: c’era una malefica scatola gialla ad un “tiro di ciuccio” da me: beh, sembrava che dentro ci fossero cento persone che parlassero una dopo l’altra, senza pausa, a parte qualche fischio o brontolio. Era simile alla scatola che era a casa, ma da quella uscivano tutti suoni melodiosi tanto che mamma dopo un po’ si metteva a cantare!

All’inizio non capivo niente di quello che diceva quella gente … beh, mi ci misi d’impegno … da non credere! … capii ancora meno! Cosa può mai significare: “Ho due metri in laminare!” Lami … che? Oppure: “Ho preso un rotore di sottovento in testata nord”. Un rotone … disotto a vento … capocciata sul nord? … eh sì, parlavano proprio un’altra lingua … chissà di quale paese? Mah! In ogni caso, qualunque cosa significassero quei bofonchi, dovevano essere di estrema importanza perché scatenarono un’ulteriore frenesia, aggiunta a quella che c’era già …

… oh, per tutte le pappe frullate! E questo cos’è? Un mostro venuto dallo spazio! O forse … un animale … che vive solo in aeroporto? Me la facessi tutta addosso … vuoi scommettere che questo è un “lungo”? Ma com’è vestito? Certo che da quando sono “uscito al secco”, ne ho viste di persone strane … ma quelli che sono su questi prati verdi … devono essere davvero strane strane!

Che volete che vi descriva? Era talmente assurdo! … va beh, ora vi spiego: doveva essere un’adulto. Come dire … che aveva smesso di prendere il latte da un bel po’ … Veramente il mio papà al mattino lo prende ancora, anche se è già abbastanza lungo, cioè … Allora, diciamo … ah, ecco: era parecchio tempo che non se la faceva addosso … Oddio la mia mamma, che pure lei è adulta, ogni tanto si mette ancora i pannolini – eh, sì … l’ho vista io, con i miei occhi! Che volete fare? Anche questo mi doveva capitare! –

Comunque, tornando al marziano … beh, forse si capisce di più se vi dico che: era più lungo del mio papà, poi era più largo del mio papà, era più brutto del mio papà, aveva più peli sul viso del mio papà, non parlava come il mio papà … fortuna, che non era il mio papà!

Aveva addosso … come il rotolo di alluminio che usava la mamma per mettere le pappine in frigorifero, proprio quello: era tutto metallico, frusciava e cigolava a ogni passo. Vestiva una tuta, dalla testa ai piedi e si riusciva a vedere solo il viso – e anche se avesse avuto coperto pure quello, non ci saremmo persi niente, vero? -.

Ai piedi aveva delle strane scarpe che arrivavano fino al ginocchio: sembravano simili a quelle che la mamma indossava quando pioveva a dirotto. Ma oggi, per tutte le cacche, non pioveva! Cosa doveva mai fare ‘sto soggetto?

– Ti sei equipaggiato bene, eh? – gli diceva un tizio tutto intirizzito che stava vicino alla scatola gialla. – Certo! E’ dall’anno scorso che mi preparo – Ecco perché s’era messo la tuta di metallo: per conservarsi meglio, no?!

– Ma … – diceva il tizio con aria furtiva, – ce l’hai l’ossigeno? – Sì. – E … quanto ce ne hai? – continuava il tizio con aria ancora più furbetta. – Quattro – rispose il mostro, facendo cenno con le dita. – Quattro litri? Ma è roba buona? – Tranquillo: con quello vai in paradiso!

Il discorso s’era fatto troppo losco e, sdegnato, preferii non ascoltare una parola di più: il marcio era arrivato fino in aeroporto! E io che pensavo che fosse un posto sano e pulito?! Mah …

Decisi allora di buttare uno sguardo in direzione del prato. Ecco cosa ci facevano tutte in fila le supposte … pardon, gli alianti: aspettavano l’arrivo dell’aeroplano – quello cui giravano le pale, e quale sennò? -. Però ancora non capivo! Ah, ecco … c’era un omino buffo che correva a destra e a sinistra: raccoglieva un filo, legava l’aliante all’aeroplano, aiutava un secondo omino – che fosse il pilota? – a entrare nell’aliante, chiudeva il coperchio trasparente e alla fine teneva in mano l’aliante. Va be’, ma io ancora non capivo! Ah … ecco, ecco: il primo omino si sbracciava in chissà quali segnali in codice, le pale si mettevano a girare forte forte e sia l’aeroplano, sia l’aliante che il povero disgraziato si mettevano a correre sul prato. Poi … miracolo!! Non so come si chiamasse quello strano gioco, ma era davvero impressionante: l’aeroplano e l’aliante si sollevavano dall’erba e incominciavano a salire nell’aria, sempre più alti e sempre più lontani verso il fondo della pista.

Veramente … come gioco … non è che dovesse riuscire molto bene perché il poveretto – oh, ce l’aveva messa tutta a correre – rimaneva sempre a terra con la faccia stravolta. Comunque non si perdeva d’animo: ricominciava a legare, poi a chiudere, e ancora a correre … macché, niente da fare … e allora dagli a legare, a chiudere, e a correre … forza, su … che prima o poi ci riuscirai a rimanere attaccato all’aliante e a volare con lui! Mica ti scapperà sempre di mano, no?

*****

Una domenica particolarmente particolare

A questo punto qualcuno della scatola gialla urlò che si trovava a “cinque” … “cinquemila”? – ma che poteva mai significare? – e che c’erano “trenta” … sì, sì, “trenta gradi” sotto a qualcosa. Forse sotto ad un certo zero? Boh … Comunque quella voce continuava dicendo – e questo l’avevo capito subito – che aveva i piedi congelati e il ghiaccio tutt’intorno. Vuoi vedere che era rimasto chiuso dentro un frigorifero? Magari ancora più freddo di quello che c’era a casa e che faceva i cubetti di ghiaccio – me li mettevano in testa quando davo qualche craniata qua e là: oh non ti lasciano neanche divertire questi adulti! –

Ma non è possibile! … c’era qualcuno dentro alla scatola gialla che s’era messo a ridere! Ve lo dico io: adulti adulti e poi sono peggio dei neonati!

Comunque il tipo che era vicino alla scatola non aveva certo gradito lo scherzo dell’altro e anzi aveva cominciato ad urlare dentro ad una specie di gelato legato con un filo alla scatola gialla: “Quanto fa due più due?”

Ma dico?! … vogliamo essere seri? Lo so’ perfino io – anche se non ho la più pallidissimissima idea di quello che possa significare – che due più due fa quattro! – il papà lo diceva sempre alla mamma quando andavamo a far la spesa al supermercato – … beh, incredibile … quell’altro non ti va a rispondere: “T t … r r e e e!”

Sembrava la voce di un ubriaco … secondo me s’era fatto qualche bicchieretto di troppo e ora … che volete … dava i numeri! Posso capire che facesse un gran freddo ma … sgomitare il gomito a quel modo!? – così si dice, vero? –

Il tizio vicino a me, comunque, non era assolutamente deciso a sospendere l’interrogazione e continuava: “Come ti chiami?”, oppure: “Fa’ una serie di numeri” e ancora: “Adesso falla al contrario”.

Ma dico? Siamo in aeroporto o ad un quiz televisivo? La mia mamma ne andava pazza e obbligava anche me a vederli … nonostante le mie “sonore” proteste.

L’altro, più bevuto che mai, rispondeva: “Giovan … Giona … tan”, poi: “U… no, du…e, qua…ttro, set…te” e per finire: “Die… ci, nove, se…i, ot…to” Insomma, a farla breve: era arrivato in paradiso.

– Scendi subito, disgraziato! – Ma … tu … chi sei? – Vieni giù, te lo ordino! – Va’ be …ne, A … dolf, hi hi hi.

Che cartone animato! Neanche Mimì e Willy il Coyote erano così divertenti – me li faceva vedere papà nella scatola delle immagini. Chissà se piacevano anche a lui? Magari soffriva in silenzio per farmi contento! Mah!? –

Preso da questo scambio di cordialità, non mi ero reso conto del tempo che passava e che ormai l’aeroporto era ritornato un semplice prato verde: degli alianti neanche l’ombra. Anzi, no! Guardando bene, qualcuno ne appariva all’improvviso nel cielo sempre più scuro – andava velocemente a far notte – e scivolava nell’erba fermandosi in mezzo al prato.

Da dov’ero io vedevo benissimo che il tizio che era dentro l’aliante, apriva furtivamente il coperchio trasparente e con ancora addosso una strano sacco blu, si nascondeva dietro l’aliante per fare pipì.

Oh, dico! Già passi il fatto che negli alianti non ci sia il bagno – papà e mamma fanno lì i loro liquidi e solidi – passi che si mettano a spargere acqua in pubblico, ma non si può certo ammettere che allaghino l’aeroporto: oh, ne avrà fatta … un litro! Apposta l’erba è così verde!

Comunque non ne potevo più: ero insonnolito, infreddolito, affamato, assetato, incaccato e pure “incazzato”! – doveva essere una parolaccia e non so’ cosa significasse, ma la diceva spesso papà … e ci stava bene, tieh! –

Passare una domenica in aeroporto può essere pure interessante ma non ci vedo niente di divertente ad essere, nell’ordine: abbandonato dai propri genitori, affidato ad un orco, stordito dalle scatole gialle, spaventato dai marziani, e infine corrotto da piloti ubriachi che fanno uso di ossigeno. E lasciamo stare tutte quelle odiose persone che s’erano dilettate in melense tiritere del tipo: “Oh ma che bel pupo, pucci pucci bubu settete!” A quelle ormai m’ero abituato.

Così, quando i miei genitori ricomparvero all’improvviso davanti ai miei occhi, beh … mi lasciai andare ad un pianto liberatorio di gioia e di rabbia nello stesso tempo.

In compenso non avevo mai visto mamma e papà così felici, così vicini tra loro. E’ vero che avevano il naso rosso e le dita fredde – la mamma me l’aveva messe addosso per … cambiarmi il solito pannolone – ma mai come quella domenica di volo in aliante – perché quello avevanofatto, vero? – m’erano sembrati così … innamorati.

Per conto mio, e vi ho raccontato tutto perché voi possiate comprendere e perché io me lo possa ricordare nei giorni futuri, pronuncio questa promessa solenne: dopo l’esperienza di questa domenica, giuro … che non tornerò mai più in aeroporto.




A Peter Coppola e a tutti i neonati di oggi, domani e dopodomani: che possiate avere molte domeniche particolari!

(quello con la mano scivolosa)




# proprietà letteraria riservata #


Big Mark

18 marzo 1986

Era il 18/3/86, e alle 15.50 decollavo col mio “Spillone” totalmente “pulito” per un volo prova supersonico.  Per un pilota caccia-bombardiere abituato ad andare in giro con tips, pylons, dispenser e talvolta anche razziere, volare con l’avione pulito rappresenta sempre una sensazione particolare! Decollo, salgo come una “spia” ed in men che non si dica mi ritrovo a 37.000 ft.; accelero e, dopo i primi controlli supersonici, salgo a 39.500 ft per il “rush” finale . L’ A/B è ancora tutto dentro, l’avione corre, mach 2.2, la “SLOW” si accende : devo rallentare. Sono di nuovo subsonico, a destra c’è il Conero, un attimo prima c’era il delta del Po. Viro a destra in discesa per quote più “umane” inbound alla base per effettuare gli altri test, e a metà virata una prima luce antipatica: Fix Freq Out (l’F104 ha energia elettrica a frequenza fissa  – Fixed Frequency) e a corrente alternata (A.C.). Fix Freq Out è una luce del pannellino avarie che indica che si è persa l’energia a Frequenza Fissa). Quante volte mi sarà successo nelle (allora)quasi 2000 ore di volo che ho passato sullo Starfighter: premo quel famoso pulsante e tutto torna come prima! E allora lo faccio, ma non succede assolutamente niente, la Frequenza fissa rimane Out. OK, lo faccio di nuovo, e qui cominciano le grandi sorprese. In un attimo mi trovo “al buio”: Gen1 Out e Gen2 Out, completa avaria elettrica. La cosa si fa seria : sono in Emergenza. La dichiaro subito a Romagna APP, e subito si inserisce la SOR (la sala operativa (Squadron Operation Room- Sala operativa del Reparto) per darmi manforte – Biagio che hai ?- – Sono in completa avaria elettrica, adesso imposto il “precauzionale”,e vengo giù. – OK, ricordati che dovrai tirare fuori la “R.A.T.”. (Ram Air Turbine, è un generatore esterno di energia elettrica. Si tratta sostanzialmente di un’elica che viene estratta dalla fusoliera del velivolo e, investita dall’aria, comincia a girare generando, con questo movimento rotatorio, l’energia elettrica necessaria per gli impianti base dell’aeroplano). – Sì, ora applico tutta la procedura e la tiro fuori. Ho già tanta esperienza, ne ho viste di cotte e di crude e adesso devo fare una cosa che non avevo mai fatto prima, devo usare la R.A.T. OK, tiriamo questa maniglietta gialla … quanto rumore, ma almeno le lancette degli strumenti hanno ripreso la loro vita “guizzante”: ho di nuovo energia elettrica. La velocità va bene, fuori i flaps. Intanto scendo, scendo, e scendo ancora : il campo si avvicina. OK, la pista è là davanti, la velocità l’ho ridotta e ora è giusta, 1600 ft, è ora di tirar giù il carrello : OK, è fuori. Cribbio, cos’è questo silenzio improvviso? E perché il muso ha preso a puntare il suolo? – SOR, ha piantato il motore, mi lancio! – OK – NO, HO UN PAESE DAVANTI, CERCO DI SALTARLO E POI MI LANCIO !!! – OK Sto puntando un prato; DIO si avvicina troppo, è ora di tirare la maniglia, quella più vicina !!! Ma quanto tempo ci vuole prima che parta il tettuccio ed io venga cacciato fuori da questa trappola mortale !? Che botta, ho male alla schiena, i fogli del cosciale mi volano attorno, che male alla schiena, sto facendo la capriola, che male alla schiena, un’altra botta, dev’essere l’apertura, guardo in alto, si è aperto bene, ora devo pensare all’atterraggio, ero molto vicino al suolo, guardo in bas … , DIO ho male alla schiena e alla caviglia. Sono sdraiato su di un fianco con gli occhi chiusi, ma dove? In quale mondo? Sono ancora vivo o no? Apro gli occhi, c’è l’autostrada, ci sono delle automobili che corrono, altre si fermano, sono ancora vivo, oppure “di là” ci sono le stesse cose che c’erano “laggiù”. Mi alzo e mi guardo attorno, ho molto male alla schiena, vedo il fumo nero, arriva gente, una donnetta si avvicina con un bicchiere di Sangiovese in mano : ” beva, la tirerà su ” mi dice tutta affannata . Le chiedo : “Dov’è caduto l’aereo, ci sono feriti, morti ?” Ci sono stati tre morti ed alcuni feriti !!! Il seguito è costituito da una storia giudiziaria ed una vicenda umana che si sono protratte per nove anni prima di arrivare finalmente alla completa chiusura la prima, mentre la seconda ha comunque lasciato dei segni indelebili.


#proprietà letteraria riservata#


Alberto Biagetti

Dichiarazione in volo

Soltanto una cosa volevo veramente: portarla in volo e svelarle, solo per aria, il sentimento che provavo per lei, dirle che quello era l’unico posto dove mi sentivo padrone delle mie idee. Un detto americano narra però che gli aviatori sono persone confuse, che parlano di donne quando sono in volo e che parlano di volo quando stanno con le donne. Maledizione, è vero. E si tratta di un errore clamoroso, da non fare mai. Era un sabato mattina di quelli bellissimi, quando il cielo di Lombardia, così bello quando è bello, per citare il Manzoni, ti lascia vedere tutte le Alpi e, dal mio campo volo, anche le colline dell’Oltrepò pavese. Ma quelle condizioni meteo, lo sapevo bene, erano solo una fantastica coincidenza: la cosa importante era che lei aveva detto sì, sarebbe venuta con me al campo e, magari, avrebbe deciso anche di sedersi al posto del passeggero Passai a prenderla alle nove in punto. Per arrivare in aeroporto ci sarebbero voluti circa trenta minuti e poi, finalmente, avrei soddisfatto la mia voglia di volare con lei, nmessa a tacere per tutta la settimana. In più c’era Laura, ancora solo un’amica, ma sapevo per poco, almeno considerato il numero di volte che c’eravamo cercati, un po’ al telefono, un po’ via e-mail. Va bene, ve lo dico: è castana, occhi scuri, snella e con un sorriso capace di farti perdere l’assetto. Insomma, quando l’avevo vista per la prima volta, con la minigonna e la camicetta senza maniche un po’ anni Sessanta, mi aveva colpito subito. Anzi, mi aveva abbattuto come un missile aria-aria partito da dietro l’orizzonte. Di lei mi piaceva tutt: la voce, il modo elegante di muoversi, come vestiva, le mani, le caviglie sottili, il didietro e il collo. Ero proprio cotto, anzi, come diciamo noi della combriccola, ero “in bonza”. Mentre andavo a prenderla la mia mente creava pensieri di ogni tipo: i controlli di fare al motore si accavallavano a immagini di Laura, immagini che si manifestavano come lampi di luce improvvisi, velocissimi ma dettagliati in ogni particolare, tanto che a momenti stavo per passare con il rosso proprio sui piedi di un vigile urbano. Concentrazione, soprattutto quella mi mancava, dovevo stare calmo e non farmi trascinare via la mente. Ecco il pensiero giusto: spreme le meningi per scegliere quale canzone avrei dovuto mettere durante il viaggio: Ligabue? gli Ottottotrè oppure qualcosa di più ricercato come i Queen o addirittura un brano alternativo come la Penguin Cafè Orchestra? Mah … Comunque arrivai sotto casa sua, citofonai e mi rispose con un “Arrivo”, così tornai in macchina e aspettai. Comparve dopo i canonici cinque minuti, davvero bella e vestita come l’avrei vestita io, perfetta nei suoi movimenti e nel suo sorridere. Salì in macchina e mi diede subito un bacio sulla guancia, spiazzandomi completamente, mentre io ne uscii con un “Come te la passi?” completamente fuori luogo, ben sapendo che stava attraversando un periodo non troppo spensierato per via del lavoro e dei suoi fratelli. Recuperai con un discorso un po’ troppo verticale, nel senso che mi stavo arrampicando sui vetri, ma si trattava nello stesso tempo di un modo come un altro per saggiare le sue reazioni al contatto con l’ambiente aeronautico. Le chiesi se mi avrebbe aiutato a fare i controlli, lasciandole intuire che fossi, prima di tutto, quel pilota prudente e meticoloso che invece so di non essere, o almeno non mi credo tale. Laura sembrava interessata a tutto, anche alle cose tecniche, in un modo così ortodosso da non sembrare neppure vero, ma completamente circostanziale. Arrivati al campo, attraversammo la linea di volo per arrivare all’hangar numero tre, mentre io, sperando di non incontrare nessuno che potesse rompere la nostra intimità, mi ritrovai invece a salutare anche chi non vedevo da anni, e tutti, chissà perché, trovavano mille argomenti strettamente tecnici e comunque pesantissimi. I cento metri a piedi fino alle porte dell’hangar mi sembrarono un racconto senza fine, un percorso minato. L’unico che aveva capito la situazione era stato il mio istruttore, il quale si era limitato a dire a Laura che ero stato uno dei suoi migliori allievi. Avrei dovuto poi offrirgli da bere, almeno perché ancora mi ricordavo le sberle sulle mani e gli improperi che mi lanciava quando volavo male. “Sai”, dissi a Laura cercando di darmi un’aria modesta, “in realtà, quando sbagliavo qualche manovra mi urlava: – Dio delle tempeste cosa fai! – ” E’ un bravo istruttore il mio, e anche ora che volo da tempo non perde occasione per darmi modo di migliorare. “In realtà la voce dell’istruttore la senti sempre quando voli, un po’ come quella che ti che ti vuole bene, che viene fuori proprio quando stai facendo qualche … “. Incredibile, dissi anche stupidaggine al posto di cazzata, e in quel momento mi congratulai con me stesso per non essere mai stato volgare, ben sapendo invece quali orribili sequenze di turpiloqui sono capace di confezionare. Mi guardò con quei due mondi scuri fissandomi negli occhi, e la voglia di baciarla per un momento fu più forte di quella di volare. Avrei fatto l’amore con lei anche dentro ad u biplano monoposto, oppure a cavallo di un deltaplano a motore proprio lì, nell’hangar aperto Ma come fare? Abbracciarla e tentare di baciarla? In modo casto o via di pennello? No, avrei rovinato tutto, anche in volo, che magari non ci sarebbe neppure stato. Meglio sorriderle, prenderla per mano e dirle: “Vieni!” portandola davanti al mio aereo, la cosa della quale vado più fiero, come se fosse l’unico al mondo, anche se so benissimo che dovrei cambiare l’elica ammaccata, reintelarlo e magari riparare quel conta-ore che è fermo da sempre. “Che bello quello lì” disse però Laura contrastando la mia camminata, “che bella linea, che bei colori, è bellissimo”. Ce l’aveva con quella meraviglia di aereo francese del Verilli, 300 all’ora da volare dentro un salotto, con tanto di stereo. Accidenti, perché le donne ti devono sempre mettere in competizione con la realtà? Quel gioiello della scienza e della tecnica costava 140 milioni che il padrone aveva pagato con un solo assegno, mentre io per comprare il mio accrocchio di tubi e tela c’avevo messo tre anni facendo sacrifici disumani, perdendomi tante serate con i ragazzi e un numero incalcolabile di prime visioni. Le dissi la verità, che costava molto denaro e che io non me lo sarei potuto permettere almeno per trent’anni. ma che il mio coso colorato le sarebbe piaciuto di più. Non ci crederete, ma quando lo spinsi fuori e il sole accese il colore delle tele, lei mi disse che era il più bello, il più colorato e il più tenero perchè, al posto di una linea e una livrea aggressive, era un po’ “sgarrupato”, come il suo padrone, e dicendo questo mi accarezzò i capelli, mentre io sentii la gioia riempirmi anche i polmoni. Ma durò poco, perché disse anche che non ci sarebbe mai salita. Ancora una volta sentii dentro di me la sensazione di essere stato abbattuto, ed ero tanto preso a cercare di rimettermi dalla “vite piatta” in cui mi trovavo che qyuasi non mi resi conto che Laura aveva detto qualcosa d’altro. “Scusa, non ho capito” dissi con dolcezza “stavo controllando le condizioni di questoi cavetto”. “ho detto che se prima fai un giro tu magari vedendoti poi mi convincerei a provare”. “Occhei” risposi sorridendo, e aggiunsi “farò un giro campo e poi atterro, ritorno qui al parcheggio e spengo. Se ti va prendi il casco e ti siedi qui, non preoccuparti delle cinture, te le allaccerò io.” Completai i controlli che mi sentivo già in volo. Del resto tutto il mio progetto di dichiararmi in aria stava per avverarsi; dovevo fare solo un giro campo, come per l’esame pratico: decollo, virata, volo in sottovento, virata in base, allineamento finale ed era fatta, da Laura mi separavano solo quattro manovre. Avviai il motore e le sorrisi. E sapendo che mi stava guardando feci tutto come da manuale, compresa la prova motore. Dopo la corsa staccai e salii con un angolo piuttosto basso ma costante, virai in modo perfetto, con una coordinazione degna del migliore autopilota e poi completai il circuito senza la minima oscillazione. Dopo poco più di un minuto ero in finale, perfettamente allineato e deciso a fare il migliore atterraggio della mia vita: via motore in corto, assetto tre gradi sopra l’orizzonte e ali livellate. Sulla soglia pista avevo circa un metro e mezzo di quota, lasciai scendere l’aereo ancoira un momento e poi, dolcemente, ricentralizzai la barra per la richiamata. L’ultraleggero obbediva: con la ruota anteriore alzata toccai la pista con una dolcezza quasi commovente, non sentii neppure le ruote appoggiate per terra, cominciarono solo a rotolare velocemente. Misi giù anche il ruotino e quindi lo lasciai rallentare un po’, fino a quando non frenai con decisione e diedi piede sinistro per liberare la pista. Mentre rullavo per il parcheggio cercavo Laura, doveva essere lì a guardarmi ma non la vedevo. “Eppure sarà qui, non può certo essere andata via, magari ha avuto bisogno di andare in bagno ma porca miseria, proprio adesso?” Le uniche persone che vedevo erano nascoste dalle porte dell’ahangr, ma una cosa individuai subito: la camicetta. Ora ero geloso, chi era quell’individuo vestito da topgun che le stava parlando? Per un attimo cercai nella memori chi, fra i piloti, non avrebbe perso l’occasione di tacchinarmi l’amica, anche se ormai ero abbastanza vicino per riconoscerlo: era il pericolosissimo Verilli, viscido quanto ricco ma maledettamente abile nel rimorchiare le fanciulle. Ero in pericolo, avevo un asso in coda pronto a tritarmi le penne, e cercavo dentro di me il modo per eliminarlo nel più breve tempo possibile. Spensi, scesi e mi tolsi il casco in fretta, mi avvicinai ai due, lanciai un ciao a lui sorridendo a denti stretti e dissi a Laura con un tono meravigliosamente calmo: “Eccomi, se te la senti andiamo”. Annuì. “Mi ha spiegato che con il suo aereo si può arrivare all’isola d’Elba con meno di due ore …” “Bè, sì, è molto veloce” blaterai “però anche con questo, in meno di due giorni ce la possiamo fare …” “andiamo dai” aggiunsi “il cielo ci aspetta”. Avevo fretta di portarla via dal campo visivo del Verilli, così, senza badare al suo stato d’animo, le misi il casco in testa e le feci sedere sul seggiolino. Le spiegai che cosa non doveva fare e dove non doveva mettere le mani, quindi mi infilai di nuovo il casco e mi sedetti. Con un gesto lento inserii gli spinotti dell’interfono  e dissi: “Mi senti?Tutto bene?” “Sìì” rispose, e mi sembrava che il tono della sua voce fosse tranquillo, un po’ emozionato ma nulla di più. “Se hai paura me lo dici e scendiamo, senza afferrare i comandi e soprattutto senza panico” “Va bene” rispose, e per la prima volta mi resi conto che ce l’avevo quasi fatta. Avviai il motore, controllai i comandi, che i caschi fossero allacciati, mi guardai in giro e tolsi i freni. Rullavamo tranquilli verso la testata pista, dove mi fermai per controllare che il circuito fosse libero e poi, con un “Andiamo!” diedi tutta manetta. Mentre acceleravamo le parlai, spiegando che stavamo per ruotare e quindi, ecco il momento, che ci eravamo staccati da terra. Presi quota con estrema dolcezza, le chiesi se andava tutto bene e rispose di sì, quindi virai verso il fiume per raggiungere un punto preciso, un posto che avevo trovato durante i miei voli in quei paraggi. Il mondo scorreva lento sotto di noi, ogni tanto rompevo il rumore di sottofondo con qualche commento sul paesaggio o sulla lettura degli strumenti, quando mi ricordai di aver preparato un’arma segreta: la musica! Diedi motore per prendere un po’ più di velocità, mi frugai nella tasca più grossa del giubbetto e trovai al tatto la presa della cuffia del lettore CD. Avevo masterizzato una compilation romanticissima: ora toccava a loro, a Baglioni, Phil Collins e Vasco aiutarmi, per trasformare quel volo in qualcosa di irripetibile. Cominciai col dire nel microfono: “Metto un po’ di musica” e spinsi sul pulsante play. Volare con la musica è qualcosa di stupendo, di indescrivibile. Del motore non rimangono che le vibrazioni e tutto sembra diverso, un po’ come vivere in un film. Eccoci, cercai il suo sguardo e lo trovai, volevo il suo sorriso ed era lì, era il momento di dirle tutto ciò che dovevo. Ancora un momento, oltrepassare quella collina e poi, la vista della cascata e della valle avrebbero fatto tutto, mentre io dovevo solo aprire la bocca e dirle le tre parole che avrebbero messo la musica in sottofondo e mandato il mio cuore ancora più in alto. Vedevo la collina, Laura, le ali, ma smisi di sentire l’accompagnamento del motore, che dopo aver borbottato per qualche interminabile manciata di secondi si spense. Laura mi guardò quasi incuriosita, mentre io mi voltai e capii subito: “Che pirla, la benzina!”. Mi ero dimenticato di fare carburante, possibile, proprio io? Eh già, prima volevo controllare tutto facendo quel circuito, poi c’era stato quel cretino di Verilli da evitare, ma accidenti, la colpa era solo dannatamente mia. “Tranquilla! Dobbiamo atterrare ma non è niente di grave” dissi in modo perentorio, “abbiamo quota e spazio a sufficienza”. La quota l’avevo, e tanta, ma su quelle colline lo spazio non lo vedevo proprio, e agitando la testa per vedere meglio trovai un prato in leggera pendenza, apparentemente senza fili elettrici in giro. Alla fine c’era una casa, se avessi messo giù il mezzo lì magari ci avrebbero soccorso subito, almeno lo speravo. Spensi l’interruttore generale, chiusi il rubinetto della benzina e, già con la barra a scendere,virai stretto per allinearmi al prato. Molti pensieri si accavallavano nella mia mente: ero preoccupato che non ci facessimo male, la figura di merda che ormai era inevitabile, e le parole di un vecchio pilota che volava in montagna, il quale un giorno mi aveva spiegato come atterrare sulle piste in pendenza. Picchiai il più possibile, incrociai i comandi per perdere quota e sentii Laura urlare. Le dissi di stare tranquilla ma con un tono irreale. Eccoci, ecco l’erba, ero ancora lungo ma non potevo farci niente, la collina era davanti a noi, sotto di noi, dieci metri di quota ed ero picchiato, richiamai e cercai di buttare giù le ruote ma eravamo troppo veloci, ci inclinammo a destra, provai a correggere ma toccai con il ruotino davanti. Il colpo fu forte, rimbalzai sul carrello principale, cercai di allineare e stavolta toccai giusto, eravamo per terra e interi, ma tutt’altro che fermi. C’erano arbusti che volavano dappertutto, rami che si spaccavano, ero andato troppo a sinistra e l’ala aveva toccato sui rami, diedi piede ma ci stavamo già girando e andavamo dritti verso un grosso cespuglio verde. Buttai le braccia verso di lei come per proteggerla ma sentii solo una gran botta, l’ultraleggero che si rialzava e poi un’altra botta terribile. Fermi. Riaprii gli occhi e vidi il viso di Laura con le lacrime. “Stai bene?” Un singhiozzo precedette un sì, “Riesci a muoverti?” “Sì” “Ti slaccio le cinture” aggiunsi, ma quando tentai di muovere il braccio sentii un dolore bestiale alla spalla. capii che un montante dell’abitacolo si era piegato e che il punto della piega era esattamente la mia clavicola. Usai l’altro braccio, mi alzai scavalcando tubi e rami e quindi la tirai fuori. Aveva un graffio sulla fronte che sanguinava un po’ ma stava bene. Un avolta in piedi tirai fuori il telefonino e le dissi di chiamare i suoi, dicendo loro che avrebbero dovuto accompagnarmi al pronto soccorso, ma non riuscii a finire la frase. Mi svegliai in ospedale ascoltando un brano di quel disco, avevo il collare rigido e una spalla fasciata. Lei era in piedi vicino al al letto, con un cerotto sulla fronte e il sorriso sulle labbra sottili. Le stesse che incontrarono le mie qualche secondo dopo.


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© 2001 Alberto Benchimol – Libreria Benchimol – Bologna << estratto dal volume “Azzurro Perfetto” >>


Sergio Barlocchetti

Le due rondini

rondini“Nell’antica Roma era ritenuta di buon augurio; si credeva che gli spiriti dei bambini defunti s’incarnassero in questi uccellini per poter visitare la loro casa e ancora oggi, nell’Europa centrale (specie in Germania e Ungheria) si raccomanda di lasciare una finestra aperta perché se una rondine entra in casa porta ogni sorta di felicità.”

Così recita il “Volario – simboli, miti e misteri degli esseri alati: uccelli, insetti e creature fantastiche”, splendido volume scritto da Alfredo Cattabiani (Mondadori) e questo scrive, in buona sostanza, Loredana Limone. Ma mentre il buon Cattabiani, studioso di storia delle religioni, simbolismi e tradizioni popolari, si limita a divulgare queste informazioni iconografiche, la nostra dolcissima Loredana invece, ne trae spunto (e che spunto!) tanto da regalarci una toccante favola che ha come protagonista una mamma e il suo bambino. E le due rondini allora, cosa c’entrano? Beh, leggete la fiaba e capirete … La favola che i fratelli Grimm o Andersen avrebbe voluto scrivere. Sublime!


Favola/ Medio-breve Pubblicata: nella raccolta di racconti “Il Trenino Arlecchino e altre storie”,(Edizioni associate) e acquistabile c/o IBS

Una domenica particolare

aereo grigio ala deltaL’aeroporto, gli alianti, e i piloti di volo a vela visti con gli occhi di un neonato. Le sue personalissime confessioni: equivoci esilaranti e situazioni grottesche a non finire.


Narrativa / Medio-lungo Pubblicato: inedito Note: inserito nella raccolta di racconti inedita “Voci di hangar”