L’aurora faceva capolino fra le cupe nuvole di peltro e di acciaio mentre una pioggia leggera e filamentosa scendeva penetrando tra i rami intricati e ancora nudi di un boschetto di querce.
Lentamente un’aria lucida e umida incominciò a fra i tronchi scuriti per poi appoggiarsi sui rovi e sui verdi ciuffi d’erba che riprendevano a vivere nella nuova primavera che sopraggiungeva con un po’ di lentezza. Il querceto si disputava lo spazio con una piccola macchia di pini che lasciava precipitare un fragoroso torrentello assediato da pallidi ranuncoli gialli che annegavano in un campo di girasoli ancora in boccio.
Un calabrone che amava trascorrere il suo tempo svolazzando sopra ai fiordalisi che qua e là spuntavano tra i ciuffi di ranuncoli ogni tanto annegati dall’acqua adamantina e fredda del torrentello, osservò affascinato una giovane falena che si mimetizzava sulla corteccia del tronco di un pino.
Era diventata indistinta, e poi, nell’atto di alzarsi in volo batté le ali tanto rapidamente che esse erano diventate vaghe come le eliche di un aeroplano e poi, d’improvviso aveva spiccato il volo allontanandosi dal pino su cui era posata. Il calabrone l’aveva guardata sentendosi incantato ed affascinato dalla grazia di quelle ali, tanto che le volò a fianco e le disse: «Mi piaci così tanto che vorrei sposarti…»
La falena domandò sorpresa: «E perché vorresti sposarmi?»
«Perché le altre farfalle sono troppo appariscenti e non mi sono simpatiche come mi sei simpatica tu! E poi ti confesserò che la tua umiltà mi ha colpito…»
Queste parole lusingarono molto la falena dalle ali color nocciola, la fecero sentire importante e bella, tuttavia scrollando il capo rispose gentilmente: «Non so se mi sarà possibile accettare…io sarei felice ed orgogliosa di diventare tua moglie, ma non so se sia il caso…»
«Perché esiti?», le domandò il calabrone sbattendo le ali in un forte ronzìo. «Che cosa ti trattiene? Non ti piaccio forse?»
«No! Non si tratta di questo…Credo che sarebbe opportuno se chiedessi il permesso a mia madre.»
«Perché temi tanto l’autorità di tua madre? E’ forse cattiva nei tuoi confronti?»
«No, non si tratta di questo…è che sono giovane e …»
«Va bene, visto che sembri temere molto tua madre,» aggiunse il calabrone con piglio risoluto e deciso, «verrò io a chiedere la tua mano.»
«Non so se questo potrà servire per convincerla, lei ha sempre sostenuto che non dovrei sposarmi…»
«E perché mai?»
La giovane falena esitò prima di rispondere, poi, interrompendo il suo volo per posarsi sopra un filo d’erba ingiallito, aggiunse d’un fiato: «Non preoccuparti, cercherò di convincerla…non preoccuparti, vedrai che ce la faremo.»
«D’accordo, vorrà dire che questa sera passerò a prenderti, prima che il sole smarrisca la sua luce nell’aria frizzante della sera io sarò da te!»
«Davvero?», domandò la falena soddisfatta. «Davvero verrai?»
«Certamente!», concluse il calabrone volando via velocemente e lasciando la falena sorpresa e frastornata per quanto era accaduto. Si sentiva al settimo cielo per la felicità, e quando giunse al pino dove la madre soleva riposare le raccontò tutta la storia con fare allegro e spensierato. Ma la madre non si felicitò con lei, né si rallegrò per la proposta di matrimonio del calabrone, e con tono piuttosto dispiaciuto le disse: «Tu non puoi sposare quel calabrone! Lo sai che a noi falene è severamente vietato contrarre matrimonio…»
«Ma perché?», domandò la piccola falena con la delusione nella voce. «A me piace quel calabrone…è così forte, robusto, deciso…Mamma, ti prego! Permettimi di sposarlo!»
«Figlia mia, io vorrei che tu fossi felice, ma sai quanto volubili siamo noi falene…siamo farfalle sciocche che si lasciano incantare e tu lo sai benissimo piccola!»
«Ma a te non è mai accaduto nulla!»
«No, ancora no, ma potrebbe sempre succedermi…»
«Non è vero, se non è accaduto nulla fino ad ora non accadrà più, e se non è capitato a te non capiterà nemmeno a me: se mi permetterai di sposare il calabrone ti giuro che non mi lascerò attrarre nè distrarre…te lo giuro mamma!», e tanto continuò a pregare, a supplicare, a implorare, che la madre si sentì costretta a dare il proprio consenso.
«E va bene!», esclamò spazientita. «Quando il calabrone passerà a prenderti gli darò il mio consenso per il matrimonio e non dirò nulla del nostro segreto…però tu non dovrai mai, mai e poi mai lasciarti attrarre e ingannare da ciò che sappiamo!»
«Lo giuro mamma! Lo giuro…sarò una buona moglie e lo farò felice sì, lo farò felice!», esclamò la giovane falena fermamente convinta di quel che aveva asserito. «Lo prometto…»
«Non giurare e non promettere. Quante volte ti devo insegnare che le promesse e i giuramenti sono inutili? Cerca di impararlo una volta per tutte prima che io cambi idea sul tuo matrimonio…»
La giovane falena non spiccicò una parola di più, e dopo che il calabrone era passato a prenderla ottenendo l’approvazione e la benedizione della madre partì per il volo nuziale.
Un volo meraviglioso dentro l’aria della sera che stava imbrunendo e annegava nel crepuscolo che filtrava nell’intricato intreccio delle querce che li sovrastavano. Al mattino seguente, mentre le ghiandaie cantavano e la timida luce dell’aurora avanzava fendendo le nuvole argentate, il calabrone e la giovane falena ripresero il dolce volo interrotto la sera precedente perché la notte era calata d’improvviso sopra il loro piccolo mondo costringendoli al riposo. I fiori dei prati rallegravano il volo degli sposi spalancando le loro corolle e il calabrone, con fare orgoglioso e sapiente, raccontava alla falena storie di api, di formiche, di farfalle variopinte e di vespe sue parenti. E volavano felici e spensierati nell’aria limpida della vallata che ogni tanto veniva percorsa da leggeri soffi di vento, mentre lo sposo insegnava alla sposa il nome dei fiori che incontravano lungo il loro viaggio: le indicò il bianco dei petali di margherita, il giallo solare dei ranuncoli, il viola slavato dell’erica che stava appassendo, e il contrastante violetto acceso e splendente delle mammole che sprofondavano dentro ai folti ciuffi d’erba bagnati di rugiada. Dopo aver volato insieme per ore ed aver visitato campi di velluto verde ripresero la via del ritorno. Giunti al loro luogo natale il calabrone incominciò a costruire un nuovo nido. La falena si sistemò provvisoriamente sulla corteccia di un pino che si ergeva a pochi metri da una casa disabitata i cui muri esposti a nord erano ricoperti di muschio e di vecchissima edera dalle foglie consunte e leggermente ingiallite. Il nido che il calabrone stava costruendo piaceva molto alla falena che pensava tra sé e sé: «Come sarò felice!», ingenuamente convinta di riuscire a sfuggire alla propria sorte. «Saremo sempre felici io e lui…sempre, sempre, sempre!»
Con l’animo che traboccava di speranza incominciò a sistemare il nido in modo da renderlo più accogliente possibile; il calabrone era soddisfatto della collocazione che aveva trovato anche se avrebbe preferito andare ad abitare nei pressi della città, però la falena lo aveva pregato di non condurla a vivere in un luogo rumoroso e pieno di confusione che è tipica degli uomini, e lui, poiché l’amava infinitamente, l’aveva accontentata in tutto e per tutto. L’amava, ed amandola non desiderava altro che la sua felicità.
In quella primavera gli sposi si dilettarono a volare sopra macchie di susini in fiore che dominavano giovani noccioli dalle infiorescenze pendule, lungo corsi di ruscelletti bordati da primule gialle che parevano topazi, e dentro la loro acqua fredda i ciuffi di miosotide si lasciavano frustare dalla forza della corrente che sembrava volerli strappare dalla terra. Anche nell’estate del loro matrimonio tutto proseguì magnificamente, e volando sopra il loro piccolo mondo, il calabrone non perdeva mai l’occasione di insegnare qualcosa alla sua giovane falena: le indicava il rosso sangue dei papaveri che occhieggiavano dagli umbrertosi e dorati campi di grano nei quali pareva essere sprofondato il sole, le mostrava l’azzurro del cielo specchiato nei fiordalisi e negli amorini, la fragilità dei soffioni i cui frutti sottili simili ad acheni, sormontati da un pappo piumoso a forma di ombrello, si staccavano con estrema facilità ad un lievissimo soffio di vento per poi restare sospesi in aria e vagare come farfalle, le narrò che gli uomini, scherzosamente, dicevano che sarebbe stato un bugiardo colui che non sarebbe riuscito a staccare dal ricettacolo tutti i frutti che vi si sarebbero trovati.
La falena, quando non trascorreva tutto il suo tempo in volo con il calabrone si occupava delle faccende di casa e non mancava mai di fare visita alla madre per dimostrarle che era una falena saggia poiché aveva scelto di abitare in un luogo isolato e di conseguenza lontano da ogni tentazione che avrebbe potuto distrarla e ingannarla: «Vedi mamma,» era solita dire, «io voglio bene al calabrone e non lo farò mai soffrire…non farò nulla che possa dispiacergli!»
Sua madre l’ascoltava con l’animo oppresso da brutti presentimenti anche se nel sentire i buoni propositi che la giovane figlia dimostrava di coltivare non avrebbe dovuto coltivare nessun dubbio e nessun timore. Ma ciò che preoccupava la madre era la consapevolezza di sapere che nessuno può sfuggire al proprio destino per quanto impegno possa mettere nella fuga, ed in virtù di questa sua convinzione non scordava mai di raccomandare alla figlia di stare all’erta, di prestare una particolare attenzione ai pericoli ed alle tentazioni poiché avrebbero potuto intralciare il cammino della sua vita quando meno se lo sarebbe aspettata, ma la giovane falena, con la cocciutaggine e la testardaggine tipiche dell’età, le rispondeva sempre: «A me non accadrà nulla di brutto perché so badare a me stessa!»
Al che la madre aggiungeva accorata: «Non scordare il nostro segreto!»
«Va bene mamma, non lo scorderò…non ci sono pericoli dove ho fatto costruire il nido al calabrone…non crucciarti perché io mi so destreggiare…»
E la madre, restando poi da sola, sospirava forte pensando: «Ah, se davvero fosse così…»
Dicendo che il nido del calabrone era stato costruito lontano dai pericoli, la falena aveva detto la verità alla madre. Ciò che aveva preferito nasconderle senza alcun motivo apparente, era invece l’esistenza di quel pino quasi addossato ad una vecchia casa, sul quale lei amava sostare. Improvvisamente, nello scorcio di un cupreo pomeriggio di fine estate, dentro una stanza di quella costruzione diroccata ed impolverata, comparve un tenue chiarore vacillante, oscillante ed irregolare. La falena che proprio in quel momento si era posata sul tronco del pino, restò immobile, attonita e sorpresa, nell’osservare quella sorgente di luce che tremava. Un violento brivido le sferzò il corpo, lo sgomento le incatenò la mente e spaventata ritornò al proprio nido dove fece il possibile, ed anche l’impossibile, per mascherare e nascondere la sua ansia al calabrone. Ma poiché lui l’amava e l’adorava, si accorse subito che lei non era come sempre, che qualcosa la turbava e la preoccupava; spinto da una premurosa sollecitudine le domandò: «Che cosa è accaduto oggi mentre sono stato al querceto?»
«Perché mi fai questa domanda?», chiese lei con fare nervoso ed irritato. «Che cosa temi che accada in questo luogo tanto isolato? Niente, niente di niente di niente!»
Quella risposta troppo precipitosa, non servì a tranquillizzare il calabrone che seguitò ad essere preoccupato per la sua giovane sposa.
Intanto, ogni sera il bagliore tremolante continuava a rischiarare quella finestra incorniciata dal muschio umido mentre la falena si incantava ad osservarla, preda di un violento batticuore fino al momento in cui, non riuscendo più a trattenere la curiosità si avventurò sul davanzale attraversato da vecchi rami di edera ingiallita e vide nella stanza, un vecchio comodino sopra al quale era stata appoggiata una candela che gocciolava…e ardeva bruciando con una fiamma vaga e debole che a tratti si impennava oscillando come se fosse stata preda di un violento spasimo. La falena avrebbe desiderato immensamente entrare in quella stanza, ma la finestra era chiusa e sigillata dall’intrico dell’edera consunta.
Il calabrone, che non conosceva il segreto delle falene, non poteva avere nessun sospetto sul conto della sua giovane sposa, non poteva immaginare la forte e tempestosa attrazione che lei sentiva verso quella sorgente di luce, ed ignaro, permetteva che tutte le sere al tramonto si recasse sul davanzale di quella finestra. Ed ogni sera di più, di più, di più la falena si sentiva dominata, stregata ed affascinata da quel fioco lume tremolante che le appariva triste e malinconico come lo era lei. Piano piano, con il morire dei giorni, si convinse che quella fiammella sarebbe stata felice di conoscerla, e che se l’avesse avuta al suo fianco avrebbe arso e bruciato con più forza e vigore. Col sopraggiungere delle prime foschie autunnali la falena era tanto cambiata, deperita e intristita che il povero calabrone non sapeva più che cosa dire né cosa fare per non vederla patire come in quell’ultimo periodo. Gli alberi stavano perdendo le foglie che, secche e vizze, si lasciavano trasportare in aria dai mulinelli dl vento, mentre la falena continuava a desiderare quella luce fioca, e nei crepuscoli arborei andava a guardarla e ad ammirarla.
La candela, dimenticata accesa da qualcuno che era entrato in quella casa disabitata, si stava consumando e la falena non riusciva a rassegnarsi di non poter avvicinarsi a lei. La fatalità decretò che la pressione dei rami di edera, e l’umido del muschio scivoloso, riuscissero a far marcire il legno del telaio di quella vecchia finestra che lasciò cadere il vetro. Fu così che la falena in quella sera umida e nebbiosa riuscì ad entrare nella stanza dove ardeva la candela dalla fiammella oscillante; vedendola così da vicino si commosse e la desiderò in modo intenso e spasmodico. Si sentiva felice come mai lo era stata con il calabrone. Osservava con estatico rapimento quella tremula fiammella e le volteggiava intorno. E volava, volava, volava intorno a quel lume pur sentendosi stanca e sfinita.
L’oscurità stava bagnando di nebbia tutto il bosco rendendolo indistinto, vago ed irreale mentre in lontananza si sentiva la voce disperata del calabrone che cercava la sua sposa. La chiamava con un tono intriso di dolore disperato mentre lei continuava a volteggiare attorno alla candela, era incapace di fermarsi e ad ogni giro diminuiva la circonferenza del suo appassionato volo. Non badava alla fiammella che le si avvicinava perché era ciò che desiderava: a lei bastava restarle accanto, vicino, tanto vicino da sentirne il calore. E proseguì nel suo volo impazzito fino al momento fatale in cui riuscì ad unirsi al suo amato fuoco ed a morire in lui.
Intanto, mentre la nebbia filtrava tra gli umidi rami delle querce e le ghiandaie si ribellavano al silenzio ovattato del crepuscolo autunnale, il calabrone seguitava a chiamare e a cercare con ostinata e mortale disperazione il suo amore di falena. La cercò fino a quando, esausto e sfinito dal primo rigore d’autunno, precipitò a terra agonizzante ed una foglia di quercia, arruffata e vizza ma ammorbidita dall’umido della nebbia, lo accolse in un caldo abbraccio.
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