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Geo Chavez, alata avventura


Esistono tanti modi per fare divulgazione storica come pure esistono soluzioni originali per insegnare ai bambini la storia, per appassionarli alle vicende e ai personaggi che hanno animato il passato.

Uno splendido primo piano del motore e dell’elica che spinsero il velivolo Bleriot XI di Geo Chàvez fin sopra le Alpi. Il motore era un radiale rotativo a 7 cilindri Gnome Omega capace di sviluppare soli 50 cavalli di potenza. Era raffreddato ad aria (il motore ruotava assieme all’elica per migliorare il raffreddamento) e lubrificato con olio di ricino. L’elica bipala di legno produceva la trazione necessaria a farlo volare ruotando al massimo a 1250 giri al minuto. Ovviamente elica e motori ritratti nella fotografia non sono originali ma appartengono al velivolo replica di quello con il quale effettuò il volo Geo Chàvez.

Rosa Danila Luomi, insegnante elementare in pensione, ce ne fornisce un esempio illuminante con il suo singolarissimo racconto “Geo Chàvez, alata avventura” con il quale ha partecipato, senza godere dei favori della giuria, alla VI edizione del Premio fotografico/letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE.

La composizione non è stata ritenuta meritevole di avere accesso alla fase finale dell’iniziativa promossa dal nostro sito e dall’HAG, tuttavia approda nel nostro hangar con grande giubilo da parte nostra. Inutile negarlo. Certo, l’autrice ne se sarà amareggiata, ma sappia che gode del nostro più sincero apprezzamento giacchè ci consente anzitutto il privilegio di leggere un racconto inusuale e poi, soprattutto, ci concede l’opportunità di poter ricordare le gesta di Geo Chàvez, appunto, che è poi è lo scopo ultimo di questo cameo narrativo.

Ma andiamo con ordine.

Che il Bleriot XI sia un aeroplano fotogenico è evidente … ma che il fotografo sia stato al posto giusto nel momento giusto e pure con una buona macchina fotografica beh … questo è indiscutibile. Il titolo di questa foto: “Azzurro” (da Flickr.com). Qualora vogliate sapere di più dell’impresa di Geo Chàvez o vi affascini la figura di questo ingegnere con genitori peruviani, nato a Parigi ma adottato dagli italiani, vi suggeriamo di visitare l’ottimo sito web http://www.jorgechavezdartnell.com che costituisce una vera fonte di divulgazione di storia aeronautica. 

Siamo nel 1910 e, se da una parte, l’aviazione è considerata ancora una pratica pericolosa riservata a pochi rompicollo dell’aria, dall’altra, per gli audaci pionieri del cielo si sono appena aperti sconfinati orizzonti di gloria.

E’ ancora vivida, ad esempio, l’impresa compiuta nel luglio del 1909  che ha consentito all’ardimentoso pilota francese Louis Bleriot di attraversare La Manica, lo stretto braccio di mare che separa il continente europeo dall’isola britannica. Per la cronaca, impiegò la bellezza di 36 minuti volo alla media di 64 km/h; oggi lo stesso tratto si percorre in un tunnell sotterraneo in una manciata di minuti, comodamente seduti nelle poltrone di un confortevole convoglio ferroviario …

Il Bleriot XI è un velivolo che ha stabilito diversi primati nell’ambito della storia dell’aviazione mondiale. Anzitutto, pilotato dal suo costruttore Louis Bleriot, attraversò il canale della Manica, quindi, per merito di Jorge Chávez Dartnell superò le Alpi. Questo come impiego civile … ma per uso militare? Ebbene nel 1911 fu utilizzato durante la Guerra di Libia per il primo volo di ricognizione della storia militare. A pilotarlo era il capitano italiano Carlo Maria Piazza. Ma non solo: qualche giorno dopo lo stesso pilota/velivolo si cimentarono nel primo bombardamento aereo effettuando il lancio (a mano) di bombe di 2 kg. sugli accampamenti nemici. Qualche mese dopo, sempre il Cap. Piazza con un Bleriot XI, furono i primi ad effettuare una ricognizione fotografica aerea. A bordo c’era una macchina fotografica Bebé Zeiss. Niente male per un aeroplano di 350chili a vuoto fatto per lo più di frassino e di tela di cotone!

Ma non divaghiamo … sull’onda dell’impresa di Bleriot, dicevamo, i continentali europei potevano essere da meno? Certo che no! Ed ecco allora che, l’Aeroclub di Milano e il Corriere della Sera, in occasione del Circuito Aereo Internazionale di Milano del settembre 1910, mettono in palio un congruo montepremi per chi per primo riuscirà a valicare le Alpi. Ebbene quell’uomo sarò Jeorge Chàvez Dartnell, ricordato confidenzialmente da tutti come: Geo Chàvez.

Per dovere storico siamo tenuti a precisare che Geo decollò da Briga, in Svizzera, e, dopo aver effettuato due tentativi infruttuosi (a causa delle avverse condizioni meteo), atterrò rovinosamente a Domodossola dove precipitò al suolo da un’altezza di circa 20 metri.

A ricordare il luogo dove si compì il tragico destino di Geo Chàvez c’è oggi questo cippo. Il pilota peruviano riportò ferite gravi ma non gravissime tanto che fu trasportato ancora in vita presso l’ospedale San Biagio di Domodossola dove rimase ricoverato ben quattro giorni prima che le sue condizioni si aggravassero irrimediabilmente. Aveva riportato fratture agli arti e svariati tagli. Le prime gli furono ridotte o steccate mentre le seconde gli furono suturate. Alla luce delle moderne conoscenze mediche forse, e sottolineiamo forse, la vita di Geo sarebbe stata salva ma all’epoca, evidentemente … Anzitutto non venivano praticate trasfusioni nè somministrazioni di liquidi via endovena, figurarsi l’erogazione di ossigeno. Nella cartella clinica risultano invece: olio canforato, tinta di digitale e liquore anodino di Hoffman, acquavite tedesca e poco più, Alle ore 14,55 del 27 settembre 1910, Jorge Antonio Chàvez Dartnell venne dichiarato morto per arresto cardiaco. Aveva solo 23 anni. Il suo corpo terreno ci aveva lasciato per sempre, il suo mito era appena decollato verso i cieli della storia.

Il suo monoplano Bleriot XI, costruito per lo più in legno e tela, era stato messo a dura prova dai voli in montagna e incappò in quello che oggi chiameremmo: cedimento strutturale. Le semiali si chiusero sulla fusoliera e Geo fu letteralmente ritrovato, neanche gravemente ferito, sotto ai rottami del suo stesso velivolo.

Era il 23 settembre 1910 e un’altra tappa della storia dell’aviazione era stata scritta.

Ora, ricordare brevemente le vicende di Geo Chavez, ospiti in un hangar come il nostro, tra appassionati di volo o anche tra semplici curiosi di aviazione, apparirà alquanto banale; viceversa, tutta altra sfida è farlo con dei bambini, proverbialmente disinteressati e oggi fin troppo tecnologici, più inclini ad appropriarsi del proprio futuro che non a recuperare il passato altrui.

Benché siano stati costruiti ben oltre 130 esemplari di Beriot XI (alcuni su licenza dall’italiana S.I.T. – Società Italiana Transaerea di Torino), quello ritratto in questa foto è l’unico volante, fatto salvo che non si tratta di un velivolo originale bensì di una replica costruita dallo svedese Mikael Carlsson per conto dell’imprenditore italiano Giuliano Marini. Lo scopo, peraltro raggiunto, era di farlo volare in occasione del 100° anniversario della traversata delle Alpi nel corso di una memorabile manifestazione tenutasi a Masera. In verita esso fu concesso in prestito a Volandia a fare bella mostra di sé all’interno di uno splendido stand del museo dell’aeronautica (e non solo) di Milano Malpensa ma vederlo in aria è tutta un’altra storia, non trovate?. Rimanendo in tema di musei, occorre precisare che, in Italia, c’è un solo museo dell’aria che annovera un Bleriot XI nella sua collezione. Si tratta del Museo storico dell’Aeronautica Militare Italiana di Vigna di Valle (Roma) che dispone di un rarissimo quanto preziosissimo velivolo biposto originale ma, evidentemente non volante.

Come fare, cosa fare?

Inventare una storia? Dare un alito di vita al personaggio? Coinvolgere l’interlocutore sempre distratto stimolandone la fantasia? Fargli rivivere le medesime sensazioni che l’eroe-protagonista provò realmente? Recandosi nei luoghi che lo videro compiere quelle sua gesta? … ebbene “Geo Chavez, alata avventura” è la cronaca di questo esperimento, è il resoconto di come sia possibile far appassionare un nipotino di soli nove anni a una storia lontana più di cento.

Complice l’ottimo fondale,  avremmo potuto tranquillamente additare il velivolo ritratto come quello originale con cui Geo Chàvez compì la sua impresa … in realtà si tratta di una replica e lo scatto risale al 2016 e all’interno di Volandia, uno dei più grandi musei dell’aria del nostro paese. Questo Blériot XI è una riproduzione costruita in Svezia da Mikael Carlsson per Giuliano Marini per il 100° anniversario della traversata delle Alpi. Monta il motore rotativo Gnome Omega n° 1057. (foto proveniente da www.flickr.com)

E di questo siamo grati alla nostra Rosa Danila perchè, almeno con noi, che nove anni li abbiamo compiuti da qualche lustro, ha funzionato. Non farà testo, ma il suo racconto ci ha appassionato, ci ha costretto ad appronfondire, a cercare le foto e i siti web che celebrano o comunque ricordano la figura del giovane pilota peruviano. E brava Rosa: missione compiuta!

E per concludere questa breve scheda critica, vi riportiamo la breve sinossi elaborata dalla stessa autrice:

“Una storia vera raccontata con semplicità , la storia di Geo Chavez  ricostruita  per far nascere curiosità ed entusiasmi.

Questo eroe dell’aria per tanti anni dimenticato, in occasione del centenario della sua impresa, si è riproposto quasi prepotentemente all’attenzione di tanti e per lui sono stati organizzati spettacoli, celebrazioni, gemellaggi.

Tutto il Verbano, Cusio e soprattutto l’Ossola hanno  ripercorso passo passo la storica trasvolata delle Alpi e magicamente Geo Chàvez ha ripreso vita comunicando gioia e spirito d’avventura.

I magici giorni che ho vissuto con Giacomo ripensando e rivivendo quel volo straordinario sono stati unici ed emotivamente intensi: oggi quando insieme ne parliamo quasi non ci sembrano veri . Ma è successo ed è stato uno dei tanti regali che Giacomo ha saputo farmi. Gliene sarò sempre grata.

Perché ho scritto questa storia? E’ semplice … perchè temo di dimenticare .”


Narrativa / Breve

Inedito;

ha partecipato alla VI edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2018;

in esclusiva per “Voci di hangar”

La guerra è sempre la stessa

aquila arrabbiataUn racconto che parla della paura. Come nasce, si mostra e di come si cerchi di neutralizzarla. Paure diverse vissute in una famiglia lambita da fatti di guerra. Fatti che provocano grossi ripensamenti sulle scelte di vita, senza cambiarle, solo dandone consapevolezza.

La storia di una donna ormai vedova che, dopo una vita passata ad aver paura di perdere un caro, si trova provvidenzialmente pronta a respingere la paura.



Narrativa / Medio-breve Inedito; ha partecipato alla III edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole”, 2015; in esclusiva per “Voci di hangar”

Girogirotondo

Coro unanime di consensi alla festa dell’asilo:

“GIRO, GIRO TONDO…” 12 piloti ed allievi in volo per i bimbi di Almenno S.S. • Violato il “green” del Golf Albenza • Più volte centrata la buca n. 1 • Meno di una dozzina le vittime tra i piccoli • Scippata la pellicola ad una suora

Su invito ufficiale dell’esclusivo (e pure un poco snob) Golf Club l’”Albenza”, nonché dell’asilo di Almenno S.Salvatore, 12 tra piloti ed allievi, più un paramotorista (Fulvio) del Volo Libero Bergamo sono atterrati sul “green” della buca n. 1, centrando più volte il bersaglio (anche di schiena), accanto al quale erano radunati in allegra scampagnata bimbi e maestre dell’asilo. Una festa per i piccoli (o almeno per quelli sopravvissuti) e poche decine di milioni di danni a carico degli impettiti soci del golf. Sicuramente, restituendo le palline trovate in questi anni sparse nei prati tutt’intorno al recinto del club si potrà pareggiare il conto (a pro-posito: ma che cavolo di mira hanno questi golfisti?). Ecco l’elenco dei partecipanti al raid: Noemi, Cesare, Giorgio “stallo”, Elena, Olivo, Katia, Gustavo, Roberto Biffi, Fausto, Eugenio, Davide Pini e Cristina “pettine” che pure in questa occasione non ha mancato di richiamare l’attenzione sulle sue grazie, per altro senza richiesta alcuna da parte dei presenti. Noemi ne ha approfittato per fare un biposto all’allievo Cesare, la cui testa accuratamente rasata assomigliava ad una grossa pallina da golf. Forse gli si era accapponata la pelle per la paura. Alla fine a Gustavo è stato concesso l’onore di una foto con maestre e bambini. Anzi, più che concesso se l’è preso da solo, sequestrando poi la pellicola alla mite suora che si era prestata a scattare l’immagine.


# proprietà letteraria riservata #


Gustavo Vitali

Il gesto

    [ Capita che l’uomo, anche se mutilato di ciò che e’ suo, continui a vivere e poi rinvigorisca ciò che gli è rimasto. Come una pianta che potata, cresce nuovamente e prospera con un unico scopo: unirsi al cielo sopra di sé. ]  

 

Bello il tempo al suo variare in quei giorni in cui l’estate lascia il posto alla nuova stagione. Il sole ancora caldo sembra amico finché una nube, più veloce dell’ancora lontano fronte scuro e minaccioso, lo copre. Ed allora, solo allora, provi una prima sensazione di freddo, repentina e veloce, come la corsa della nuvola che presto si scosta. Subito risenti la pelle scaldarsi come se nulla fosse stato. Guardi la parte sgombra del cielo, luminoso e fulgido con i raggi che scintillano sull’acqua del mare come tante stelle, ma là in fondo il fronte avanza e segna la nuova stagione.

Così vedeva Luca il cambiare del tempo in quei giorni sulla costiera.

Quel pomeriggio si era recato su, al bastione saraceno. Aveva percorso prima la lunga strada lastricata ed infine era arrivato al castello dove erano state antiche fortificazioni per le lunghe notti di veglia delle sentinelle. Il lato del bastione che dava sul mare era imponente, aveva resistito al tempo ed alle tempeste, e da lì si potevano ammirare di pomeriggio, quando il vento soffiava tiepido,i marosi che impetuosi si frangevano sulla scogliera, improbabile punto di approdo di invasori e nemici.

Sulla cuspide di roccia all’estremità destra del bastione stava la torre.

Lì si poteva osservare lo spettacolo dei gabbiani che giocavano con il vento. Il vento, batteva sull’alto muraglione, e poi fuggiva, veloce e verso l’alto, e così gli scaltri uccelli si avvicinavano alle mura rasentando le onde per poi salire in traiettoria verticale e senza un battito d’ala. Passavano a pochi metri dallo sguardo di Luca che li ammirava nell’imponenza della loro apertura alare e mentre muovevano la testa a destra e a sinistra, con fare noncurante, come a godersi il paesaggio durante un riposo. Arrivati molti metri più in alto il vento li lasciava, ed ecco allora che loro muovevano un’ala in maniera impercettibile e con un’ampia virata, morbida ed elegante tornavano indietro, giù in basso, a rasentare nuovamente le onde, per ripetere il carosello senza fine.

Guardò in alto Luca a seguire il volo di uno di essi, poi portò mani vicino alle labbra, con le palme aperte, come ad amplificare il suono che avrebbe emesso, infine lanciò verso il cielo un verso simile al grido ed al gracidio. Lo aveva imparato da un suo amico pescatore che talvolta accompagnava nelle sue uscite in mare. Si alzavano la mattina con il buio, uno per vivere, l’altro per divertirsi, ed uscivano in mare con il gozzo. Il pescatore, aveva insegnato a Luca nelle brevi pause dopo mangiato, come fare ad imitare quel verso. In realtà non chiamava i gabbiani, ma chiamava un gabbiano che con il passare del tempo era diventato suo amico e compagno di pesca. Quando il gabbiano era presente nella moltitudine che volava sopra la sua testa, allora gli rispondeva.  Così Luca aveva imparato a sua volta a chiamarlo, a riconoscerne le fattezze ed in qualche modo ad esserne amico e compagno. Poi il pescatore partì, tirò il gozzo a secco in un posto riparato ed emigrò dove gli sarebbe stato più facile vivere. Luca, fortunato, era rimasto, e con lui era rimasto anche il gabbiano che saltuariamente rispondeva al suo richiamo al bastione. Quel giorno probabilmente il gabbiano era altrove e quello che Luca aveva creduto di riconoscere non era altro che un semplice volatile.

Luca ammirava la perfezione del volo di questi uccelli. La gestualità naturale che li portava a compiere evoluzioni, a vivere nel vento e a sorprenderlo con la loro eleganza nei giochi al bastione. Tanti anni prima, da giovane, Luca volle provare la sensazione del silenzio che solo nel vuoto si può sentire. Si imbracò, salì e saltò. La delusione fu grandissima, non riuscì ad abbracciare l’aria come avrebbe voluto; il suo essere uomo lo aveva richiamato alla paura del vuoto e così si rannicchiò in posizione fetale finché non rimase appeso ad un paracadute che gli dava la sensazione di galleggiare nel vuoto. Nel silenzio, si certo, nel più profondo silenzio, però in una maniera che era un trucco e non certo la perfezione del volo.

Gli rimase il sogno. Capitava a lui di sognare di volare, ed ecco che con le braccia aperte e senza minimo battito volava e picchiava verso le onde e la spiaggia per poi cabrare e stallare e riprecipitare in un gioco senza fine. E sempre nello stesso sogno, a volte, si vedeva dall’esterno, sgraziato, nudo, volare con le sembianze rigide di un Cristo tolto dalla croce. Non era importante volare, ma come volare. Apparteneva definitivamente alla terra.

Si accorse che anche l’acqua era pur simile all’aria e che anche il più elegante nuotatore, sbuffava, digrignava, sbatteva sull’acqua delle membra per un risultato davvero misero. Si appassionò cosi ogni giorno di più alla gestualità e cominciò a scrivere l’alfabeto.

Dapprima minuscolo, poi maiuscolo, poi le parole ed infine a scrivere da sinistra a destra e da destra a sinistra. C’era una frase, che in particolare sapeva scrivere con un’eleganza che raggiungeva per lui la perfezione della calligrafia. Presto dovette però soccombere anche a ciò e capì che erano solo dei diversivi, dei rivelatori per qualcosa di più grande che doveva invece appartenere all’uomo in qualche parte della sua esistenza. Probabilmente ciò era nella quotidianità, nei gesti più semplici, nel raggiungere la perfetta consapevolezza del momento presente, senza il passato a turbare la mente, senza il futuro con false chimere a distoglierci dall’attimo. Quello che vedeva intorno a sé era invece un tumulto di pressioni, persone che rimbalzavano, spinte, tirate, strattonate in una rappresentazione di disordine universale.

Si avviò verso casa, un po’ preso dai suoi pensieri ed un po’ contento di essere stato al bastione. Costeggiò il molo del piccolo porticciolo che nel pomeriggio riparava le barche dal mare agitato e vide giù presso una grossa bitta Andrea.

Andrea era un vecchio, suo amico, con il quale divideva un po’ del suo tempo quando poteva e quando lo incontrava giù al molo a pescare. Andrea era cieco, lo accompagnava lì la nipotina, sebbene fosse in grado di arrivarci anche da solo, e stava seduto sulla sua seggiolina a pescare in silenzio e con i suoi occhiali scuri ed il cappello di paglia. Era vestito sempre in maniera molto semplice, con una camicia vecchia, ma pulita, ed i pantaloni ricuciti qua e là. Sicuramente non era ricco, ma pieno di dignità e portamento. Pescava con una vecchia canna di bambù, di tipo oramai introvabile e di cui lui si vantava non avere spezzato il cimino da anni. La montava lentamente e con gesti misurati riusciva a trovare la scatola posta per terra, lì vicino, che conteneva la lenza. La prendeva, la annodava e si preparava a gettare l’esca.

Luca si avvicinò ad Andrea e lo salutò, con la voce piuttosto fioca, come si usa con i pescatori. Andrea si voltò e sorrise mostrando tutto il disegno delle rughe sul volto. “Come và?” disse Andrea. “Bene, sono stato al bastione” rispose Luca. “Al bastione, a sentire i gabbiani ” mormorò il vecchio quasi fra sé. “Sì, a vedere i gabbiani” rispose Luca. Andrea pescava seduto, con i gomiti appoggiati alle gambe e proteso leggermente in avanti e tenendo la canna lievemente, quasi in equilibrio nella mano destra. Non usava il galleggiante, era oramai diventato attentissimo ad ogni minima vibrazione e ciò gli bastava. Passavano il tempo senza parlare troppo, a volte basta la presenza per capirsi.

Ad un tratto, senza alcun preavviso, Andrea mosse il polso in maniera decisa ma non strattonata ed accompagnò il movimento alzandosi in piedi. In quel momento Andrea aveva in mano la canna che era piegata in un’ampia curva e la teneva con padronanza, salda, e seguendo il pesce con piccoli movimenti a destra e a sinistra.Teneva la lenza sempre in tensione, ma senza strapparla e questa, invisibile, univa il vecchio, che apparteneva alla terra, dalla curva del bambù fino in acqua dove, forte ed elegante, un muggine lottava per la sua libertà. Portò il pesce fin sotto, ed infine con maestria lo tirò fuori dall’acqua, e lo posò sul molo. Appena la tensione della lenza venne meno il pesce si slamò: guizzava per terra, senza più alcuna bellezza, alla ricerca disperata dell’acqua. Allora Luca vide Andrea davvero cieco, senza più sguardo, fisso davanti a sé. Si chinò, bagnò le mani sul pelo dell’acqua, prese il muggine e lo buttò in acqua.

Clock. Un rumore secco, armonioso. Il pesce con un solo movimento rapido ed elegante guizzò via. Andrea, noncurante della sua cecità, aveva compiuto tutto come se fosse stato un rito del gesto e Luca l’aveva finalmente percepito nell’attimo del suo svolgersi.

Si sedette nuovamente, Andrea sorrise a Luca e cominciò a smontare la canna da pesca, poi si volse verso di lui e gli disse: “Domani mi porti al bastione, a sentire i gabbiani …”

 


# proprietà letteraria riservata #


Roberto Tosato

La gita scolastica



– Pronto, Eva?

– Sì? … pronto!

– Ah ciao, carissima. Sono Carmen.

– Ciao, Carmen.

– Beh, come stai?

– Abbastanza bene … grazie.

– E Alfredo? E Sara?

– Sì, bene anche loro … grazie … come mai questa telefonata?

– Mah, era un po’ che non ci sentivamo, poi giusto ieri ti ho incrociato di sfuggita al parcheggio in piazza, ti ho salutato ma tu – probabilmente – non mi hai vista.

– No … mi dispiace … non ti ho proprio vista …

– Ma dai, figurati! Beh, allora ho pensato che avessi portato Sara dal professore, quello che ti ho consigliato io. E’ così?

– Sì … in effetti … è così …– Me lo immaginavo, sai. Tutto bene? Le ha passato una bella visita?

– Sì … direi … di sì.

– Ah, mi fa, piacere. E che cosa t’ha detto?

– Beh … io non è che capisca molto i termini clinici …

– D’accordo: ma t’avrà pure spiegato di che cosa si tratta, o no?

– Sì … più o meno …

– E allora?

– Mi ha detto … che … non c’è niente di grave …

– Tutto qua?

– No … che … Sara attraversa un’età critica …

– E basta?

– No … che non è una malattia vera e propria …

– Davvero?

– Sì … è solo una questione nervosa … che non bisogna forzarla e che le passerà con lo “sviluppo”.

– Ma perché, Sarà non ce l’ha ancora le sue “cose”?

– Beh … da poco … ha solo dodici anni!

– Perciò non le ha prescritto nessuna cura?

– Beh … non precisamente.

– Ecco dicevo io: possibile che non le avesse dato qualche medicina, poverina!? Almeno per tenerla un po’ su!

– Beh … in realtà non è proprio una medicina …

– Ah no? E allora cos’è?

– Il professore l’ha chiamata … “terapia introspettiva”.

– Cioè?

– Bah … non te lo so spiegare bene … neanch’io ho capito granché …

– Prova! Cos’è, t’ha consigliato di andare da uno psicanalista? A me puoi dirlo. Non c’è niente di male, sai. Ne conosco uno bravissimo. E poi sono o non sono tua amica?

– Ma sì … certo.

– E allora?

– Deve scrivere un diario.

– Un diario?

– Eh!

– Un diario?! Certo che è piuttosto strana come terapia. Sarà una nuova metodologia. Va beh, ma che ci deve scrivere su ‘sto diario?

– Mah … da quello che ho capito … le sue impressioni, i suoi pensieri … i suoi piccoli segreti …

– Ah, un diario!?

– Appunto …

– No, è che pensavo che non intendessi il classico diario, quello che scrivono tutte le ragazzine. Ma è sicuro che è la cura giusta? Da quello che so io, Sara è molto introversa, quasi apatica, indifferente a tutto, non ha interessi, non le piace niente, non ha quasi emozioni. Ora – dico io – come fa a curarla un semplice diario? Comunque se te l’ha detto il professore … sai, lui è un luminare. Sarà di sicuro la cura migliore. Ma almeno, Sara l’ha cominciata?

– Sì, credo di sì … ah, scusami … suonano alla porta: deve essere proprio lei!

– Ah va bene, allora: ti saluto. Oh mi raccomando: se dovessi aver bisogno dello psicanalista non fare complimenti perché ne conosco uno davvero bravo.

– Sì … grazie … arrivederci …

– Arrivederci, e fammi sapere eh?

– Sì, sì … certo … grazie.

– Ciao, Sara!

– Ciao, mamma.

– Cambiati, svelta: è pronto in tavola. Ti ho preparato un piatto speciale per pranzo.

– Grazie … magari dopo … non ho fame … vado in camera mia.

– Ma Sara! E il pranzo? Devi pur mangiare qualcosa … e va bene … ma promettimi che dopo farai una bella merenda, eh?

– Sì, certo certo …

******

Raggiunta la sua stanza, Sara, agguanta il suo diario che profuma ancora di nuovo e, recuperata la sua biro preferita, comincia a scrivere … 



Caro diario,

il dottore che mi ha visitato ieri vuole che io scriva un diario. Io non l’ho mai scritto e quindi non so se lo faccio bene o male. Però il dottore mi ha detto che se lo faccio bene, sicuramente guarirò.

Io non mi sento malata e infatti anche lui, dopo che mi ha fatto un sacco di domande stupide, ha detto che non sono malata. Però, anche se non sono davvero malata, mi ha pregato di raccontarti ugualmente tutto quello che mi da’ un’emozione e che mi lascia impressionata.

Mi ha detto anche che mi devo immaginare come se mi confidassi alla mia migliore amica, alla mamma o alla sorella maggiore, e che invece di raccontarlo a voce lo devo scrivere su un quadernetto solo mio.

Per me non è un problema scrivere: a scuola vado bene, purtroppo non ho una sorella maggiore e neanche un’amica del cuore mentre la mamma certe cose non le può capire perché è troppo adulta. Allora ho pensato che farò finta di parlare con un vecchio amico che si chiama Diario.

Inoltre, mi ha detto il dottore, queste mie confidenze le devo fare per bene, con calma e dall’inizio, altrimenti tu non capiresti. Perché tu non le puoi sapere le mie cose.

Il dottore ha tanto insistito che alla fine ho promesso a lui e anche alla mamma che ci proverò, perché io voglio guarire.

Perciò ecco qui!  

  Rieti, 12 Aprile 1996   Caro diario,

oggi non c’è stata scuola perché la scuola ha organizzato una gita in aeroporto. Capirai che gita: io abito lì vicino!

Io pensavo che sarebbe stata la solita gita un sacco lagnosa. Ho sempre pensato che in aeroporto non c’è niente da vedere: solo un grande prato, qualche capannone, aeroplanetti che ronzano e alianti che fischiano. E invece mi sbagliavo.

Oggi ho visto il mondo da un’altra vista perché ho volato!

Il mondo è completamente diverso visto da lassù: sembra come un grande presepio con le casine, i campicelli, le straduzze, le macchinine.

La terra è tutto quadrati, rettangoli e altri disegni che non conosco e comunque tutti colorati. Delle case si vedono praticamente solo i tetti. Alcuni sono più chiari e altri più scuri. Le strade sono tutte grigie, le automobili piccine piccine vanno pianissimo e le persone si distinguono appena, talmente sono piccole.

Da lassù si vede per moltissima distanza e non c’è rumore, a parte il vento.

La sensazione che ho provato è così strana che quasi non riesco a spiegarti. Mi sembrava di essere al centro di un burrone profondissimo però non riuscivo a vedere i bordi, oppure come se fossi stata al mare all’acqua alta e non riuscivo a vedere la riva.

Io però non avevo paura. Anche perché il pilota che mi ha portato in volo mi ha detto che noi eravamo nelle braccia del vento e che il vento è sempre buono con i suoi figli.

Io sono figlia solo di mamma e papà: che c’entra il vento?

Io non capivo che voleva dire e allora mi ha spiegato che quello era il mio battesimo dell’aria, che lui era il mio padrino, e che l’aliante (Victor Alfa si chiamava) era la mia madrina. E alla fine lo spumante sarebbe stata la mia acqua benedetta.

Che forza! Questo sì che è un bel battesimo!

“Veramente io dovrei fare la Cresima”, ho detto al pilota.

Lui prima s’è messo a ridere e poi mi ha risposto: “Mi dispiace, ma dopo il Battesimo c’è subito il Matrimonio!”, e io:

No, si sbaglia: c’è la Comunione”. Ma lui niente, mi ha zittito dicendo:

“Mia cara, il volo è come l’amore: se è a prima vista è subito Matrimonio, altrimenti beh … rimane una semplice amicizia!”.

Caro diario, io il senso di questa frase non l’ho capito proprio tutto, però una cosa l’ho capita: che mi sposerò presto!

Volare è troppo bello ed io mi sono sentita troppo bene lassù, come un’altra persona. Quando sono a terra non mi va di parlare con nessuno perché nessuno mi capisce, dicono che sono … introversa (credo che si dica così) ma io non ho niente di traverso: io sto bene, è solo che non mi va di stare con gli altri bambini perché sono troppo bambini (pensano solo a giocare e a divertirsi). Anche coi grandi non sto bene perché pensano sempre ai fatti loro e non t’ascoltano mai. In aeroporto invece no.

Ad esempio il volo che ho fatto con l’aliante, l’ho fatto perché il pilota ha prima chiesto se avevamo paura e poi chi fosse l’alunno più timido e sognatore della scolaresca. Io non ho detto niente: di cosa dovevo avere paura se non sapevo di cosa? Poi, quando le mie insegnanti hanno indicato:

“E’ quella bambina lì “, il pilota è venuto vicino a me e mi ha chiesto in un orecchio:

“Signorina, la prego, sarebbe così cortese di accompagnare un vecchio lupo del cielo in una delle sue avventure? E, non ultimo, di dimostrare a tutti i suoi compagni che sono dei grandissimi cacasotto?”.

Io gli ho risposto:”Va bene: se vuole l’accompagno. Solo che io non so’ guidare, eh!”.

Quando sei in cielo non conta chi sei o come sei, sei solo un figlio dell’aria. E lì non c’è bisogno di parlare perché il tuo pensiero già parla da solo. E’ davvero bello guardare fuori perché si può vedere sia cioè che è grande e sia cioè che è piccolo: sta solo a te decidere come guardare.

Potevo andare da un capo all’altro della città senza il minimo sforzo. Potevo percorrere strade diverse, lunghe o corte che fossero, con un semplice sguardo. E poi la mia scuola, i giardini pubblici, toh! … il parcheggio, il centro commerciale e … caspita quella era casa mia! Cavolo che spettacolo!

Però l’emozione più grande è stata quando il pilota mi ha detto: “Vai piccola: prova a guidarlo tu!”.

Io mi ricordavo bene quello che dovevo fare perché ce l’aveva spiegato al brifing  e perché l’avevo già fatto l’altra estate al mare. Ma non era la stessa cosa! Mica ero dentro la sala giochi! Io spostavo la cloche a destra e lui girava a destra come e meglio che nel videogioco, mettevo la cloche avanti e il fischio del vento aumentava, la tiravo a me e subito dopo sentivo l’aliante rallentare.

“Ora prova a termicare”, mi diceva il pilota, e allora io giravo e giravo. Era facile: bastava mantenere lo stesso sibilo del vento e girare in tondo rispetto ad un piccolo gruppetto di case.

“Brava: guarda come sale l’altimetro! Stai guadagnando quota, lo sai signorina!?”. Eh, certo mica volevo scendere io!

“Ora andiamo verso quella nuvoletta laggiù”.

Allora puntavo l’orizzonte e cloche in giù fino a che la voce del vento non si faceva forte forte.

Era bello anche guidarlo l’aliante. In quel momento ho capito perché i piloti vogliono stare sempre per aria.

Poi però piano piano la terra s’era fatta più grande e tutto è tornato lentamente alla solita grandezza.

Il pilota mi ha detto: “Okkei piccola, si torna a casa”.

Allora io gli ho proposto: “Ma non si può mettere un altro gettone?”.

Lui serio, mi ha risposto: “No, mi spiace … ma sei vuoi, tra un paio d’anni, ce lo metterai da sola!”.

Non ho capito subito cosa volesse dire, invece avevo capito che la mia gita in aeroporto era finita lì.

Tornando a scuola, sul pulmino, ho letto il piccolo libricino che ci hanno regalato alla fine della visita e allora ho compreso quale sarà il mio futuro: farò la pilota!

Dovrò aspettare due anni, cinque mesi e dodici giorni (l’ho calcolati) che saranno lunghissimi da passare ma ora almeno so cosa fare, a parte mamma, papà, la scuola e i miei parenti.

L’unico dispiacere è che non conosco il nome del mio padrino, peccato: non lo potrò invitare al mio matrimonio. Addio per sempre, diario!  




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