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Missione Grumento: operativi!! – II parte


– Ehi nonno, c’hai raccontato di tutto: dell’aliante nel bosco, dei traslochi degli alianti, del recupero notturno in autostrada … ma non ci hai ancora parlato di quello che che ti è capitato durante lo stage a Grumento del ‘94, perché qualche altra cosa ti deve essere capitata, non è vero?

– Già, cos’altro ti capitò, eh nonno?

– Ragazzi ma dico! M’avete preso forse per uno jellato o un mena gramo? E poi che curiosi impertinenti! Credete che io sia una di quelle ignobili banche dati che usate voi giovani?

– Tu nonno? Non potresti mai esserlo.

– E’ vero nonno. Tu sei unico, per il modo colorito con cui ci racconti le tue storie.

– Non ti permettere sai! Le mie non sono “storie” come dici tu, sono fatti realmente accaduti, tanto tempo fa, – è vero -, ma non sono inventati.

– Ma dai nonno, non dicevamo per offenderti. E’ che le tue st… fatti, appunto, sono così … “avventurosi” che quasi non ci si può credere. E poi scusa, ma a che cosa servirebbero i nonni?

– Giusto! Se non ci fossero i nonni come farebbero i loro nipoti ad evitare i pericoli, a non ripetere gli stessi errori, a capire il perché di certe situazioni attuali, a …

– Basta, basta, vi perdono! Siete due furfanti perché sapete che ho un debole per voi! La verità è che non posso ricordarmi proprio tutto … così, tutt’assieme, guardando una vecchia fotografia scattata cinquant’anni fa.

– Hai ragione. Noi però ti possiamo aiutare: ad esempio com’è stato il tuo viaggio a Grumento? Com’era il posto? E l’aeroporto? E il clima? I voli? La gente?

– Non dirmi che la sera “andavate a letto alle otto con il brodino”? O che non avete conosciuto neanche qualche graziosa “gentildonna”!?

– Ohe, basta! Ma cos’è? Un terzo grado?

– Ma no, è solo per farti ricordare …

– Grazie, ma rammento tutto! E poi avevo un alibi di ferro!

– Su nonno, lascia stare gli scherzi e raccontaci davvero di quell’estate del ‘94.

– Quell’estate faceva stramaledettamente caldo nella Rieti’s Valley: i tubi di caucciù si scaldavano al sole come serpenti a sonagli. Potevi cuocerti le uova al bacon sul tetto dell’Headquarter mentre i cavalli volanti, schiumavano, allineati in pista. Anche i due maniscalchi, Little Angel e Mancino Chief, si scolavano il sudore come fosse whisky il sabato sera, mentre il loro garzone, Big Mark, srotolava la lingua tipo iguana a caccia di ragni. Sotto i sombreri sudati, i piloteros si guardavano con l’occhio iniettato di sangue: erano pronti a sfoderare dai loro cinturoni l’ultimo modello di GPS. L’ombra era assai preziosa: più di una pepita d’oro. Pochi alberi contorti coprivano infuocati coyote di metallo. La pista era una prateria polverosa e la terra sabbiosa ti entrava negli stivali, bruciando la pelle piagata. Allora, con la gola secca, non rimaneva altro che correre al saloon, nell’hangar grande, e spegnere un po’ di fuoco, mettendo il becco in un paio di bottiglie … di mineral water!

– Dai nonno, sii serio, questa sembra la classica trama di quei vecchissimi film ambientati nell’Ovest del continente americano con quell’attore molto pittoresco che si chiamava … ah sì, John Wayne …

– Niente affatto! E’ sempre la pura realtà di quanto accadeva allora: faceva davvero un gran caldo, insopportabile, di giorno e di notte, tanto che negli uffici della Segreteria e della Direzione di Gara, nonostante i condizionatori d’aria – erano le macchine che allora si usavano per rinfrescare gli ambienti – fossero accesi fin dal primo mattino, non si riusciva a mitigare affatto la gran calura. E la storia dei due maniscalchi, è quella dei due specialisti anziani dell’Officina dell’AeroClub Centrale; che poi i piloti si guardassero in cagnesco … specialmente se c’era di mezzo un posto vagamente all’ombra per l’automobile … beh questo non stupisce; ed è anche vero, che fu allestito un bar all’interno di un hangar, o che la pista, solo grazie all’innaffiamento artificiale, non diventò un deserto polveroso senza un filo d’erba.

– Una curiosità nonno: il garzone chi era?

– Ehm …credo proprio che fossi … io!

– Me lo immaginavo, sai.

– Comunque stai ancora divagando: non ci hai ancora raccontato nulla di Grumento!

– D’accordo. Allora vi racconterò tutto dall’inizio. Per cominciare, dal mio viaggio verso Grumento … altrimenti non capireste lo spirito dell’impresa.

– E va bene.

– Basta che cominci …

– Come già mi sembra di avervi detto, io partii in un secondo tempo, esattamente il 30 di Luglio – me lo ricordo bene, anche questo -.

– Perché? Non fu un giorno come un altro?

– No. Oggi, è un giorno come un altro, ma a quei tempi era la fatidica data in cui tutti andavano o tornavano dalle vacanze estive, vale a dire qualcosa come diciotto milioni di automobili in movimento sulle strade ed autostrade d’Italia!

– E a te come andò?

– Ne incontrai nove milioni! Gli altri nove camminavano dalla parte opposta! Insomma un carnaio del quale facevo parte anch’io … purtroppo.

– Ma scusa, non potevi partire un altro giorno?

– No. Era stato deciso che avrei dato il cambio al mio collega anziano allo scadere del mese. Mi avrebbe lasciato le “consegne”, dopodiché lui sarebbe rientrato il giorno dopo con lo stesso mezzo con cui io ero arrivato.

“Se parti presto non incontrerai traffico e comunque avrai l’aria condizionata in automobile” mi risposero, quando avevo sussurrato, le mie perplessità.

– E allora?

– Allora mi organizzai di conseguenza: sarei partito subito dopo aver dato aiuto all’altro collega a preparare i traini e poi mi sarei involato – si fa per dire – per Grumento: partenza da Rieti alle otto e quaranta, al massimo. L’automobile mi era già stata destinata, si chiamava … SERENA, se non ricordo male. Era una di quelle vetture monovolume molto spaziose – oh, sei persone!- e con tutti i confort come il doppio tettino apribile, sedile a tre regolazioni, aria condizionata – come mi avevano detto – e una tappezzeria davvero lussuosa, insomma il nome, era tutto un programma e poi un po’ di serenità era giusto quella che ci voleva per un viaggio del genere. In dotazione mi venne anche data una delle prime rudimentali carte magnetiche per il pagamento del carburante e del pedaggio autostradale: così non sarei andato in giro con fasci di cartamoneta. Ora, c’erano delle strane voci – probabilmente messe in giro dagli autisti che avevano fatto i primi viaggi – secondo le quali più a sud di Napoli si apriva una specie di “spazio siderale senza nessuna forma di vita”: niente carburante, niente telefoni, niente acqua, niente segnaletica stradale, niente assistenza meccanica, solo apparizioni di gente che parlava lingue sconosciute, vagamente terrestri. Erano solo voci … sapevo che allora il Sud era un po’ “ai confini della realtà”, ma fino a quel punto? Beh …. non credetti più di tanto a queste voci, infatti: primo) feci il pieno di benzina, secondo) controllai i livelli, terzo) comprai una cassetta di acqua minerale, quarto) acquistai l’atlante stradale più dettagliato che c’era in commercio e quinto) mi feci prestare un vocabolario rapido italiano-cinque lingue … tanto erano solo voci!

– Accidenti! Così organizzato poteva crollarti addosso il mondo !

– E infatti mi cadde! Al momento di mettere i bagagli nell’automobile mi dissero che ne potevo usare un altra – quella in effetti era spropositata per me, per dimensioni e per consumi – così me ne indicarono una, altrettanto confortevole – tra l’altro ero desideroso di provarla perché se ne parlava un gran bene – ma esattamente la metà di grandezza: non a caso forse, si chiamava MICRA. Mentre controllavo i livelli, ma già ben dopo aver sistemato le mie cose, arrivò una ragazza che mi disse candida: “Grazie, ma vado solo dal fotografo, in città”. Rimasi un po’ perplesso poi pensai : “Vuoi scommettere che alla fine ci vado a piedi a Grumento?”

– Mica ci sarai andato veramente a piedi?

– Fortunatamente no, ma poco ci mancava: mi diedero una terza automobile, o meglio, un fuoristrada, insomma una jeep mascherata da berlina, un bel mezzo – intendiamoci – peccato che in quel momento fosse bisognosa di olio e di carburante – nel serbatoio forse c’erano dei vapori – sicché una volta recuperate le chiavi – oh, naturalmente non si sapeva dove diavolo si fossero cacciate, le chiavi – una volta spostati tutti i bagagli, e una volta copiosamente rifornita dei liquidi necessari, finalmente, verso le dieci, cominciò il mio viaggio verso Grumento.

– Ed il viaggio come andò?

– Piuttosto noioso, considerate le premesse e il seguito. L’unica nota di rilievo fu che la carta magnetica funzionava solo per il pagamento del pedaggio autostradale. La segretaria anziana però, mi aveva “appioppato” con una lungimiranza provvidenziale, un’anticipo di stipendio, e così la cosa si risolse con una sfilza di ricevute da presentarle al rientro alla base … per il rimborso. E poi cos’altro… ah, sì: l’aria condizionata!

– E ti pareva che non c’era dell’altro?!

– No, non c’era !

– Ma che dici nonno? Cos’è che non c’era?

– Ve l’ho appena detto: l’aria condizionata. Andò così: con il passare delle ore, e quindi con l’aumentare della temperatura, il sistema di condizionamento non dava “l’aria” appunto, di funzionare granché. Quando però l’auto si trasformò in una specie di forno viaggiante con relativo “pollo allo spiedo”, incominciai a pensare di non aver ben manovrato i comandi del condizionatore. Già a quei tempi, ero un maniaco dei manuali, così decisi di fermarmi al primo autogrill per “spulciare” il libretto d’istruzioni della vettura. Recitava serafico: “Se il pulsante indicato non risulta azionabile, disponete di un’automobile non climatizzata. Potete però inserire il ricircolo dell’aria”. Accidenti anche ai manuali! Considerato il ritardo che avevo accumulato, mi venne la geniale idea di mangiare qualcosa in macchina e viaggiare durante le ore più calde – quando tutti si sarebbero fermati per il pranzo -. Peccato che “tutti” pensarono la stessa cosa e così ci ritrovammo “tutti” in colonna, sotto il sole cocente dell’una del pomeriggio. Fortunatamente lassù qualcuno ci amava, oppure si mosse a pietà – fate voi – comunque comparvero all’improvviso un po’ di nuvole in un cielo ardente. Ormai ero vicino alla mèta perché ne incontravo le prime tracce nella segnaletica stradale. Consumai un solo succo di frutta “strategico” e un solo pseudo- rifornimento.

– Perché strategico?

– E perché pseudo?

– Era per avere informazioni dalla gente del posto, no?! Beh … “avrà stato un caso”, ma ad un certo punto “mi ritrovai in una selva oscura e pensavo che la diritta via fosse smarrita” quando, da uno squarcio nel bosco, intravidi le sagome degli alianti e dei traini: SALVO!

– Nonno, ma come parli ?

– Parlo come in quel momento: sragionavo!

– E allora? Prosegui.

– Allora mi accolse festante – in tenuta da mare, con la pelle di un bel rosso cardinale – il mio collega.

– Beh, eri arrivato alla mèta, no?

– No, al contrario, ero appena partito perché non potete immaginare cosa mi aspettasse!!

– Che cosa ?

– Sì, che cosa c’era di così terribile?

– Mah… se escludiamo che gli alianti erano picchettati tipo “Mikado”; che il materiale – paracadute, cuscini, batterie, secchi, cavi da traino e pezzi di ricambio -, era ordinatamente sparso a terra nella palazzina; che l’officina era un hangar con dentro un autogiro, tre deltaplani a motore, un vecchio aereo in disuso, una serie di mobili smontati, cumuli di carte, cartine e cartacce, ed un banco da lavoro ingombro di barattoli, barattolini e barattolacci; che il deposito carburante era un vissuto camion-cisterna; che la palazzina uffici era una vetusta casa colonica dove era stata ricavata una pseudo-Segreteria e una pseudo-aula briefing; che l’unico mezzo di comunicazione a lunga distanza era un telefono … pubblico … a gettoni; che il centro abitato più vicino – intendo bar, alimentari, farmacia, posta e fotografo – era a 2 chilometri dall’aeroporto; ecco, se escludiamo tutto questo, beh … non c’era niente di cui preoccuparsi.

– Insomma una specie di missione suicida!

– No, non necessariamente. In realtà questo era solo l’aspetto negativo della faccenda.

– Sei sicuro?

– Certamente.

In effetti, l’aeroporto era assai spazioso – vi ho già detto della pista? Sì – con un enorme parcheggio asfaltato e un altro ancora più grande in erba – anche se d’erba ce n’era ben poca -. Mi ricordo che accanto alla pista in asfalto ce n’era praticamente un’altra di terra, anche se un po’ ruvida. Non mancavano poi, delle vie di fuga sulle testate pista. La palazzina in effetti, era sì, un’ex casa colonica … ma ristrutturata, fresca, anche in pieno solleone, con bagno padronale attrezzato di tutti i comfort di quei tempi. E’ vero che dovevamo dividerlo con gli allievi spazzini della Forestale – tenevano un corso al secondo piano della palazzina – ma non era necessario l’uso del “numeretto” e nessuno se la fece mai veramente addosso. Inoltre l’aula briefing era dotata addirittura di lavagna, televisore e videoregistratore. E’ vero che questa roba non era comparsa tutta assieme – le prime settimane, mi disse il collega, facevano il briefing in piedi, mancando le sedie – ma anche l’ufficio non era così spoglio: c’erano due scrivanie, un frigorifero, una radio-biga, il meteosat a colori e un pannello che forniva in tempo reale direzione del vento, pressione, temperatura e umidità relativa. E’ vero che le sonde erano montate su un enorme palo con torretta … sottovento al bosco e che quindi i dati dovevano essere presi con le molle, ma da quel palo… si facevano certe foto! E anche il telefono a gettoni, in fin dei conti, impediva inutili telefonate con la “madrepatria” del tipo: “Ci pensate? Ma quanto ci pensate? E vi manchiamo? Ma tanto quanto?” E’ vero che più volte rimanemmo isolati o che poi ci era impossibile chiamare perché si era riempita la cassetta delle monete, ma vuoi mettere l’emozione di farti chiamare dal “Comando Operazioni” e sentirti come un soldato al fronte, in trincea, sotto il fuoco nemico … del sole, e i bombardamenti … d’acqua degli alianti? Per quanto riguardava la cisterna, anche quella era stata rimessa a nuovo da poco, e in fin dei conti, funzionava egregiamente – salvo qualche perdita -. E’ vero che alla fine non quadravano i conti, ma cosa volete, il carburante poteva evaporare o gocciolare nei punti più nascosti! La cittadina più vicina – mi pare che si chiamasse Sarconi – era invece vicinissima perché si percorreva una strada praticamente senza neanche un filo di traffico, ed era così concentrata che potevi trovare tutto quello di cui avevi bisogno lì, nel raggio di cento metri. Inoltre avevi a che fare con persone cordiali e disponibili – e parlavano anche italiano, tieh!-. Certo qualcuno cercò di approfittare di tanta clientela forestiera: propinarono – mi disse sempre il collega – molecole di panino o di pizza, a prezzo da lingotto d’oro, oppure magre cene casarecce ad un costo da pasto luculliano! Ma una volta entrati nel “giro” riuscimmo a farci confezionare pure di domenica “mega panini multistrato station-wagon”. E a un prezzo che, allora, era di un caffè. Tornando alla palazzina, c’era una stanza praticamente libera che poteva essere adibita a magazzino e, grazie ad un enorme tavolo, anche a Sala Traffico, per consultare le incontenibili carte aeronautiche o preparare il piano di battaglia dello “Stormo di Veleggiamento”.

– Va beh, ma come vi siete attrezzati?

– Il primo giorno, fatti i controlli, assistita la linea di volo e spediti tutti in volo, incominciai anzitutto ad occuparmi del mio ufficio – si fa per dire -.

– Hai detto ufficio?

– Sì, la stanza che poi diventò la “caverna dello specialista”. Recuperai parte dei mobili che erano nell’hangar e dopo una sommaria pulita, li montai nella stanza che vi dicevo. Naturalmente, sistemai tutto il materiale con un minimo di criterio, compresa una specie di centrale elettrica pensile per la ricarica delle batterie. Una bella spazzata e via, in linea, per i recuperi degli alianti che – saranno state le sei – già rientravano. Per quella sera, continuò l’incastro Mikado, ma il pomeriggio successivo, armato di mazza e di “occhio teodolitico”, sconvolsi il puzzle, e alla fine del pomeriggio, gli alianti giacevano, non più in promiscuità, ma i monoposti con i monoposti allineati in gruppi di tre con uno spazio libero per il passaggio tra le file – e il biposto con il biposto da parte, mentre l’aliante ammiraglio, davanti alla palazzina, chiudeva maestoso lo schieramento con i suoi venti metri d’ala.

– E per il resto?

– Beh … si organizzò spontaneamente un servizio navetta per andare a comprare il pranzo, oppure qualcuno dei piloti partiva alla volta di Sarconi nel ruolo della vivandiera. Poi … stretta qualche fascetta a vite, la cisterna non perdeva più; il vento si misurava all’occorrenza con un anemometro portatile a coppe – avevano perfino quello a Grumento -; il bagno divenne subito più pulito dopo l’azione provocatoria di un pilota – donna – che propose la pulizia del bagno a patto che i suoi colleghi le avessero pulito l’aliante: proposta accettata!!; nell’hangar-officina furono sistemati meglio gli ultraleggeri e fu data una pulita al banco da lavoro.

– Insomma tutto a posto ?

– Non tutto. Dove non lo era ci pensò comunque la generosità, l’abnegazione, il cameratismo e il vero spirito del volovelista, da parte di tutti: noi, addetti ai lavori – istruttori, trainatori e specialista – e soprattutto dei clienti: i piloti. E non dimenticate anche gli “indigeni”. Oh ragazzi, stavolta, nessuno escluso eravamo veramente tutti: OPERATIVI AL MASSIMO !!


segue:  III parte MISSIONE GRUMENTO: seriamente operativi!!


#proprietà letteraria riservata#



Big Mark

Missione Grumento: operativi! – I parte –


– Ehi nonno!

– Sì?

– Ma questo sei tu, vero?

– Fa’ vedere!

– Ma sì, guarda, sei tu, molto giovane ma sei tu.

– E’ già! Hai ragione, sono proprio io.

– E qui c’è anche la data stampata: 2 settembre del ‘94!

– Ma scusa, dov’eri? E chi sono quelle due persone insieme a te, eh nonno?

– Beh, è una storia vecchia. Non ve l’ho mai raccontata?

– No.

– No, mai.

– Veramente me ne rammento solo ora, vedendo questa foto.

– E allora?

– Beh…, se ricordo bene …

– E forza nonno!

– Dunque mi sembra che quei due si chiamassero uno … Lanza, no … Miralanzi o non so cosa …

– Va beh, nonno, lascia stare.

– Ohe! Mica sono arteriosclerotico eh?

– No, no.

– Vorrei vedere voi dopo 50 anni …

– Dai nonno, non dargli retta, prosegui …

– L’ altro, quello a sinistra sono sicuro che si chiamasse … Kosta, no … Kostantino … di cognome Boskov … no, Nederkov, no … no, Nedialkov, … insomma non mi ricordo bene.

– Va bene ma dove eravate?

– Beh questo lo ricordo bene: eravamo a Grumento, in provincia di Potenza – secondo la vecchia divisione territoriale – In realtà l’aviosuperficie si chiamava “GRUMENTUM” in onore della vicina città romana, o meglio degli scavi della città romana, mentre Grumento Nova era il paesino lì, a meno di un chilometro dalla pista.

– Pista in asfalto o sbaglio?

– No, non sbagli. Una bellissima pista di milleduecento metri di lunghezza e undici di dislivello, con asfalto altamente drenante, asciutta anche dopo forti temporali e anche ben orientata – est/ovest – mi sembra. Pochi aeroporti italiani allora avevano una pista così.

– Va bene ma cosa ci eravate andati a fare a Grumento?

– Eh, beh … fammi ricordare … ah sì, quell’anno a Rieti – era l’estate del ‘94, appunto – fu organizzata una serie di gare, mi sembra addirittura un Campionato Europeo classe F.A.I. ed uno dei primi Campionati Europei di acrobazia in aliante, la mitica Coppa del Mediterraneo e mi pare il Campionato Italiano classe Libera. Insomma una sfilza di gare che non finivano più: da inizio Luglio ad inizio Settembre. Perciò gli stage, vi ricordate, ve ne ho parlato tante volte …

– Sì, sì.

– Sì, continua.

– Beh gli stage non potevano svolgersi a Rieti. Voi capirete: piloti non proprio provetti si potevano trovare all’improvviso in mezzo ad un nugolo di assatanati della gara – non era certo igienico – … e allora l’AeroClub Centrale decise di abbandonare il campo di gara – oh! da Firenze a Matera eh?- e di spostarsi a Grumentum dove, tra l’altro ci aspettavano come la manna dal cielo visto che lì c’era tutto per volare, tutto tranne gli aeroplani: un piccolo dettaglio!

– Sicché vi siete trasferiti armi e bagagli?

– Eh già: molte armi e pochi bagagli – tredici alianti, questo me lo ricordo bene perché li controllavo tutte le mattine tutti e tredici – e due Robin.

– I Robin erano degli aeroplani trainatori vero ?

– Sì.

– I traini va bene, ma gli alianti come li avete portati?

– Gli alianti? Fu un’avventura: tutti con i carrelli, trasportati su strada dalle automobili, un po’ con quella del Centro, un po’ con quelle dei soci e un po’ con quella dello sponsor dei Campionati.

– Perché un’avventura?

– Perché? Perché durante i viaggi di trasferimento ne successero di tutti i colori: mi ricordo che per il gran calore – e non solo per quello – scoppiavano gomme ad ogni curva; che i primi carrelli finirono in una stradina dentro un bosco perché non c’erano cartelli che indicassero la strada per l’aviosuperficie; che gli autisti – partivano da Rieti alle nove e rientravano di sera alle nove, se andava bene – incominciavano a non farcela più … dopo un paio di giorni con questo ritmo e allora c’era chi si fermava dai parenti lungo la strada, chi sostava a vedere la partita all’autogrill o dormiva in macchina per rientrare il giorno dopo.

– Che partite?

– C’era il campionato del mondo di calcio.

– Ah già! Negli Stati Uniti non è vero?

– Sì, proprio lì.

– Ho letto nella banca dati sportiva che fu l’anno di un certo … Baggio, che l’Italia arrivò seconda e che …

– E basta! Lascia perdere il calcio. Continua a raccontare nonno.

– E dunque dicevo … sì, fu rocambolesco! Tutto il trasferimento durò una settimana: mi ricordo che io ed il mio collega anziano a Rieti smontavamo in serie alianti e a Grumento l’altro mio collega anziano, in serie li rimontava appena arrivavano … quando arrivavano.

– Ma non ho capito: tu non eri a Grumento? E poi perché dici: quando arrivavano?

– Fu così: io rimasi a Rieti le prime due settimane di stage a Grumento – non dimenticate che a Rieti c’erano contemporaneamente gli allenamenti dei Campionati Europei. A Grumento andò l’altro collega. Poi gli diedi il cambio e rimasi le altre cinque settimane.

Il primo giorno di stage in assoluto, era domenica – me lo ricorderò sempre tanto fu nera – un aliante lì a Grumento cadde nel bosco …

– Come nel bosco?

– Eh sì, nel bosco: il pilota – era da solo – combinò qualche sciocchezza. Stallò con un biposto sulla sommità piatta di una montagna, lì, vicino all’aeroporto e cadde nel bosco.

Incolume, senza neanche un graffietto ma con le brache bagnate, il pilota rimase infilato con l’aliante tra due alberi, sospeso a mezz’aria a qualche metro da terra.

– E poi come andò?

– La radio, fortunatamente, funzionava ancora, perciò chiamò gli altri alianti che intanto si erano messi alla sua ricerca – non sentendolo più e non vedendolo più in volo -.

Il pilota non vedeva il cielo perché le piante gl’impedivano qualsiasi visuale, sicché ne giudò lì uno che per puro caso si trovava in quella zona. Solo sentendo il fruscio dell’aliante che si allontanava e si avvicinava. Fortuna volle che sull’aliante, diciamo da “soccorso”, il pilota avesse con sé uno di quei primi modelli di G.P.S.

– Una specie di quelli che sono sugli autoplani?

– Una specie di quelli, sì, ma una versione molto più rudimentale … beh, fece il punto del luogo dell’atterraggio e dopo qualche ora recuperarono il pilota “imboscato” con le jeep.

– E l’aliante ?

– Distrutto, ma neanche tanto. Il suo recupero fu un’altra impresa, ma quello che successe esattamente in contemporanea fu altrettanto rocambolesco

– Perché, che successe?

– Sull’autostrada un’altro aliante aveva un incidente.

– Di che genere?

– L’automobile e il carrello con sopra un biposto – me lo ricorderò perché pesava come una stazione orbitante – fecero un randezvous … incominciarono a sbandare dopo un doppio sorpasso e sbandarono così paurosamente fino a che non invertirono il senso di marcia.

Le vecchie autostrade allora erano tutte a due corsie: quella era addirittura a tre, perciò riuscirono a fare un centottanta e finirono contro … sapete quelle divisioni in cemento armato che si vedono nelle vecchie fotografie? Quelle. Si appoggiarono di traverso contro lo spartitraffico mentre le altre automobili continuavano a venire contro …

– Fu una carneficina!

– Eh che sanguinaria! No, fortunatamente c’era un cantiere di lavori stradali a poca distanza. Gli operai e gli uomini della sicurezza intervennero subito, bloccando il traffico giusto in tempo!

– E l’aliante: distrutto!?

– No, anche in questo caso. E qui venne il bello: il carrello, è vero, era ridotto in condizioni pietose perché il gancio di attacco all’automobile era tutto contorto, i supporti dei longheroni dell’aliante erano piegati e pure piegata la prolunga della coda del carrello – sapete i carrelli spesso erano più corti degli alianti che trasportavano e c’era letteralmente parte delle semiali che sporgeva fuori dal pianale.- L’aliante no, mi pare che fosse esplosa solo la cappottina in plexiglas – erano così le cappottine di una volta – un foro nei flap e scorticature da tutte le parti: insomma inservibile ma non proprio irrecuperabile.

– E allora?

– Allora l’autista – mi sa che pure lui non è che fosse proprio asciutto nei pantaloni – … mi pare che sì, fosse un socio pilota, sganciò l’automobile – aveva un “buco nero” nella fiancata, dovuto al carrello. -. Poi, con gli operai ed i poliziotti, spostò l’aliante sul margine dell’autostrada, quindi pensò bene di smontare tutto quello che di valore c’era a bordo – praticamente una di quelle vecchie radio che ora sono solo nei musei, e gli strumenti .- E di riportare tutto a casa. Oh, questo sotto il sole cocente di Luglio, sull’asfalto nero infuocato, all’una del pomeriggio! Così, scampato all’incidente, a un’insolazione e alla Polizia di allora, rientrò a Rieti.

– Ma in tutto questo tu, come ci sei entrato?

– Ci entrai ahimè … naturalmente non potevamo abbandonare l’aliante in autostrada chissà per quanto tempo, così organizzarono il giorno stesso una “squadra di recupero”. Il Direttore venne in Officina – mi ricordo come fosse ieri – dicendomi: “E’ un’emergenza!” Tenete presente che erano circa le sette e mezzo del pomeriggio e che io ero lì dalle otto del mattino – mi sembra che neanche avessi pranzato quel giorno -. Mi guardai intorno: il sottoscritto, il mio collega anziano e il pilota dell’incidente. Lui, da vero gentiluomo, si offrì volontario per il recupero … ma non eravamo così disperati da ricorrere ad uno “zombi”. Possibili e realistiche alternative non c’erano. Gli risposi: “e va bene, tanto sono votato al martirio!” Poi mi ricordai la battuta di un vecchio film e dissi tra me e me: “Continuiamo a farci del male!”

– Che roba!

Naturalmente la squadra era ben assortita con degli esperti in materia ed i mezzi di soccorso erano scintillanti pronti all’uso …

– Davvero?

– Macché! Requisimmo l’automobile personale del pilota dell’incidente – almeno quella – e riuscimmo a sequestrare tre persone che proprio dei volontari non erano, o meglio, lo erano diventati dopo mostruose minacce fisiche e psicologiche. Altri carrelli non ne avevamo per cui riciclammo qualcosa che con molta immaginazione poteva somigliare da lontano ad una specie di carrello stradale: lo teneva insieme l’ossido e qualche bullone ben grippato.

Era il carrello di un socio, in disuso da soli tre, o al massimo quattro anni. E poi era stato ben ricoverato: sì, all’ aperto, all’acqua e al sole, coperto da un tetto di rovi.

– E allora?

– Cercammo alla meglio di renderlo utilizzabile: non lo avessimo mai fatto perché solo a gonfiare i pneumatici, uno scoppiò con un tale botto! Il caso volle che la ruota di scorta fosse ancora tale ma di fatto fummo costretti a “raspare” tutto l’aeroporto alla ricerca di un maledettissimo carrello che avesse le ruote delle stesse dimensioni di quello “d’emergenza” … per prenderle in prestito: solo momentaneamente.

– Ah, così hai fatto pure queste cose, eh nonno?

– Io? Mai … non ne trovammo neanche una! D’altra parte a che cosa poteva servirci una ruota di scorta? Potevamo farne a meno. I bulloni si spezzavano appena si provava a svitarli? Bastava qualche corda, qualche elastico e un po’ di gomma piuma. I documenti non li avevamo? Ammesso che il proprietario li avesse avuti ancora, non aveva importanza: “è un’emergenza!”, avremmo risposto al tutore dell’ordine che ce li avesse chiesti.

– E siete partiti lo stesso?

– Si, certo. Oh, noi eravamo la “squadra di recupero”!

– Ma così attrezzati poteva capitare qualcosa anche a voi?!

– Certo, e allora avrebbero organizzato la “squadra di recupero” per recuperare la “squadra di recupero” che era partita per un recupero d’emergenza.

– E sì, va’ beh, ma come andò?

– Verso le nove partimmo con un’automobile scarica ed una seconda con il carrello di salvataggio, facemmo sosta per rifornire di carburante le auto e di panini i nostri stomachi. Arrivammo sul posto verso mezzanotte. Non senza difficoltà trasferimmo l’aliante incidentato sul carrello e sistemammo l’altro danneggiato in modo da poterlo riportare fino a Rieti. – Filò tutto liscio?

– Quasi. Montare un aliante su un carrello non proprio perfetto, di notte, sul bordo dell’autostrada, alla luce di quelle lampade a batteria che si usavano una volta, con tutti i camion che ti sfrecciavano a 100 chilometri all’ora a meno di un metro, non fu certo cosa facilissima: uno di noi, mi ricordo, si pestò due volte la mano – prima un dito e poi tutta la mano – per sistemare l’aliante che non voleva saperne di starsene “buono” nel nuovo carrello. Poi, i bulloni non stringevano i longheroni delle semi-ali per cui, per fare un po’ di spessore, fummo costretti a raccattare la robaccia lungo il bordo dell’autostrada. Niente!

– Cioè?

– Niente di niente! Non ho mai visto un autostrada linda come quella: non c’era neanche … ma che ti dico? Un fiammifero. Niente.

– E allora?

– Fummo costretti a “sacrificare” il ramo di un alberetto selvatico che cresceva appena fuori il bordo dell’autostrada. E io che ero un verde convinto!

E poi l’ attacco del carrello incidentato non volle smontarsi nonostante tutti i tentativi – pure le parolacce – tanto che lo portai così – con molta strizza – fino a casa. Camminava tutto di traverso ma camminava. D’altra parte anche l’aliante rimaneva sul carrello soprattutto grazie alle corde, agli elastici … e alle nostre preghiere.

– A che ora siete rientrati a Rieti?

– Tardi, molto tardi, anzi no, presto, molto presto.

– Come?

– Verso le cinque e mezzo, me lo ricordo bene perché si fece giorno lungo la strada e quando arrivammo in aeroporto era ormai giorno fatto.

– Hai avuto un giorno di riposo no?

– No. Mi feci la doccia, dormii un’oretta e alle otto tornai in Officina per un’altra “giornata di lotta”.

Oh, ragazzi: ero O P E R A T I V O!!!


segue:  II parte

  MISSIONE GRUMENTO: sempre operativi!!



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Big Mark

I misteri della nebbia rosa

– Non è possibile!

Mezzanotte!

Ma dico? Come m’è venuto in mente?

Booh!

E parlo pure solo! –

Eh sì che all’inizio m’era sembrato tutto “umanamente” possibile! Insomma: cosa sarà mai montare l’antifurto all’automobile? Sarà stato l’entusiasmo della modica spesa? … da non credere: solo sessantaseimila lire! Sarà stata la gioia di sapere finalmente impenetrabile la mia carriola a quattro ruote? … fatto sta che era già l’ora delle streghe (la chiamavo così chissà per quale ricordo d’infanzia) … e me ne stavo ancora lì, in officina, ad armeggiare con fili, filetti e cianfrusaglie varie … per di più in un giorno di ferie!

Eh sì, che quell’operazione delicatissima – non per l’automobile, beninteso, ma per la mia salute mentale – l’avrei potuta eseguire solo in un giorno di vacanza. E magari fosse stato uno solo!

Forse perché troppo impegnato, forse perché appassionato da quel lavoro (possibile?) insomma … non m’ero accorto dell’ora. Ah, ecco: l’orologio da polso l’avevo tolto per evitargli pericolosi “virtuosismi articolari”, quello dell’automobile era fuori uso (isolato dall’alimentazione) mentre quello dell’officina … beh, segnava da un paio di giorni un’improbabile quanto irremovibile sei e un quarto.

Fortunatamente c’era un orologio – quello biologico – che, per quanto privo di lancette, era relativamente preciso. Peccato che andasse interpretato! In quel momento gli occhi intorpiditi, una serie sospetta di sbadigli (e non poteva essere il lavoro noioso, perché non lo era, anzi) e una stanchezza generale mi suggerivano in modo inequivocabile di “guadagnare” il letto, al più presto.

Mentre mi stavo giusto domandando se tutto fosse dovuto allo sconforto di non vedere la fine di quel “lavoretto”, le note del “Silenzio”, provenienti dalla caserma dell’Aeronautica, a trecento metri da me, appena oltre la rete dell’aeroporto militare, mi urlarono convincenti: “Vattene a dormire, disgraziato!”. Insomma, dovevo riconoscerlo: ero cotto. Per quella sera, anzi mattina, non ce l’avrei mai fatta a terminare l’installazione … e così feci!

Sistemare le mie infinite carabattole, spegnere tutto e chiudere le porte dell’hangar fu cosa insolitamente faticosa. Neanche l’aria gelida dicembrina giovò più di tanto alla mia penosa condizione psico-fisica. Mi ritrovai così a tirar fuori la bicicletta dall’altro hangar (per raggiungere il mio alloggio) senza che ne fossi cosciente. Ero così poco cosciente che infatti presi per mia quella che invece … era stata la bicicletta di Konstantino.

In verità avevano: stesso telaio, stesso colore, stessa marca … la differenza stava che la mia era un po’ più accessoriata (tachimetro, trombetta, luci di posizione, catarifrangenti) e un po’ meno dotata di cambio (solo tre velocità, purtroppo), quella di Konstantino volava, la mia saltellava sull’asfalto … praticamente: quasi uguali. Era pure vero che ormai avevo preso l’abitudine di usarla ogni tanto per non lasciarla alla mercé delle ragnatele e della polvere; la mamma di Kostantino me l’aveva pregato. Aveva deciso di lasciare tutte le cose appartenute al figlio (l’automobile, la bicicletta, perfino l’aliante) lì in aeroporto dove lui le aveva usate e dove noi – me lo aveva chiesto tra le lacrime – le avremmo dovute continuare a usare … in sua memoria e dall’amicizia che gli volevamo quando era tra noi. E soprattutto dell’affetto che gli volevamo ancora.

Che terribile giorno … l’incidente! Ormai era già passato diverso tempo … eppure spesso mi tornava alla mente con una tale vividezza che … quasi mi convincevo fosse capitato ieri. Sembrerà assurdo, ma a volte avvertivo addirittura la presenza di Konstantino: niente spiritelli avvolti in lenzuoli bianchi o apparizioni bluastre no, niente di tutto questo … piuttosto una presenza discreta e silenziosa, eppure decisa quale era stata quella terrena.

Non so come … ma sentii la mia voce esclamare: – Scusa Kosta … hai ragione … questa è la tua … ora la rimetto dentro –.

Eh sì: ero proprio stanco!

Nel tirar fuori la bicicletta – giusta, stavolta – mi resi conto di uno spettacolo che raramente si verificava ma di cui anche altre volte ero stato testimone: la nebbia rosa.

Ora che un rude manutentore di alianti, tutto resina epossidica e chiavi a bussola oppure bollettini tecnici e manuali di manutenzione, possa avere una seppur minima sensibilità d’animo … beh, sembrerà molto strano. Certo era che quello che avevo di fronte non mi lasciava del tutto indifferente.

In quella valle alluvionale, attraversata da ciò che non si può definire proprio un torrentello, e cinta da una montagna di oltre duemila metri, la nebbia era un evento meteorologico frequente. Dall’inverno fino a inizio primavera l’aeroporto, in particolare, ne era sovente assediato. A volte, specie nei periodi con cielo sereno, ristagnava per giorni interi, sollevandosi un poco – ma neanche poi tanto – nelle ore centrali della giornata. Questo durante il giorno ma la sera …

La nebbia che c’era quella sera non era una vera e propria nebbia: era … era un morbido tappeto candido che galleggiava a qualche centimetro da terra, alto appena mezzo metro da terra. Sembrava quasi che il terreno, zuppo per le copiose piogge dei giorni precedenti, avesse il fiatone … tanto che il suo respiro affannoso produceva il classico “fumetto”. I lampioni che erano disseminati lungo il perimetro dell’aeroporto militare emettevano invece una calda luce arancione e completavano la magia. I fasci luminosi che lambivano la coltre nebbiosa assumevano dei riflessi dai toni che, scendendo verso terra, passavano dall’arancione all’ocra e poi infine al rosa. Tutto l’aeroporto era così coperto da un grande manto rosato.

C’era forse qualcosa di tetro e d’inquietante in tutto questo ma io, che conoscevo bene i perché e i per come del fenomeno fisico, ero solo affascinato dalla sua bellezza. In tutto l’aeroporto ero forse l’unica forma di vita presente, fatto salvo una volpe che all’imbrunire lanciava il suo richiamo ma che, a quell’ora, se ne guardava bene dal gironzolare per la pista.

A volte la nebbiolina aveva delle repentine fluttuazioni, quasi che qualcosa la turbasse (forse un colpo di tosse del terreno?), a volte ondeggiava o tremolava timida, incerta se guadagnare altro cielo o rimanere lì, sospesa per magia appena sopra i fili d’erba. Qualche lingua di nebbia più audace o solitaria cercava di rompere i bordi del tappeto rosa ma una mano invisibile la invitava a rientrare nei ranghi tanto che, con movimenti dolci ma rapidi, tornava a unirsi alla coltre di nebbia compatta che stazionava docile.

– Certo che sono proprio stanco, eh?!

Io, un tecnologo, che si mette a fare il romantico alla Byron!?

E continuo a parlare da solo … non solo … t’ho, adesso c’ho pure le allucinazioni! –

Stavolta, infatti, non era il solito ondeggiare, il ribollire casuale che conoscevo, sembrava piuttosto come se qualcuno camminasse nella nebbia. In realtà i riflessi della luna illuminavano un poco il buio ma riuscivo a scorgere appena un’ombra, o quello che la mia mente insonnolita assimilava a un’ombra. I lampioni che illuminavano gli hangar civili erano poco più che delle flebili candeline e non aiutavano granché nel buio rosato.

Stropicciarmi gli occhi fu la prima cosa che feci per svegliarmi, sbadigliare la seconda … ma non ero così masochista da rifilarmi uno schiaffone o il classico pizzicotto! E infatti non ottenni granché risultati: la figura si avvicinava e non solo, ora distinguevo qualcos’altro in mezzo alla pista, ma era troppo lontano e troppo poco illuminato. Certo che però poteva dare l’idea – ma solo l’idea, eh! – di un aliante.

Mi sembrava quasi che qualcuno fosse atterrato e che, lasciato l’aliante a bordo pista, venisse verso l’officina a sollecitare il recupero. Se quelle fossero state le cinque del pomeriggio non ci avrei trovato niente di strano, anzi mi sarei precipitato a svolgere nient’altro che uno dei miei compiti. Ma sapevo bene che non erano proprio le cinque del pomeriggio!

Mi era capitato altre volte, rientrando la sera tardi, di trovarmi qualcuno davanti, all’improvviso. In genere erano persone che facevano una “sgambettata” serale o accompagnavano i loro cani a farne una. Che fosse uno di questi? Magari poteva essere il solito tizio con i funghi nel cervello … cioè, intendo … che s’era messo alla ricerca di funghi. In aeroporto ce n’erano davvero tanti (di funghi e di malati per i funghi, anche) peccato che non li avrebbero potuti mai cogliere durante il giorno. Già, perché li avremmo “invitati” caldamente ad andarsene! Prima che qualche aeroplano o qualche aliante li avesse decapitati o fatti a striscioline. Mica per i funghi!

Probabilmente era un audace recidivo: a quell’ora nessuno l’avrebbe colto sul fatto … volevo dire: nessun aeroplano avrebbe compromesso la sua incolumità. Inoltre era lo stesso gioco di luci, nebbia e riflessi che spesso creava strane sagome ma che nulla avevano di solido. Quanto alle coppie d’innamorati che in passato si concedevano qualche momento di piacere fisico … beh, in genere, se ne stavano appartati nelle loro automobili con i vetri appannati: il freddo pungente non invitava certo a passeggiate al chiaro di nebbia rosa. E poi, dacché, era stato chiuso il cancello principale per motivi di sicurezza, per accedere in aeroporto rimaneva solo il passaggio pedonale, dunque di auto appartate dietro agli hangar non ne incontravo più rientrando la sera, dopo il lavoro.

Nonostante le mie capacità intellettive fossero molto prossime allo zero, mi venne quasi spontaneo lanciare un ammiccante: “ueilà!”, straconvinto che nessuno mi avrebbe risposto e … che sarei rimasto stecchito dal terrore se qualcuno l’avesse fatto …

Sempre operativi, eh?

– … o per tutti i palloni aerostatici! … sto’ sognando o cosa? … non può essere! … qualcuno mi ha risposto! … ma no, ho sentito male! … eppure non posso aver sentito male: c’è un tale silenzio! Quasi di tomba! … vorrei vedere: è l’ora delle streghe … Oddio! Tomba, streghe, spiriti … fantasmi? … il fantasma di Konstantino? … solo lui potrebbe dirmi una cosa del genere! Quella era la nostra parola d’ordine durante lo stage di Grumento … la usavamo solo noi! Solo noi due sappiamo cosa significa! … che qualcuno ci abbia sentito e ora voglia farmi uno scherzo? … non è possibile! … nessuno se ne andrebbe in giro a quest’ora … e a far cosa poi? … no, ho pensato a voce alta e allora … sì, sì, dev’essere andata così: ho pensato a voce alta! –

Ormai dopo un momento di ragionevole sbandamento, m’ero costruito una spiegazione più che logica … no? … beh, abbastanza logica.

E proprio perché ispirato da questa logica che replicai verso la presunta voce con un timido: – Operativi al massimo! Sempre! –

Non ottenni risposta (e per fortuna!). Ormai ne ero certo: era stata un’allucinazione! Certo che però … la sagoma a bordo pista doveva essere una bella allucinazione perché dava tutta l’idea di essere ancora lì!

– Sarà il caso d’andare a vedere? – esclamai per farmi coraggio.

Stavo di nuovo parlando da solo, stavolta però, non per sollecitare la risposta di qualcuno che – ormai ne ero certo – non c’era, ma per … dare conferma alla mia più che solida spiegazione (no, eh?) … comunque incominciai col muovere qualche incerto passo in quella direzione, trascinandomi dietro la bicicletta. Perché la fuga è più veloce su due ruote, pensai tra me e me.

La nebbia fittissima mi nascondeva i piedi e quasi mi lambiva fino alla cintola ma io mi muovevo con estrema circospezione: chi mi avesse visto in quei momenti mi avrebbe preso per un nottambulo pazzo furioso. Io invece, mi sentivo come chi attraversa un campo minato o un ballerino che saltella in punta di piedi sui carboni ardenti … ma la curiosità era troppa e dovevo andare a vedere …

Certo mi dispiaceva portare scompiglio tra la placida nebbia rosa ma, guardando a ritroso, fui confortato dalla nebbia che si richiudeva rapidamente ritrovando la sua forma e la sua compattezza.

Arrivato a metà strada, mi sentii soddisfatto di me stesso … e anche più sollevato – lo confesso –. Svelato il mistero! La sagoma non era nient’altro che l’ombra della vecchia garitta di sorveglianza dell’aeroporto militare, allungata a dismisura dalla luce alogena che illuminava l’ingresso laterale del grande hangar dove campeggiava ancora orgogliosa l’insegna sbiadita “Aeronautica Militare”.

– Visto? Tutto ha una spiegazione razionale! – dissi a voce alta.

La serata con brivido poteva finire lì. Tornai verso gli hangars dell’Aeroclub, debolmente illuminati da una vivida luce bianca al neon (quant’era bella!). Inforcai la mia bicicletta e me ne andai con una certa sollecitudine – lo ammetto – verso il mio alloggio: un modesto prefabbricato metallico sei metri per tre ma caldo e illuminato cha a me sembrava meglio di un loft in centro.

In tre minuti raggiunsi la mia abbadia, tempo dieci minuti ero a letto, dopo dodici ero già nel mondo dei sogni.

Mi aspettavo una notte di incubi … e infatti fu tutto un ricordare, un rimuginare quanto mi era accaduto durante la permanenza a Grumento. Quella era stata già nella realtà un incubo, figuratevi riviverla pure in sogno! Naturalmente mi apparve anche Konstantino … niente numeri però.

Al mattino non mi ricordai più di tanto di quelle che erano state le mie avventure notturne. Cominciai la giornata con la promessa solenne che avrei finito assolutamente il lavoretto che mi ero procurato. Anche perché l’indomani avrei partecipato a una cerimonia di commemorazione – e nessun antifurto al mondo me lo avrebbe impedito – a sei mesi dalla scomparsa dell’amico Konstantino.

Inforcai la mia bicicletta e mi diressi verso l’officina per una seconda giornata di litigio con l’antifurto.

– Certo che combinazione, eh! … ieri sera ho creduto che mi parlasse … questa notte l’ho sognato … e domani vado alla messa di suffragio: eh, la mente umana è proprio un gran mistero!

Ero troppo preso nel fare queste elucubrazioni. Non mi accorsi che la sua bicicletta era lì – parcheggiata come sempre lui aveva fatto – davanti a quello che era stato il suo alloggio.





A perenne ricordo di Konstantino … e in fiduciosa attesa dei numeri






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Big Mark

Mio figlio, il pilota

La signora Redward era partita presto, quel mattino, perché aveva curato di pensare ad ogni cosa per tempo fin dalla sera prima. Si era preparata delle tartine, di quelle che piacevano a suo figlio John, che lei sapeva fare così bene fin da prima del suo matrimonio; aveva disposto, di fianco alla porta, per non dimenticarsene, la borsa con dentro l’impermeabile, perché di quella stagione non si sa mai, ed il termos pieno di tè, dissetante e senza zucchero; gli abiti che avrebbe indossato erano già pronti sulla poltrona in camera sua: la gonna scura e la camicetta pesante, lo scialle che le aveva portato suo marito da Boston e il cappotto, quello con le due ampie tasche che erano tanto comode quando si doveva spostare. Aveva anche fatto la sera prima quelle pulizie che poteva, giusto per evitare di trovare un disastro in casa al suo ritorno. Quel mattino, dunque, la signora Redward non perse tempo e fu alla stazione degli autobus un buon quarto d’ora prima della partenza. Non fu difficile, per lei tanto mattiniera, uscire così presto, benché le prime ore dei suoi giorni si svolgessero solitamente in casa, indaffarata alle faccende domestiche. Di solito usciva solo più tardi, per le spese. La signora Redward approfittò dell’attesa per annotare mentalmente i conti e gli acquisti che le sarebbe toccato fare l’indomani, perché quel giorno non avrebbe avuto tempo per altro che per John. D’altronde, da quando suo marito Arnold era morto, non aveva più molte cose di cui occuparsi nell’appartamento troppo grande. L’autobus non era affollato alla partenza, ma lei sapeva che si sarebbe riempito alle fermate successive. Quelle poche volte che aveva potuto recarsi alla base aerea, parecchi chilometri lontano, aveva sempre trovato qualche persona simpatica con cui passare il tempo del viaggio. Come montò fu salutato dall’autista, il figlio di una cara amica. “Buongiorno, signora Redward, andiamo alla base?” “Certo, caro Mick, però non sapevo se partire, questa mattina. Non vedo l’ora di arrivare, sapesse la gamba come mi ha dato fastidio ieri… Spero di non avere problemi durante il viaggio, sa com’è lungo.” “Non si preoccupi, signora, andrò tanto leggero che le sembrerà di stare seduta a casa davanti al televisore.” “Ma non è colpa sua, Mick, è che quando si diventa vecchi non va mai bene niente.” Mick sorrise, perché sua madre era piuttosto simile alla signora Redward, che nonostante la sua età parlava di vecchiaia solo per amore di dialogo. Era stata spesso malata, anche da giovane, ma non si era mai lamentata. Ora però… “A proposito di televisione, sa che oggi c’era una puntata che mi interessava, sul canale sei? – disse lei – stanno per prendere il colpevole della truffa all’agenzia di Rhoda News, e…” Mick trattenne a stento una risata. Quel giorno aveva accolto con piacere la notizia di un altro viaggio nel pomeriggio, proprio perché in tal modo non si sarebbe trovato a casa mentre trasmettevano quella robaccia. La signora Redward guardò fuori dal finestrino tutto quello che della cittadina era visibile. “Guarda, pensò, hanno affittato la vecchia casa di Mildred.” Continuò a rimuginare: “Il tetto sopra alla drogheria sarebbe ormai da rifare. Chissà cosa aspettano, una casa tanto bella.” L’autobus si avviò con moderata pigrizia verso il consueto viaggio, ed in breve arrivò alla fermata successiva, dove si riempì di pendolari. Erano tutte facce sconosciute, e vicino alla signora Redward si mise un signore assonnato e poco incline alla conversazione. “Buongiorno” fece alla donna, che lo guardava cordiale. “Buongiorno” rispose lei e, dopo un attimo: “Mi chiamo Clara Redward, sta andando al lavoro?” Senza attendere la conferma scontata aggiunse: “Io vado a trovare mio figlio alla base aerea.” Era orgogliosa di questo. “È lontano” commentò l’uomo. “Oh, ma non troppo. Sa, ho portato delle provviste, perché allo snack a metà strada alle volte le cose non sono preparate troppo bene. Comunque in una giornata vado e torno, e ho tempo di stare un poco con mio figlio. È pilota, sa?” “Pilota?” “Sì, pilota di quegli apparecchi che usano adesso, i jet da caccia. Ma mio figlio li collauda pure, quei cosi.” Il signore si limitò ad un sorriso e Clara Redward cambiò argomento. “Ha fatto colazione? Vuole una tartina?” e trasse rapidamente un pacchettino dalla sua borsa. “Le ho preparate io. Senta se non suono buone.” Il signore accettò perché non sapeva come rifiutare. “Buono” disse, un po’ sorpreso. “Sì, vero? Le preparo da anni sempre con la stessa ricetta, che ho imparato da ragazza. Ma ogni tanto ci aggiungo qualcosa di fantasia.” Il signore sorrise ancora e si accomodò più comodamente sul sedile. La signora Redward ricambiò il sorriso e si mise a guardare il paesaggio. Pensava che suo figlio, con la giornata che era, doveva essere uscito leggero, e ora che minacciava pioggia magari si trovava lontano dal suo alloggio. Glielo aveva detto fino alla nausea di stare attento al clima, prima di uscire, ma John non aveva mai fatto caso a niente, sempre perso nelle sue fantasie. Fin da ragazzo aveva avuto un carattere sognante, la testa fra le nuvole, e ora fra le nuvole ci stava davvero spesso. I chilometri si susseguirono rapidamente; il signore la salutò di fretta e scese. Due fermate dopo il posto venne preso da una donna ancora piuttosto giovane. Il suo aspetto era fresco, ma aveva un’espressione abbattuta. Salutò distrattamente la gentile anziana signora vicina al finestrino e si sedette rigida guardando avanti a sé. “Buongiorno” le fece Clara “sta andando in città?” “Sì, all’ospedale” rispose lei. “Lavora lì?” La donna scosse il capo. “Oh! C’è qualcuno? Suo marito?” “Sì” mormorò appena la donna. Clara non osò farle subito qualche altra domanda, perché si accorse che aveva gli occhi lucidi. Tirò fuori il termos e con noncuranza riempì due bicchierini. La signora Redward aveva sempre cura di portare diversi bicchierini con sé. Ne porse uno alla donna che lo prese senza parlare, con un fugace sorriso. Sul suo volto si dipinse un attimo di sorpresa. “No, non è caffè. Il tè è più dissetante e non fa così male. Mio figlio John non aveva mai bevuto caffè fino all’età di quindici anni, perché a casa non se ne parlava neppure. Infatti anche mio marito…” Si accorse che stava toccando un argomento penoso. “Coraggio cara” disse, con un gesto di familiarità che la sua età le permetteva “non so cosa sia, ma non può essere tanto grave.” “Oggi si opera, sa, non ha mai avuto nemmeno un raffreddore…” ma non sapeva continuare. “Oh, e mi dica: che operazione è?” chiese la signora Redward. “Si chiama ectasia, sì; è un danno all’aorta.” “Ah, ma ne ho sentito parlare!” disse allegra. La signora Redward era un’assidua ascoltatrice di trasmissioni mediche. Era solo in quelle circostanze che i dottori le davano un qualche affidamento. “Davvero?” fece la donna con interesse. “Certo: è un’operazione ormai comune, la fanno ovunque senza problemi.” “Spero che abbia ragione, signora.” disse la donna con un mezzo sorriso, e in un baleno si ritrovò il bicchierino pieno di tè. Familiarizzarono ancora un poco, finché la donna fu arrivata e scese. Da quel momento l’autobus, che aveva toccato i quartieri periferici della città, si avviava per un tragitto alquanto lungo, attraverso una campagna quasi interamente coltivata e due altri centri abitati. I passeggeri rimasti erano i pochi che quel mattino partivano per qualche destinazione lontana. Intanto il sole aveva preso il posto delle nubi, riscaldando la strada. Poco oltre, un bivio indirizzava fuori dallo Stato sulla sinistra, mentre a destra già si poteva intravedere la base militare. La signora Redward stette da sola a pensare. Ritornò alla volta in cui suo marito si era sottoposto a quell’operazione allo stomaco; alla preoccupazione che provava per lui. Ma suo marito aveva un carattere deciso, ed era seriamente intenzionato, così le disse: “Clara, sono seriamente intenzionato a non permettere ai miei guai di togliermi il buonumore.” Così le disse, la volta che lei aveva per un attimo rivelato la sua ansia. Non le era occorso molto tempo, dopo sposata, per imparare che con suo marito non si poteva nemmeno mostrare disagio; le sembrava che nel suo profondo fosse sicuro di poter conquistare il mondo solo perché così gli andava. Alle volte questo atteggiamento l’aveva infastidita, perché Arnold le ricordava quei politici alla televisione, tutti presi dall’impegno di sembrare la persona giusta, piena di risorse. Suo marito almeno non aveva la pretesa di essere onnipotente, ma lei l’aveva visto spesso interdetto di fronte alle difficoltà, solo per non averle prese in considerazione prima. E spesso lei si era dovuta impegnare per trovare rimedio a qualche guaio di troppo; una volta aveva davvero creduto che non ce l’avrebbero fatta: Arnold aveva deciso di comprare quella casa e aveva cambiato lavoro; si erano ritrovati con debiti da tutte le parti, un figlio piccolo e tanto lavoro per tirare avanti. Anche Clara aveva impedito ai problemi di deprimerla, ovvero ci aveva provato. Suo marito aveva passato la vita studiando il modo di mettersi in difficoltà, e sembrava che non riuscisse a stare tranquillo se tutto andava bene. Clara non capiva il perché di tanto affanno: gli aveva detto in più occasioni: “Stiamocene tranquilli, Arnold, abbiamo fatto la nostra parte, ora godiamoci i risultati.” Ma lui rispondeva: “Lo dobbiamo fare per noi stessi e per John. Voglio che nostro figlio possa dire che abbiamo fatto il meglio per migliorare la nostra posizione.” Non era stata una vita noiosa, con Arnold, e il vuoto improvviso dopo la sua morte le era parso addirittura incolmabile. D’altra parte, adesso la tranquillità le giungeva gradita, ad un’età in cui non si vorrebbe mai dover ricominciare daccapo, con un figlio grande e ormai autonomo. John… anche lui un conquistatore. Aveva un carattere al peperoncino, lo dicevano fin da piccolo; sempre ad arrabbiarsi ogni qualvolta il mondo non gli obbediva. Adesso la base era di fronte a lei, e le batté il cuore più forte al pensiero che stava andando a vedere quel suo figliolo, che ormai nessuno tranne lei ricordava piccolo. Quel giorno doveva essere libero, e solitamente l’aspettava fuori dai cancelli. C’erano spazi in abbondanza, nel parco interno, ma lui l’aspettava sempre fuori. Dov’era? La signora Redward si guardò in giro, appena scesa, ma non lo vide. Entrò nell’ufficio all’ingresso e vi trovò quel capitano, come si chiamava? “Buongiorno, signora!” Il capitano, che era amico di suo figlio, non ebbe difficoltà a riconoscerla, ma sembrava sorpreso di vederla. “Buongiorno, caro, hai visto John?” L’uomo guardò l’altro militare alla scrivania: “Non sapevo che oggi fosse libero.” “È Redward?” disse l’altro “Io so solo che non escono dall’hangar da ieri.” “L’hangar? Quale hangar? Che ci fa?” chiese Clara. “Stanno provando un aereo” disse il capitano “e hanno dei problemi per la messa a punto. Nulla di serio, ma sa com’è; credo che non sappia nemmeno che giorno è oggi. Venga.” Con esagerata gentilezza, il capitano le prese il braccio e la guidò all’interno della base. Clara si sentiva piuttosto delusa. Da settimane avevano progettato l’incontro di quel giorno, e adesso scopriva che suo figlio non se ne ricordava neppure. Seguì il capitano fino ad un palazzo, vicino alle aree riservate, e giunsero ad un ufficio la cui ampia finestra dava sulle piste più lontane. “Resti qui, signora; vedo se riesco a trovarlo” le disse l’uomo, e si allontanò dopo averla fatta accomodare. Clara era un poco perplessa. Rimase a guardarsi attorno, col pacchettino delle provviste che non sapeva dove mettere, in imbarazzo ogni volta che qualcuno, passando, metteva la testa dentro. All’improvviso, da lontano, le giunse il rombo di un aereo; non era il primo da quando era giunta, ma questo la fece avvicinare alla finestra e vide, sulla pista nello sfondo della base, quasi confusa col tremolio del calore che si alzava dal suolo, la forma di un sottile aereo che prendeva quota un po’ troppo rapidamente, così le parve, e che andava un po’ troppo veloce. Per qualche ragione, le venne in mente che avevano parlato di un nuovo caccia, e che suo figlio forse era proprio lì a bordo. Il suo precedente imbarazzo fu dimenticato, mentre lei seguiva le evoluzioni troppo elaborate dell’apparecchio. “Perché tutti quei rigiri?” si chiese Clara. L’aereo stava provando se stesso: provava la sua velocità, assaggiava il morso dell’aria contro le sue lamiere; si spostava di lato, all’improvviso, come per un’idea bizzarra che lo chiamasse altrove. “Non dovrebbe fare così”, pensava Clara, e l’aereo si alzò rapidamente, con l’urgenza di arrivare chissà dove, ma non in linea retta: cercava qui e là, un equilibrio o una sicurezza. Arrivò infatti, là dove doveva. Prese nuovamente l’assetto orizzontale, e cominciò un tragitto più calmo, come se l’altezza raggiunta non richiedesse più l’affanno di chissà quale ricerca, ma con un’aumentata velocità, quasi nella sicurezza della meta. Successe di schianto: Clara ebbe un sobbalzo, mentre qualcosa si staccava e rimaneva indietro, con uno scintillio presto svanito. L’aereo sbandò, si mise per un attimo di pancia, e iniziò una discesa, più lenta ma tanto, tanto più atroce della salita. Clara non poteva pensare ad altro che a quel giocattolo che si abbassava ondeggiando; pareva qualche persona indecisa sulla direzione da prendere, o uno che a letto non trovasse la posizione per dormire. Clara fu sorpresa di ridere alla strana associazione: quell’aereo non aveva nulla di ridicolo nella discesa. Fu con un sospiro di sollievo che lo vide rallentare la caduta, riprendersi. Si rimetteva in linea, ce la faceva! Fu appena ai limiti della sua consapevolezza che annotò l’accorrere di parecchia gente alla pista di arrivo, mentre l’aereo atterrava, dopo tutti i guai, tranquillamente; lo si sarebbe detto lieto di avere finito. Clara si rese conto di avere le mani indolenzite, strette come si erano al davanzale. Non poteva restare a guardare, e se John fosse stato lassù? Si mosse per uscire, ma la pista era troppo lontana. Rimase alla finestra e guardò in giro, cercando John fra quelli che accorrevano, ma non c’era. Dopo un tempo lunghissimo arrivò il capitano. “Tutto bene, signora. Non è successo niente.” “Ma cos’è stato? E John?” “Non è successo niente, signora, venga, la porto da suo figlio.” L’uomo l’accompagnò con un’auto fino ad un’altra palazzina. Lei era tanto stanca, emozionata e confusa; appena giunti si sedette. Nell’altra stanza voci concitate sembravano commentare i fatti. “Ti dico che era quello!” diceva qualcuno “La stabilità era compromessa nelle strutture dell’ala sinistra.” Clara riconobbe la voce di John, e proprio lui arrivò nella stanza insieme ad altre persone. “Succede tutto durante le accelerazioni” stava dicendo “Mamma! … oh!” Solo allora si ricordò di che giorno fosse; si avvicinò alla donna e l’abbracciò. Clara non sapeva cosa dire. “John, cosa succede? Credevo che oggi fossi libero. Cos’è capitato con quell’aereo?” “Niente di grave, mamma. Ci sono dei problemi ma li stiamo risolvendo.” “Ma c’eri tu lassù?” Clara non si era ancora ripresa dall’emozione. “Sì, certo, ma…” “John, è pericoloso!” “Andiamo, mamma, ne abbiamo già parlato.” entrò dell’altra gente “Ora ti devo lasciare con Fred, ma torno subito. Devo discutere qualcosa. Ci vediamo.” Mentre qualcuno lo chiamava e un altro gli prendeva il braccio dette un’occhiata al capitano, che lo guardava con disapprovazione. L’uomo aveva tenuto un atteggiamento protettivo fin da quando si erano incontrati. John e tutti gli altri sparirono in un turbinare di discussioni. Clara rimase con il capitano di prima, frastornata. Fred, ora si ricordava il suo nome, l’accompagnò su un’auto al bar della base. Fu solo dopo aver bevuto lentamente un altro tè che fece la domanda. “Fred?” “Sì, signora?” “John ha rischiato grosso, oggi, è vero?” Fred abbassò lo sguardo, non per evitare l’altro, ma per trovare le parole. “Vede, non è che sia successo qualcosa di grave. Alcune sovrastrutture, nemmeno complete, hanno ceduto, e così l’aereo si è trovato improvvisamente senza l’assetto giusto. John ha dovuto rimediare a naso, e ci è voluto il suo tempo.” “Ma come si fa, dico io. Non è mica il modo, questo. Salire con un aereo che non va ancora bene…” “È proprio per vedere cosa non va che si deve provare. Se nessuno lo usa, un aereo rimane un sogno ad occhi aperti.” Clara ebbe un gesto di fastidio. “Quando ero una ragazzina, feci a tempo a veder volare i biplani, e da allora ne hanno costruiti di tutti i tipi. Ma a che serve? Non ci sono già apparecchi abbastanza veloci? Cosa mai avrà questo nuovo, che non abbiano anche altri?” Fred sorrise, senza rispondere. Altri aerei si stavano alzando. Clara si domandò oziosamente dove andassero, e nel figurarselo si abbandonò alla fantasia. Pure a lei sarebbe piaciuto andare in qualche posto, se solo avesse avuto un aereo come quelli… magari indietro negli anni. La sera, ormai, era vicina. Tutti i fatti del giorno le avevano fatto volare la giornata, e Clara pensò che ormai non c’era molto tempo. Guardò il grosso orologio appeso al muro. “Fra poco ripassa l’autobus, signora. Vuole che l’accompagni all’uscita?” “Grazie, Fred. Non mi ero accorta di quanto fosse tardi. È stato molto gentile a tenermi compagnia. Certo, se quello svanito di mio figlio mi avesse almeno avvertita, si poteva rimandare.” “Io un po’ lo capisco;” disse lui avviandosi” ha visto com’era eccitato? Scoprire cosa non andava era il suo chiodo fisso da parecchio, ormai. Credo che gli sarebbe venuto un colpo se non avesse risolto i problemi.” “Vuol dire che è grazie a John se quell’aereo volerà?” Era difficile non farsi contagiare. “Non proprio. Si devono rifare alcuni calcoli, fare prove a terra, ma oggi hanno rotto il guscio della noce.” Clara rise al paragone, anche se in fondo sentiva, chissà perché, una certa tristezza. Erano giunti all’ingresso e si sentiva odore di erba; forse era per quello. “Mi spiace signora, ma fra poco dovrò andarmene.” “Non importa, caro Fred, sei stato proprio un tesoro.” “Vedrò se John potrà liberarsi un attimo.” Il capitano esitò ad allontanarsi; poi, con un cenno impacciato del braccio, si mosse e Clara si voltò a guardare la strada, nella direzione da cui doveva comparire l’autobus. La pianura le permetteva di vedere assai lontano, ma non si vedeva ancora. “Le mattine sono più allegre delle sere.” meditò fra sé. Le venne in mente quando da ragazzi suo marito la portava fuori la sera. I suoi tentativi di fare il romantico fallivano perché Clara non era mai dell’umore giusto. Lei in compenso ricopriva Arnold di moine quando si vedevano al mattino. Arnold… Una nuvoletta lontana attirò la sua attenzione, e con dispiacere capì che era l’autobus. Guardò indietro, ma John non si vedeva. C’era ancora l’altro soldato all’ingresso, e le dava fastidio che la vedesse in quella doppia attesa; non le era mai parso bello farsi vedere ansiosi. I colori della sera stavano cambiando, e Clara, che non aveva più la vista di una volta, doveva socchiudere gli occhi per seguire l’autobus; non voleva perderlo di vista, come quando al cinema c’erano scene paurose e non sapeva distogliere lo sguardo; come un daino che non perde di vista il puma che l’insegue; come di solito si tiene desta l’attenzione su quello che ci preoccupa. Le venne in mente che forse poteva rimanere senza benzina. Magari poteva forare, tanto su quella strada non c’era pericolo. “Mamma!” Clara si voltò. “John, che diamine. Ti pare bello sparire così? Credevo proprio di non vederti nemmeno per un attimo.” “Quel figlio di una vacca ha voluto rifare conti finché non l’ho mandato a quel paese.” “John! È questo il modo di parlare? Cosa ti hanno insegnato in Accademia?” “Scusa mamma… E scusa anche per il bidone.” Clara se lo guardò per benino. “Era così importante?” E gli occhi di lui furono un’esplosione di entusiasmo. “Mamma! Era la prima volta che guidavo le prove pratiche, a terra e in volo. Non poteva esserci una cosa più importante di questa. Cioè, non proprio, voglio dire…” Clara rise, perché se lo conosceva bene quel ragazzo. Lo baciò, mentre sentiva l’autobus fermare davanti alla base. John la seguì fin dentro, si accertò di procurarle un posto al finestrino, e si salutarono semplicemente. “Mamma, credo che dopo questa faccenda potrò essere libero per un po’. Se riesco, vedrai che riusciremo a stare insieme a casa.” Era piuttosto stanca, la signora che si apprestava al lungo tragitto verso casa. Casa… Non vedeva l’ora di mettersi a letto. Per quel giorno aveva fatto tanto e aveva combinato poco. Però, che testaccia di figliolo le doveva capitare. Quel ragazzo era tremendo alle volte. Si corresse: quell’uomo. Quanti anni aveva adesso; e quanti ne aveva lei? Le era sempre piaciuto guardare fuori dai finestrini, ma quella volta non continuò. Si abbandonò a ricordare tutte le volte che aveva guardato dai finestrini lungo la strada; le volte in macchina con suo marito, magari tenendo John in braccio; prima ancora, con suo padre alla guida della loro auto scura e suo fratello che le faceva i dispetti; più tardi, sugli autobus che aveva preso tante volte, prima verso l’Accademia Militare e poi verso la base. Una volta suo figlio aveva comprato un’auto e l’aveva portata un po’ in giro, ma era uno sfasciamacchine il suo John, che preferiva guidare quei cosi per aria. Cosa ci trovava, poi? Anzi, cosa andava cercando tutta quella gente che si dannava l’anima per cose di cui nessun’altro si occupava? Erano davvero soddisfatti quando ottenevano i loro scopi, o nemmeno a loro importava? Era sicura di non aver mai avuto negli occhi uno sguardo come quello di John quella sera. O che aveva visto negli occhi di suo marito tante volte. La signora Redward accolse con gratitudine l’ultima fermata. La gamba prese a dolerle un poco. Si affrettò verso casa, osservando la via illuminata, e riprese il filo dei pensieri interrotti quel mattino. Avrebbe dovuto fare altre spese, l’indomani. Pensò all’album delle fotografie, e si ripromise di dargli un’occhiata, qualche volta.


#proprietà letteraria riservata#


Riccardo Baldinotti

I misteri della nebbia rosa

aliante gialloCi sono fenomeni naturali che sfuggono alla logica: la nebbia rosa è uno di questi. Quando simili eventi si verificano, anche l’individuo più razionale comincia a dubitare di ciò che sente e di ciò che vede … come il protagonista di questo racconto.


Narrativa / Medio-breve Pubblicato: inedito Note: inserito nella raccolta di racconti inedita “Voci di hangar