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Prova d’esame e di fuori campo

 Università degli studi di Perugia ” Accademia degli stranieri “

Prova d’esame: composizione tematica. Traccia: “Le vicissitudini quotidiane dell’uomo comune sono tali e tante da superare talvolta la fantasia del più estroso scrittore del genere fantastico” ( D. Papini ) Il candidato, ricorrendo al modello narrativo epistolare, esponga una vicenda che segua la logica della citazione sopra riportata.

Svolgimento

Caro Paolo, tu sai come è difficile per me scrivere queste parole, ma non per la lingua. Perché tu piacevi a me e penso che anche io piacevo a te. Io stavo bene quando tu eri con me e spero tu anche. Tu sei bello, divertente e simpatico ragazzo, ma hai piccolo problema: tu sei pilota di aliante.

Perciò io devo scrivere questa lettera. Per spiegare perché io non voglio vedere te per il futuro.

Tu non conosci quanto io sofferto, quanta paura e fame e sete e sonno io sentito la ultima domenica che io e te stati insieme. Io pensato molto e a fine io deciso che io non posso stare tua ragazza, ancora. Io spero che tu capisce mia decisione.

Se tu non capito perché io fatto questo … beh, tu capiscerai se legge di seguito!   La scorsa week-end tu hai chiesto a me se volevo venire con te e tuo amico Dante all’airporto. Ok ho detto!

Io non pensavo che airporto era un semplice prato con piccolo camping, piccola piscina, alcuni hangar e molti alianti. L’airporto in United States sono molto diversi da questo. Ma bello lo stesso.

Tu e tuo amico Dante avete comprato una vecchia caravan per campingare in airporto. Quella domenica noi portato caravan in airporto. Il viaggio stato molto lungo e lento: solo sessanta chilometer in ora. Ok, io felice lo stesso!

Dopo parcheggiato caravan in camping.

Dopo noi costruito veranda.

Dopo ancora noi andati in supermarket per comprare qualche cosa per mangiare e per bere.

Dopo noi preparato cena e dopo noi molto stanchi: andare a dormire alle mezzanotte.

Io molto felice perché stare con te. E tuo amico Dante, anche.

Domenica mattina noi alzati molto presto (sette) perché voi volare con aliante. Noi avuta colazione italiana in bar: molto buona!

Poi noi preparati alianti e poi voi briefingato con boss di stage. Lui decise che tu volava con lui su aliante due posto e Dante volava da solo. Tu ricorda vero?

Tu hai detto a me: – Boss è grande pilota, campione tante volte in gare nazionali ed internazionali -. Tu era molto contento di volare con lui. Anche io per tu.

Quando decollati io non preoccupata, io felice!

Veramente io … molto stanca e sonno, perciò andata indietro in caravan a dormire.

Io svegliata a due di pomeriggio: avere un po’ fame. E sete, anche (essere molto caldo). Perciò io andata in piscina per nuotare, poi – io pensavo – avere pranzo. Ma in frigidaire non c’era niente: solo pomidora per spaghetti! Ok, io non preoccupata: io mangiare cena quando voi atterrati. Perciò andata indietro in piscina per nuotare e bronzare pelle.

Cinque pomeriggio … voi ancora non tornare. Ok.

Sei pomeriggio … voi ancora no tornadi. Ok.

Sette di pomeriggio voi ancora non tornadi. Ok, ok, io un piccolo preoccupata!

Alle otto sera tornato solo Dante.

Lui detto a me: – Paolo è fuori campo! Vuoi venire con noi? –

– Ok – ho detto. Ma io non sapevo cosa significa parola “”fuori campo”.

Io pensato che tu era fuori di rete di airporto: noi tirare con automobile e portare dentro di campo, semplice vero?

Con Dante era altro ragazzo, un grosso e largo ragazzo che il suo nome era Marco. Dante mi ha presentato lui e detto che Marco avrebbi dato noi aiuto per portare tuo aliante in airporto.

Io però non capivo. Tu aveva detto a me: – Non devi preoccupare: aliante è molto sicuro. Lui non ha motore, è come byclicletta. Male che essa può andare è bucare ruota! –

Allora … tu aveva bucato ruota?

Ah … tu aveva detto a me anche: – L’aliante può atterrare in campo da tennis -.

Ma allora perché airporto sono così grandi?

Ok, ok, io capirò altra volta.

Perciò io andata in automobile con Dante. Mentre io saliva io visto che a la automobile era attaccato un lungo carrello: a che cosa serve? Io non so’? Loro non detto niente a me!

Poi noi usciti da airporto.

Io pensato di vedere te dopo qualche minuto … mentre noi camminava con macchina … beh, io spettavo altro minuto … ma noi camminava ancora fino a che … airporto finito: tu non era fuori di rete!

Io volevo domandare a Dante: – Dove stare Paolo? – ma lui parlava veloce con Marco.

Quando io capito racconto di aliante dentro la foresta, poi di aliante sulla montagna o in mezzo a pecori oppure in campo di tabacco … beh, io avuto freddo brivido e non aprita lingua. Io non comprendevo tutte le parole però dicevano – io sono sicura- di contadino arrabbiati con fucile e subito dopo di altra storia di cena con fungi porcini in casa di altro contadino, oppure di aliante con incidente in autostrada … Io molto preoccupata, io non felice!

Ma insomma – pensavo – dove noi stavamo per andare? Loro parlato più volte di campo di lago di Piediluco ma io non sapevo niente di dove essere lago. Noi fatto brutta strada con molte curve: io sentito male come quando essere dentro di barca. Ma in mio stomaco non c’era niente!

Era quasi notte quando noi vista macchia bianca di aliante in mezzo al campo.

Io molto felice quando vedere te, e anche tu – spero- quando vedere me. Ma tu dato a me solo piccolo braccio e bacio su fronte, poi andato con boss, Dante e Marco a smontare l’aliante e lasciata me come basilico su spaghetti con pomidora …

L’aliante era vero al centro del campo ma … non era campo da tennis! Era super grande campo con strade piccole intorno ma … a mezzo miglio – io calcolato con occhio –

Noi andato in direzione di aliante, ma molto difficile camminare perché campo arato. E molto profondo, anche.

Voi girato intorno a aliante – non ho mai capito cosa essere interessante in pancia di aliante … che tutti guardare e toccare, mah! – poi parlato quarto di ora. Dopo voi detto a me: – Indy, tu sei nostra luce! – Mah, veramente … ok, mii amici diceno che io sono ragazza brillante … ma non fare luce da sola, ancora!

– Con lampadino, Indy … con lampadino – Ah, ora io capito! … io fare luce con piccola lampadina a batteria e capito da tuo faccia che tu rabbiato con me, anche.

Io volevo chiedere perché rabbiato ma Mario dice: – India, fai luce qui – poi Dante detto: – Indy, fami luce! – poi anche boss:- Lumina, prego – … ehi! Ok, io luce … ma non potere fare luce in tre posti diversi in stesso tempo!

Voi comunquo molto bravi perché fatto aliante in quattro pezzi. E ora?

Voi preso bocca di aria e asciugato acqua su facci e corpo, poi parlato altro quarto di ora – ma italiani fare sempre così? – Finalmente voi deciso di portare ala in direzione di macchina e carrello. Ma molto difficile perché ala pesare molto e zolli molto grandi: voi sembrare come ubriachi a sabato sera.

Io avuta molta preoccupata perché tu presa parte di ala più pesa. Io pensato: se ala cade mio Paolo hamburger! Perciò io venuto vicino a te con piccola lampadina per fare conforto.

Anche tu preoccupato … ma per ala di aliante! Ricordi, vero Paolo?

Ricordi che usato una ora per andare fino a macchina? Ricordi che voi fatto venti tappi, pulito venti volte scarpa da terra, detto venti volte: – Forza che siamo arrivati! – e che voi puzzato come pecori con corna?

Io ricordi pure che era dieci di sera e che aveva tanta fame e sonno!

E voi? Voi parlato altro quarto di ora poi tu non spiegato niente, hai chiesto a me lampadina e partito verso casa di agricolo. Io non capito neanche quando Marco detto a te: – Ce l’hai abbastanza argomenti? – e tu hai risposto: – Ce l’ho, ce l’ho -. Ma che significava questo? Io non capito subito!

Dante e Marco tornati verso di aliante e io rimasta sola con boss vicino a vettura.

Campo tutto buio. Io sentito musica: esso suonava da piccola città davanti a lago. Era bella musica per ballare. Forse c’era festa di paese con grande barbecue, hot dog, popcorn, birra … poi sentito lontano parolaccia: io pensato che Marco caduto su terra. Lui non è leggero. Più orso che scoiattolo. Tu non venivi indietro e io molto stanca, sonno e fame, anche.

Io fino a oggi mai raccontato ma … boss incominciato a parlare, a chiedere a me da dove ero, se ero fidanzati, se io e te litigato spesso. Io risposto a tutte le domande poi però io capito … dove andare! In Italia voi chiama “fratta”, vero? Io so’ italiani grandi amanti ma quello no posto, non ora giusta, boss non piacere a me e poi io amare te: io ragazza con cuore e testa, anche. Io avuto freddo brivido in schiena: stato molta paura. Però io avevo possibile tana: vettura. Perciò io andata in automobile e chiusa dentro. Io salvata da pericolo, grazie a Dio!

Io non saputo cosa successo dopo perché io veramente molto stanca e sonno, perciò a caduta in dormire.

Io fatto brutissimo sogno: io ero sola in grande campo in notte. Io non sapere dove andare perché tutto buio. Io cammino ma metto piede male e cado in buca. Io provo a uscire ma mio piede bloccato. Allora io sentito rumore e vista forte luce. Io pensato: qualcuno aiuterà me. Luce e rumore era più vicina, ora … ma la luce avvicina a me .. rumore è più forte, più vicina, più forte … Oh, Dio! Essa vuole uccidere me! No, nooooo …

Io svegliata tutta bagnata in mio corpo … esso era solo sogno? No, esso non era solo sogno perché adesso io era sveglia ma sentiva ancora rumore e vedeva luce. Io poi vista che voi era vicina di essa: voi in pericolo! Io urlato a voi: – Danger! Pericolo! … scappate!

Voi guardato me e tu detto: – Indya ma che hai? Non hai mai visto un trattore?

Ma sì, certo! Era trattore … poi io capire: il trattore faceva strada con ruote su campo arato. Io però avuta molta paura e bagnata in dosso.

Voi finalmente portati tutti i pezzi di aliante vicino a carrello e vettura. Guardato orologio: era undici di notte. Io pensato: tra poco noi tornati in airporto. Io non pensavo che mettere aliante su carrello essere più difficile che portare aliante da centro di campo fino a strada! Io non capito: aliante non stare bene su sella – così loro nome, vero? – Poi bulloni non blocca sella di fusoliera, poi manca corde per legare aliante e poi … voi dimenticare indietro ultimo pezzo: ala di coda, poi girare carrello con vettura perché non poteva camminare indietro … insomma noi stati in maledetto campo fino a mezzanotti!

E voi chiamare questo fuori campo? Questo essere tragedia. Ma non per pilota, no! … per povera gente che fatto recupero!

Noi tornati dopo viaggio infinito a quaranta chilometer in ora. Io ricordo di essere in aeroporto mezzo dopo mezzanotte. Io dico: è possibile questo? E’ possibile che quando tu anderai a volare io devo essere sempre con paura se tu vivo o morto o chissà dove atterrato? Io dico no! Scusa me ma io non posso vivere con questo terribile paura! Perciò devi capire Paolo: io volio molto bene a te ma non posso vivere altra giornata come domenica scorsa! Io non posso chiedere a te: – Paolo, non volare! – oppure: – Paolo: o io o il volo a vela! – Io ti volio bene ma non posso vivere con pensiero che tu tradisci me con aliante. Io prego te: non telefonare, non cercare me in università. Io decisa e non andare indietro. Addio. Paolo!  

Tua amica India Jonhson

– India Johnson?

– Sì? Buongiorno professore!

– Buongiorno, signorina India. Prego, si accomodi.

– Grazie.

– … per quanto riguarda la sua composizione tematica … ah, eccola qui … beh, le posso comunicare fin d’ora che ha correttamente interpretato il testo della traccia … tuttavia il suo italiano è sin troppo precario! Se ne rende conto, vero?

– Sì, io so.

– … appunto, perciò se intende seguire in modo proficuo questo corso di laurea, deve assolutamente migliorarlo. E anche alla svelta!

– Ok!

– Lo svolgimento è decisamente esauriente … forse anche troppo prolisso, non crede?

– E’ vero ma in United States io telefono spesso a miei amici. Io non scrivo mai …

– E ha fatto sempre male: deve abituarsi a scrivere. E in italiano, anche … comunque va senz’altro premiata l’originalità del testo: sa, la vicenda è davvero molto fantasiosa!

– No, scusi. Non è niente fantasia in storia.

– Su, su, non sia modesta: ha superato brillantemente l’esame – in genere mi scrivete le solite storie alla Stephen King – ed ora non c’è motivo che mi dica bugie.

– Io non dico bugii. E’ tutto vero. E’ stato realmente come io ho scritto.

– Suvvia! … veramente? … ma allora è stato un incubo! Altro che Stephen King!

– Oh, sì. E’ stato incubo … ma molto fortunata perché poi risolto bene.

– Ah! Perché forse mi vuol dare ad intendere che … questa lettera l’ha realmente scritta al suo fidanzato?

– Yea! Scritta e spedita!

– Ma senti! E lui … come ha reagito?

– Ha sposato me.

– No! Veramente? … cioè … rallegramenti signora India!

– Grazia. – E … mi dica … lui, suo marito, ha deciso di lasciar perdere quello strano sport … come si chiama?

– Volo a vela.

– Volo a vela, appunto.

– No, lui non ha fatto. Noi comprato aliante due posti con piccolo motore. Io stare sempre con Paolo e fare mai fuori campo. Così io mai preoccupata: io sempre felice!


A tutti i “Paolo” e le “India”: che il vostro sia un lungo volo!


#proprietà letteraria riservata#


Big Mark

La prima volta

– Cinture? … strette! – Altimetro? … azzerato! – Radio? … accesa e in frequenza. – Comandi? … destra, sinistra, avanti, dietro: liberi e a fondo corsa! – Diruttori? … controllati e bloccati! La cappottina si chiuse e mi trovai solo con il K13. Inspirai a pieni polmoni l’odore “sintetizzato” di metallo e di tela verniciata. – Una persona a bordo – precisai alla torre. Ero pronto.

Arrivando alla sezione ologrammi aeronautici, – Bella giornata – mi ero detto malinconico. Cielo azzurro, qualche cumulo, visibilità perfetta, calma di vento: – Come sempre!? – avevo aggiunto sarcastico. Era caldo, questo sì. Ma eravamo pure in pieno agosto! L’ideale per volare in aliante. – Tanto per fare il solito volo cielo campo?! – I miei compagni di corso erano già lì e stavano facendo i controlli giornalieri. In effetti ero arrivato un po’ in ritardo … ma non c’era stato motivo di affrettare il passo: – Anche oggi non farò niente … che non abbia fatto già ieri o due cicli fa – m’ero detto. – La sai la novità? – mi bruciò Matteo. – No. Che novità? – risposi secco. – Il generale?! … se ne è andato! – Ma che dici? – Eh, dico che il generale se n’è andato. Ha dato le dimissioni due giorni fa. Ancora incredulo, pensai a voce alta: – E ora?! – – Semplice! Hanno trovato un altro istruttore – incalzò Matteo. – E … chi sarebbe? – chiesi, ancora più stupito. Non ebbe il tempo di rispondermi: il nuovo istruttore era apparso dietro le mie spalle, quindi si era presentato a noi allievi con un breve discorsetto. Poi mi aveva pregato di prepararmi. Non ricordavo nulla del volo che avevo appena fatto … tranne i suoi “Uhmm”. Era stata la prima volta che volavo con qualcuno che non fosse il generale: il silenzio aveva regnato in cabina dal decollo fino all’atterraggio. Era stato un volo di addestramento breve come al solito. E come al solito avevo rullato fino all’area di parcheggio. Mi stavo preparando a scendere quando l’ennesimo “uhmm”, stavolta interlocutorio, aveva preannunciato la voce del mio nuovo istruttore: – Ora vai da solo. – Ero rimasto pietrificato.

Mentre il traino ancheggiava tirandosi dietro il cavo, ripensai a quello che il generale mi aveva insegnato: “il pilota è un automa”. “Egli svolge le manovre di pilotaggio con inconsapevole meccanicità”. “Non può e non deve sbagliare: il pilota”. “Egli non vola per puro divertimento: egli è aria nell’aria, è perfezione nella perfezione”. Io dovevo far bene: volevo essere un pilota. Mi concentrai allora su ciò che avrei dovuto fare: il rullare ritmato delle manovre cominciò a vibrare nella mia mente. Lo strattone del cavo teso mi riportò alla realtà. Il vecchio K13 cominciò macilento la sua corsa, accennò ad abbassare la semiala sinistra verso terra ma io, che conoscevo il suo umore, lo pregai con decisione affinché livellasse l’ala. Poi lo scorrere sull’erba diventò lo scivolare vibrato nell’aria e … ero in volo! Fu allora che mi sentii scoppiare un urlo. Tutt’assieme esplose fuori la tensione, la preoccupazione di non riuscire, ed ora, ad ogni respiro, entrava solo contentezza. Ero solo in aria: pilotavo! Ero l’aliante e lui era me. C’era voluto molto tempo ma ora ci capivamo. Io rispettavo lui e lui rispettava me. Non gli chiedevo l’impossibile e lui non faceva ciò che non volessi anch’io. Ora sapevo come chiedergli ciò che volevo e lui lo faceva come io pensavo avrebbe fatto. Il traino aereo mi era stato sempre difficile: il generale mi tuonava manovre e contromanovre, eppure riuscivo a malapena a star dietro la coda dell’aereo. Io eseguivo … ma troppo in ritardo o in eccesso: lui tuonava ancora più forte correzioni e controcorrezioni; quando neanche quelle avevano effetto, sentivo pistare sui comandi: la cloche partiva di lato e la pedaliera schizzava a fine corsa. Il K13 eseguiva servile. Da subito il nuovo istruttore aveva capito il mio dramma: con parole pacate mi aveva spiegato e ora … ero appeso a quel filo invisibile che lega il pulcino alla chioccia. Ero la sua ombra. D’improvviso l’aliante sussultò: mi trovai a tirare la leva di sgancio e a guardare l’altimetro – settecento metri -. Anch’io sussultai: ero libero! Libero di volare senza vincoli … finalmente! Il cielo era davanti a me ed io potevo solcarlo all’infinito. Per la prima volta, dopo tanto tempo, riassaporai il gusto del volo: il suonare sordo del vento, i sobbalzi dell’aria, la terra vista dal cielo … Solo all’inizio – da passeggero – avevo gustato quel sapore dolce ma poi – da allievo pilota – era diventato tutto amaro. Quando scendevo dall’aliante – la testa perforata dai tuoni del generale, la schiena fradicia (e non per via del paracadute), i muscoli irrigiditi dalla tensione – sapevo di non aver volato: avevo cercato di domare un masso riottoso di tela, legno e acciaio. E non c’ero riuscito. Io ne ero cosciente, né il generale – con i suoi apprezzamenti – si tratteneva dal ricordarmelo. Ma ora, potevo dire davvero che tutta quella fatica aveva avuto un senso: il momento che stavo vivendo era inimmaginabile. Avevo fantastico su cosa sarebbero stati quegli istanti … ma non avrei potuto mai immaginare i mille sentimenti che provavo. Un sogno impossibile era diventato realtà possibile. Forse perché era stata una liberazione: da una vita sognavo di volare e quando ormai, quasi dubitavo di esserne capace, il generale s’era fatto scappare qualcosa. Poi però, il giorno fatidico del mio volo solista non s’era presentato in aeroporto – per la prima volta da che lo conoscevo – .”Motivi di salute” ci avevan detto in Aeroclub. E poi la notizia delle dimissioni, infine il nuovo istruttore. Già pensavo di buttare in un polverizzatore per rifiuti quelle dieci ore di tormenti a doppio comando, quand’ecco che il momento magico aveva avuto inizio. Un’altro sussulto violento mi scosse: l’aliante aveva sentito qualcosa e mi suggeriva di sfruttarne la spinta. – Non può essere turbolenza – pensai: ero a centro valle – E non può essere neanche una semplice bolla – conclusi: la mattinata era già piuttosto avanzata e quella doveva essere proprio una termica. Per un momento pensai di tentare l’aggancio, poi, toccando il cruscotto, confidai al K13: – Ora pretendi un po’ troppo da me!? -. Lui mi rispose comprensivo accennando una leggera picchiata. Bighellonare in aria non mi era familiare: in me scattò una molla e cominciai a manovrare come avessi avuto un programma di missione da svolgere. Non ricordavo che quello non era un volo addestrativo: a bordo non c’era più l’istruttore che mi avrebbe suggerito la successione delle manovre, eppure nella mia testa echeggiavano cadenzate le manovre da impostare. Virata a destra … virata a sinistra … planata con prua costante … mi veniva tutto naturale. Allora capii che nello stesso attimo in cui decidevo di virare … tutto me stesso virava, nello stesso attimo in cui decidevo di planare veloce … tutto me stesso planava. Se volevo mantenere una direzione, “io aliante” mettevo il muso in quella direzione: non era più una questione di bussola, piede e cloche. L’ala era il prolungamento delle mie braccia e la fusoliera del mio ventre. Non ero più il pilota di una macchina ma l’uno e l’altro contemporaneamente. L’ebbrezza del volo mi aveva preso fino al midollo e speravo che non finisse mai più: – Non ora … – dissi, – Non ora che sono “aria nell’aria” e “perfezione nella perfezione” -. Ma l’altimetro, impietoso segnava duecento metri. Già ero sotto la quota di ingresso in circuito e non potevo indugiare di più. Fortunatamente ero sul cielo campo – questione di inconsapevole meccanicità? Bah, a saperlo! -. Avviai alla svelta la procedura di atterraggio. A mie spese avevo imparato che il decollo e l’atterraggio erano fasi critiche, ma il rullare mentale dei parametri e la vista dei punti di riferimento mi dissero che stavo facendo bene. Al suolo, non c’era praticamente vento: chiesi alla torre se potevo atterrare per la pista uno-sette. – Affermativo: la pista in uso è la uno-sette. Calma di vento. Nessun traffico. – D’accordo … andiamo giù – mi dissi fiducioso. Il gracchiare improvviso della radio interruppe la nenia dei controlli pre-atterraggio: – Atterra per tre-cinque! – ordinò la voce ferma dell’istruttore. Con la coda dell’occhio guardai di nuovo la manica: una bava di vento in coda. – Accidenti! Non c’è motivo di atterrare per la tre-cinque! – urlai inviperito. L’altimetro girava crudele verso lo zero e già avevo percorso un quarto di sottovento. Ma l’ordine era stato perentorio: non lasciava spazio a repliche, né avrei avuto il tempo di farne. Diedi il ricevuto e sconsolato guardai il cruscotto: – Se riusciamo a toccare la pista siamo proprio bravi, eh!? – Gli operatori dell’assistenza al volo, testimoni benevoli, mi accordarono l’uso della pista e confermarono l’assenza di traffico. Il vento al suolo era sempre insignificante. Senza accorgemene diedi loro il ricevuto: ero troppo preso dall’invertire il circuito. Feci una doppia virata stretta: l’aliante era insolitamente rapido nella rimessa, quasi che anche lui avesse capito la gravità del momento e volesse dare il meglio di sé. Non avevo granché riferimenti: sì e no, nel corso di tutte le missioni avevo fatto cinque o sei atterraggi da quel lato e ora scontavo quell’unica leggerezza del generale. Ma dovevamo farcela: dovevamo andare giù! Sentii un brivido lungo la schiena e vidi tremare la mano sulla cloche. Che fosse paura? Forse. “Concentrazione!” echeggiò il generale. Non avevo più quota da spendere per fare il sottovento: dovevo lasciarmene un po’ per la virata in base e la virata finale. Decisi di tagliarlo a metà. – Ora! Virare! – Mi sentii centrifugare stretto come mai m’era capitato prima dall’ora. – Ecco la pista! Non eravamo affatto bassi: estrassi a tre quarti i diruttori. L’aliante tremò tutto … ed io con lui. Sotto la sferza dell’aria scendemmo decisi verso terra. Sapevo che l’asfalto era duro – sarà per il colore grigiastro o per la grattata del pneumatico quando lo tocca? – ma quel primo atterraggio fu particolarmente duro. In tutti i sensi. La pista continuava ad avvicinarsi e a scorrere: ero troppo picchiato, dovevo raccordare. Lo strattone finale ci fece sprofondare ancora di più. Rimanemmo immobili per un istante lunghissimo: scendemmo inesorabili verso terra, sicuri che il contatto sarebbe stato violento. Il tonfo arrivò fortissimo e ci rimbombò nelle ossa … ma non subimmo danni: il K13 mi aveva già perdonato. Rullammo verso l’area di parcheggio e rimasi in cabina con la cappottina chiusa, nonostante il caldo torrido. Ma io non lo sentivo tale il gelo che provavo. – Ce l’abbiamo fatta! – urlammo all’unisono. Avevamo fatto tutto quello che potevamo fare e l’avevamo fatto bene – a parte l’atterraggio, forse -. Ero di nuovo a terra, eppure il cielo non era più lo stesso cielo: ero entrato in un quel nuovo mondo e quello terrestre non mi era più congeniale. – Ti senti bene? – urlarono i miei compagni, paonazzi per la paura. – Sì, sì, tutto bene – risposi loro, aprendo la cappottina. Mi riempirono di complimenti sinceri. La loro opinione era prevedibilmente benigna ma lo sarebbe stata quella dell’istruttore? Così mi avvicinai a lui, seduto accanto alla biga, che compilava un rapporto di volo. Volevo scusarmi … per l’atterraggio duro, per la procedura affrettata. Appena mi vide si alzò, guardò l’aliante riallineato pronto al volo e con distacco sentenziò: – Quello che hai fatto oggi ti servirà per i voli futuri – , poi si allontanò con impassibile noncuranza, seguito da un allievo. Le sue parole mi trapassarono veloci come il raggio di uno smaterializzatore: per un attimo sentii fluttuare nello spazio tutte le mie molecole … e poi riunirsi. Mentre i miei compagni davano inizio ai festeggiamenti, il primo pensiero corse ai miei genitori. Fuori della sezione ologrammi aeronautici, c’era un videotelefono: non potevo tenere solo per me la notizia. E poi ero certo che ne sarebbero stati felici. Certo avrebbero preferito sapere che avevo ottenuto qualche buon risultato negli studi – non ero brillante, dovevo ammetterlo – ma era pur vero che non era da tutti avere un figlio dodicenne, nato e cresciuto in una stazione spaziale da esplorazione, che sapesse pilotare un aliante!? Certo, all’inizio avevano mostrato un po’ di contrarietà – eccome – quando avevo detto loro che mi sarei iscritto al corso di volo a vela: – Non potevi scegliere uno sport un po’ più moderno? – avevano obiettato. – No – , avevo risposto deciso, – Il volo in aliante è modernissimo perché “è stato” ed “è tuttora” la base del volo terrestre.- Poi avevo aggiunto: – Tra dieci cicli saremo nel Sistema Solare e calcolando la quarantena, saremo sulla Terra tra quindici cicli al massimo. Se comincio subito il corso di pilotaggio, potrei fare il volo solista su un “aliante vero” e in un “cielo vero”! Ero riuscito addirittura ad anticipare le previsioni: che volevano di più?! Pronunciando il codice di accesso telefonico guardai attraverso l’oblò accanto al videotelefono: il cielo della Terra là sotto mi aspettava azzurro e sconfinato. Ed io ero pronto per solcarlo.

Rullai fino all’area di parcheggio. Mi preparai a scendere ma il ronzare del traduttore fonetico, dietro di me, preannunciò la voce sintetizzata del mio istruttore: – Ora vai da solo. – Rimasi pietrificato, ancora una volta. Poi, fissandomi con i suoi enormi occhi gialli, affossati tra le squame della testa, aggiunse: – Ricordati che qui siamo sulla Terra: questo non è un simulatore!? – – Giusto! – ripetei, per convincerlo di aver capito, – Questa non è la stanza ologrammi della navetta spaziale: è la Terra … e questo non è un simulatore di volo: è un “aliante vero” in un “cielo vero”! – Okay – rispose. E si allontanò con uno strano ghigno in viso: probabilmente un sorriso di approvazione … se solo avesse avuto una bocca umana per mostrarlo.   – Cinture? … strette! – Altimetro? … azzerato! – Radio? … accesa e in frequenza. – Comandi? … destra, sinistra, avanti, dietro: liberi e a fondo corsa! – Diruttori? … controllati e bloccati! La cappottina si chiuse e mi ritrovai di nuovo solo con il K13. Inspirai a pieni polmoni il “vero” odore di metallo e di tela verniciata. – Una persona a bordo – precisai alla torre. Ero davvero pronto.

A Daniele e a quel pilota che, probabilmente, non sarò mai.


#proprietà letteraria riservata#


Big Mark

Piloti!

“Contatto visivo … nemico ad ore due … stringere la formazione!”

I ricognitori a lungo raggio avevano intercettato il nemico e lo stormo al completo era decollato in pochi minuti. Ormai eravamo in preallarme da così tante ore che decollare, anche se fosse stato per l’ultima volta, fu per noi una vera liberazione.

Al briefing, il generale ci aveva comunicato che, probabilmente il nemico avrebbe tentato un’incursione verso mezzogiorno. – Meglio così – esclamò – Il sole sarà alto e lo sfrutterete a vostro favore -. Certo – pensai – attaccare con il sole alle spalle ci avrebbe dato un notevole vantaggio. – Volate alla massima velocità di manovra e attaccate in formazione compatta. La strategia del Comando non era dunque cambiata. – Non possiamo competere con loro in velocità – aggiunse il generale – perciò, una volta intercettati, impegnate il nemico con una manovra frontale e decisa.

Chiaro – mi dissi – la velocità relativa sarebbe stata tale che avremmo avuto appena il tempo di puntare e colpire.

– Anche il nemico ha dei punti deboli: colpiteli senza pietà. Ricordai allora le parole del mio istruttore: “Piccoli fori lungo la fusoliera, una lunga antenna alla sommità della deriva e una grossa sonda nel muso: questi sono i punti nevralgici. E’ difficile centrarli, lo so’, ma voi non siete piloti qualunque. Voi siete piloti da combattimento! … e quanto è vero che vi ha addestrato il sottoscritto, voi li centrerete in pieno! Non è vero?!”

Bei tempi quelli dell’addestramento. Passavamo le tiepide giornate di primavera facendo voli in formazione con l’istruttore. Imparavamo le tecniche di combattimento passando sopra ai campi puntinati dai primi fiori. Affinavamo le nostre capacità di pilotaggio solcando un cielo che aveva l’odore della terra rinata. Avevamo tutti il volo nel sangue ma non la disciplina dei soldati né l’aggressività dei combattenti. Per questo ci preparavamo alla battaglia, così come avevano già fatto i nostri padri e i nostri nonni prima di noi. Era una lotta eterna la nostra. Da generazioni ci battevamo contro un nemico potente e velocissimo. Nessuno ricordava quando fosse cominciata: eravamo in guerra da sempre. Era un nemico sfuggente il nostro. Si mostrava appena d’inverno, accennava qualche incursione in primavera e ci attaccava in massa in estate. Avevamo tentato di metterci in contatto con loro, per negoziare, per creare un accordo di pace. Ma niente, Sfrecciavano luccicanti ed invadevano prepotenti i nostri cieli.

Alla fine del briefing il generale ci salutò con calore: – Che il cielo sia con voi, piloti -.

Le sue parole echeggiarono per qualche secondo, poi si spensero quando, messi in libertà, corremmo indaffarati per gli ultimi preparativi prima della missione.

Solo ora, di fronte all’immensità del nemico davanti a me, capivo che quello era stato un addio. La nostra missione non avrebbe avuto ritorno. Solo il sacrificio della nostra stessa vita avrebbe potuto arrestare quel nemico. Non avevamo arma che potesse distruggerlo … tranne il nostro coraggio e l’amore per il nostro paese. Ora capivo perché interi reparti erano stati annientati: bravi piloti, cari amici, fratelli di sangue si erano sacrificati per la nostra sopravvivenza.

“Il comandante a tutti i piloti: che il cielo sia con voi … ragazzi …”

E il nemico mi travolse con mostruosa indifferenza. Vidi il bianco luccicante frantumare il mio corpo e la mia linfa uscirne .

– Allora?! Hai finito?

– No, non ancora … andate pure … vi raggiungo più tardi.

– Ma perché, scusa … se l’aliante lo lavi domani?!

– No, preferisco di no. Vorrei pulirlo subito … altrimenti domani, una volta secchi …

– E’ lo so … sarebbe doppio lavoro, hai ragione. Certo che hai fatto una bella strage, eh?!

– Proprio. Sembrava quasi che mi aspettassero. Pensa che c’è stato un momento che me ne son trovato davanti una nuvola … ho provato ad evitarli ma …

– E va beh, mica ne farai una questione umanitaria!? … in fin dei conti erano solo MOSCERINI.



Dipende sempre dai punti di vista!?






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Big Mark

Il pilota beone



Il Caposervizio si guardò attorno con fare circospetto con la speranza che nessuno dei suoi collaboratori mi avesse udito, poi replicò: – Comandante, lo sa cosa mi sta chiedendo? –

– Ehmm … sì lo so – risposi io con convinzione – le sto chiedendo un piccolo favore.

– Piccolo favore? – rispose contrito.

In effetti, quello che stavo chiedendo al Caposervizio dell’Ufficio personale non era affatto un piccolo favore. Sì, i turni di servizio venivano abitualmente concordati tra l’Azienda e gli equipaggi, piloti o assistenti di volo che fossero, ma credo che mai, nel corso della trentennale carriera del Caposervizio, un Comandante avesse accampato una richiesta come la mia.

– Ma sì – insistetti, – in fin dei conti le chiedo solo di dare una botta lì e un’aggiustata là … tanto per far quadrare il cerchio. –

Lui mi guardò con distacco poi, con enfasi, concluse: – Ascolti Comandante, certe cose non sono autorizzato a farle … neanche se mi offrisse i biglietti per la finale di Coppa dei Campioni. –

Ecca ‘lla, dissi fra me e me. Finalmente ci siamo arrivati! L’allusione non lasciava adito a dubbi. Tirai un sospiro di sollievo: almeno ora sapevo quale sarebbe stato il prezzo da pagare. Tutto nella vita ha un prezzo … il difficile è conoscerlo per poi sapere se si è in grado di pagarlo o meno.

– Finale di Champions League?! – chiesi rassegnato. Il Caposervizio fece cenno col capo non prima di essersi dimostrato costernato. Aprii la mia valigetta e tirai fuori due biglietti immacolati: -Tribuna Monte Mario, posti numerati, sotto alle autorità … pensa che sarebbero sufficienti? –

Non feci in tempo a sventolarli che i preziosi biglietti erano già finiti nel cassetto del Caposervizio. Immaginai che mi sarebbero costati un patrimonio in gelati e figurine – in certi casi mio figlio sa essere crudele?! – ma, pensai, che erano volati via per una buona causa. Rimasi imbambolato per un istante. Anche a me piaceva andare allo stadio, non lo nego, e vidi svanire in un istante i colori e i suoni di quella serata che sarebbe stata memorabile: l’Olimpico stracolmo di gente in ogni ordine di posti, una festa sugli spalti e sul campo e …

– Tutto fatto, Comandante. – mi disse trionfante il Capo – C’era un errore nel tabulato … questi computer fanno dei casini immondi! Fortuna che lei se n’è accorto … e l’ho corretto a penna. – aggiunse per giustificare il raggiro. Infine sentenziò: – L’equipaggio è formato. –

E fu così che ci ritrovammo, due settimane più tardi, al caro prezzo di due biglietti della finale di Coppa dei Campioni, sul piazzale di Fiumicino, alla base della scaletta del A300.

Ci salutammo cordialmente io, l’assistente di volo Centani e la sua collega Ambrogini, la hostess in addestramento Filippi, il capo equipaggio Turchetti e, naturalmente il Comandante Johannson.

Nei suoi confronti, agli abituali saluti si aggiunsero delle affezionate pacche sulle spalle di noi maschietti e degli innocenti baci delle ragazze. Sulle guance, beninteso. Perché, tutti lo sapevamo, quello non sarebbe stato un volo qualsiasi, non per il comandante Johannson.

Wolfgang, così si chiamava il Comandante, era al suo ultimo volo poi, dopo un breve periodo di servizio a terra, sarebbe andato in pensione e avrebbe lasciato la Compagnia per sempre.

Era una vita che volava: aveva cominciato ragazzino appena dopo la guerra, come pilota militare nella rinata Luftwaffe e poi aveva proseguito, di società in società e di Compagnia in Compagnia a volare su un’infinità d’aeroplani in tutti gli aeroporti del mondo. I suoi occhi brillanti e il fisico asciutto, anzi atletico, ingannavano i suoi cinquantanove anni, ma non l’anagrafe della Compagnia che, anche per i migliori Comandanti, obbligava la messa in riposo a non più di sessant’anni. Wolfgang l’avrebbe compiuti fra una settimana e quella che doveva essere una semplice festa di compleanno s’era tramutata un addio alla carriera. Ma il Comandante Johannson non se ne faceva un cruccio. Contrariamente a quanto accadeva ai suoi colleghi non era per nulla rattristato. O almeno non lo dava a vedere. Forse perché era di papà tedesco (ma di mamma italiana), e buon sangue non mente, forse perché aveva sempre praticato il suo lavoro con passione unita ad una naturale giovialità che lo rendeva davvero unico nell’ambiente.

Diciamo la verità: il comandante Johannson era un vero scavezzacollo, un giocherellone matricolato che non perdeva occasione di organizzare scherzi ai suoi compagni di lavoro e, talvolta, anche ai passeggeri. Pur rimanendo nell’ambito della decenza, riusciva a mettere di buon umore tutti, compresi i passeggeri che immancabilmente salivano a bordo con una paura fottuta dipinta sul volto. Beh, lui riusciva a divertirli e a rilassarli. I suoi annunci non mancavano mai della barzelletta di rito e volare con lui era davvero un piacere, oltre che un lavoro. Per questo tutti i colleghi facevano a gara per formare l’equipaggio con lui … magari non proprio pagare due biglietti della finale di Coppa di Campioni.

In realtà, Wolf, come lo chiamavano tutti, era un professionista attento e scrupoloso, un gran manico per intenderci, tollerante con i suoi uomini – soprattutto se donne – e comprensivo con il personale della manutenzione o dell’assistenza a terra. Non avevo mai sentito un’hostess parlar male di lui – nonostante fosse manifesta la sua debolezza per il gentil sesso – Forse perché non s’era mia permesso di fare loro delle avance in pubblico o sul lavoro. Forse perché sapeva, col suo fascino dell’uomo nordico – alto, biondo, occhi azzurri e fare disinvolto – di planare sul morbido. Forse perché non era sposato né aveva legami affettivi stabili. In definitiva tutti lo consideravamo un bravo diavolo, generoso e garbato, per quanto deciso e ironico.

Aveva però un unico vizio: il bere! Non che fosse un alcolizzato, per intenderci. Le rigorose visite mediche cui i piloti commerciali vengono sottoposti ogni sei mesi lo avrebbero condannato immediatamente, no, diciamo che la mancanza di una vita familiare e la carenza di un vero affetto lo inducevano talvolta a rifugiarsi in una bottiglia di buon vino. Veramente più di una e questa sua debolezza si riscontrava a tavola, quando non rinunciava mai a un buon bicchiere, forse due, o a un buon aperitivo a fine volo, al bar dell’aerostazione. Qualcuno aveva cominciato a dubitare che la sua insistenza nell’andare a prendere qualcosa prima del volo non fosse una sua forma di cordialità ma … una necessità. Di fatto, in tutte le centinaia di tratte che avevamo fatto assieme (io come secondo) non l’avevo mai visto bere niente di più alcolico di una coca-cola, e pure degassata.

Ma si sa: certe malelingue, purtroppo, si fanno strada facilmente in un ambiente in cui il pettegolezzo non è certo privo d’argomenti, nel caso di Wolf fu davvero devastante: nell’arco di qualche mese dal suo arrivo in Compagnia tutti i dipendenti, dai dirigenti ai meccanici di linea erano a conoscenza della piccola debolezza del Comandante. Tanto che era stato soprannominato “Whisky”.

Ovviamente lui ne era venuto a conoscenza, perché è risaputo che gli aeroporti hanno occhi, orecchi e soprattutto lingua, solo che lui, per nulla turbato della cosa s’era preso gioco della turpe insinuazione e, allora un giorno, ci aveva chiamati a raccolta, prima d’imbarcarci, dandoci convegno sotto il musone dell’A300.

– Camerata – esordì nel suo italiano volutamente intedescato – A partire da oggi, ja, vige nova d-i-s-p-o-s-i-z-i-o-n-e per mio equipagio, ja! –

Ci guardammo esterrefatti l’un l’altro, io e le assistenti di volo, fantasticando che il comandante fosse effettivamente brillo. Ma erano appena le nove del mattino! Una di loro, perfidamente, ammiccò portandosi un finto bicchiere alle labbra.

Wolf fece finta di non vederla ma poi con brutalità le chiese: – Tu dire me, prego, quale essere tuo nome? Frau …? –

L’hostess si nascose nella sua divisa, diventando più paonazza del tessuto amaranto scuro che aveva indosso. Poi, facendosi coraggio disse: – Ambrogini – e aggiunse con un filo di voce: – … assistente di volo Lorenza Ambrogini. –

Il Comandante mise allora la mano in tasca e per un attimo temetti qualche atto sconsiderato … invece tirò fuori un innocuo gessetto bianco. Poi si girò verso l’enorme ruota del carrello anteriore e fece una tacca radiale sul copertone. Noi non credevamo ai nostri occhi. Quindi scrisse il nome “Ambrogini” accanto alla tacca.

– Pene – riprese austero il Comandante, poi rivolgendosi a me disse: – Ora tu dire me tuo nome, prego.-

Decisi di stare al gioco e risposi: – Secondo pilota Filippo Rossini, her command!

– Rossini? – chiese incuriosito

– Affermativo, her command – risposi perentorio. Mi sembrava di vivere il personaggio di “Ufficiale e Gentiluomo”. Mancava solo che il sergente di colore, quello sempre arrabbiato, mi chiedesse da quale città provenissi e facesse la battuta che da quella città provengono solo tori e … invece il Comandante mi chiese di nuovo: – Rossini? … come aperitivo? Io conosco ja, molto puono, ja! –

I sorrisi cominciarono a serpeggiare sui nostri volti.

Lui, invece, si girò di nuovo e ripeté l’operazione della tacca e del nome. A farla breve, ci ritrovammo tutti nostri nomi sulla gomma nera del pneumatico, diviso abilmente come una torta da tante tacche ben distanziate. Ma ancora non capivamo dove il Comandante avesse intenzione di andare a parare. Ci tolse finalmente dall’angoscia.

– Io ora spiegare voi, ja! … quando aeroplano atterra su aeroporto io scenda e controllo p-o-s-i-z-i-o-n-e ja, di tacca con riferimento gamba carrelo. Voi capito, ja? –

Facemmo un segno d’assenso … ma ancora non c’era chiaro nulla.

– Molto semplice, ja: chi indica tacca paca da bere a tutti equipagio! –

Scoppiamo in una risata liberatoria e lo mandammo amabilmente a quel paese. Wolf ce ne aveva fatta un’altra delle sue!

La prima a dover pagare l’aperitivo all’equipaggio, quella sera, fu proprio l’hostess Ambrogini.

******

Erano trascorsi più di undici anni da quel fatidico giorno, eppure, mai una volta, eravamo venuti meno a quel pittoresco rituale. All’inizio della tratta, il Comandante Wolf, munito di gessetto, segnava sul pneumatico il nome dei suoi uomini e donne per poi esigere, al termine della serie di tratte, il pagamento della buffa scommessa contro il caso. Praticamente faceva parte delle procedure pre-decollo.

Ovviamente questa strana pratica non era sfuggita al resto della Compagnia confermando l’aureola di pazzo scatenato del Comandante Johannson.

E così fece anche quella mattina. Quello che non poteva immaginare Wolf fu che ci ritrovammo esattamente con lo stesso equipaggio di undici anni prima. Un caso? No, due biglietti per la finale di Coppa dei Campioni, sic!

Quel giorno facemmo tre tratte Roma- Lisbona, Lisbona-Londra e Londra-Milano con rientro tecnico a Roma. Confesso che quando venne il momento di salutarci, una volta sbarcati i passeggeri e ultimate le procedure post volo, avevamo tutti gli occhi torbidi. Per l’ultima volta Wolf scese la scaletta e, secondo un rituale consumato, si avvicinò al pneumatico del carrello anteriore.

Solo che le tacche erano sparite e, insieme ai nostri nomi, c’era scritto: “Addio Wolf!”

Ci schierammo ordinatamente in silenzio, a mo’ di picchetto d’onore. Lui si girò all’improvviso e con gli occhi torbidi sbottò: – E mo’ chi paga da bere? –






NOTE: Un sincero ringraziamento ad Enrico Rossini per avermi accennato di questo Comandante, quello che tutti vorremmo nella cabina di pilotaggio




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§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§




Big Mark

Prova d’esame e di fuori campo

uccello occhi di fuoriGli alianti sono aeromobili non dotati di organo motopropulsore: quando le condizioni meteo scadono o le scelte del pilota si rivelano sbagliate, hanno una sola possibilità: atterrare. E se l’atterraggio avviene al di fuori di un aeroporto si chiama: “fuori campo”.

Lo sanno bene i piloti di volo a vela … e, alla fine del racconto, l’avrà capito anche India Johnson, studentessa universitaria americana, con l’unica colpa di essere la fidanzata di un pilota di alianti. Ma ancora per poco, stando alla sua lettera …

Originale nel modulo narrativo, spassoso e scorrevole nella lettura nonostante sia scritto in un italo-americano maccheronico. Quello della protagonista, appunto.

L’autore, sottoposto ad un serrato interrogatorio (con tanto di lampada negli occhi), ha confessato che il racconto riporta in modo poco fantasioso un episodio realmente accaduto che ha avuto lui medesimo come testimone, suo malgrado.

Il “fuori campo” è un eventualità che accompagna sempre il volo di un aliante ma, lo ammettiamo, quello narrato da Big Mark è più un incubo piuttosto che un recupero “fuori campo”.

Non sappiamo se Paolo e India siano ancora fidanzati (o addirittura siano convolati a nozze), se così fosse, beh … il loro deve essere davvero un grande amore. Diversamente … India gode di tutta la nostra comprensione!


Narrativa / Medio-lungo Pubblicato: inedito Note: inserito nella raccolta di racconti inedita “Voci di hangar”