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Tornado

Alla fine del 1981, finalmente mi laureai in Ingegneria Meccanica, chiudendo un lungo e pesante periodo della mia vita.

Lo studio, prettamente teorico e matematico, non si addiceva al mio carattere e fui ben contento di lasciarmi dietro le spalle il periodo universitario.

A quel tempo già lavoravo in una società della mia città ma volevo perseguire il mio obiettivo che era quello di poter lavorare in un’industria aeronautica, feci quindi tutta una serie di domande d’assunzione, indirizzate esclusivamente ad aziende del settore.

La prima a convocarmi fu la SIAI-Marchetti che, a quel tempo, cercava ingegneri da inviare in Libia come istruttori di terra, degli allievi piloti libici, che si addestravano sui SIAI 260. Quella fu la prima volta che ebbi modo di varcare l’ingresso della storica ditta, lo avrei fatto altre due volte, una da ingegnere dell’Aeritalia, l’ultima per un nuovo colloquio di assunzione.

Tutto era datato, dai capannoni ai pavimenti, ai quadri sulle pareti. Si respirava un antico sapore di cose aeronautiche ormai andate ma che avevano a lungo soggiornato in quegli spazi.

La seconda ditta a chiamarmi fu l’Aeritalia, oggi Alenia Aeronautica, e prima ancora, Fiat Aviazione, da cui erano usciti aerei famosi, quasi tutti firmati dall’ing. Gabrielli, come il G55, il G91 e il G222, solo per citarne alcuni; fu anche il mio primo contatto con Torino.

Al colloquio mi arrabbiai subito giacché non ero stato avvisato che la selezione sarebbe durata 3 giorni e non mi ero organizzato, né economicamente, né logisticamente per un soggiorno di tale durata, non avevo infatti portato con me alcun indumento di ricambio. Visto il mio sconcerto, l’organizzatore della selezione mi disse che avrebbe fatto in modo che il mio iter selettivo durasse solo 2 giorni, ravvicinando gli incontri previsti.

La sera trovai una stanza in un albergo nei pressi della stazione di Porta Nuova e ricordo che rimasi stupito dal gran via vai di gente, anche abbastanza chiassosa, durante la notte; in seguito mi fu detto che quell’albergo era molto frequentato dalle prostitute e relativi clienti; mi colpì, fra l’altro, che la padrona, dopo avermi accompagnato a vedere la stanza, mi salutò accompagnando il saluto da un colpetto alla mia spalla, saluto che mi apparve alquanto insolito e cordiale.

A sostenere la selezione eravamo in sette; ci avevano riunito in una sala con un bel tavolo ovale in legno molto grande che riempiva quasi tutta la sala; alle pareti foto storiche di velivoli dell’epoca gloriosa della Fiat aviazione. Eravamo tutti giovani ingegneri neo laureati, io ero quello che veniva da più lontano, gli altri avevano con loro copia della tesi di laurea, io non l’avevo. Ci chiamarono uno per volta, quando fu il mio turno, entrai come avevano già fatto coloro che mi avevano preceduto, in una stanza abbastanza piccola, in cui sedevano, attorno ad un tavolo, tre ingegneri della Ditta che formavano la commissione esaminatrice dal punto di vista tecnico-professionale. Mi domandarono se avessi portato la tesi, risposi che nessuno mi aveva avvisato di farlo, rimasero alquanto stupiti ma non ritennero la cosa così importante e mi chiesero l’argomento della mia tesi, argomento di carattere prettamente aeronautico, giacché avevo discusso una tesi di laurea su un progetto di un turbofan a calettamento variabile. Mi interrogarono su questo argomento, e rimasi piacevolmente stupito nel constatare la loro competenza, e devo confessare che questo colloquio-interrogazione fu decisamente più difficile, ma anche di maggior soddisfazione, della discussione della tesi di laurea stessa.

Alla fine del colloquio furono soddisfatti e nel pomeriggio fui avvisato che avrei incontrato quello che poi sarebbe diventato il mio capo. Lo incontrai nella stessa saletta della mattina, eravamo solo noi due . Il colloquio fu abbastanza generico e cordiale, teso ad evidenziare per quale settore ero effettivamente più portato, anche se, già dalla mattina, era evidente la mia propensione per un incarico in produzione.

Il mio interlocutore era il Responsabile degli stabilimenti di Caselle, e mi illustrò le varie attività svolte in quelle sedi, quella che più mi attrasse, e per la quale espressi la mia preferenza, era avere un posto al campo volo, ma mi disse che era impossibile per un giovane ingegnere, inesperto, entrare in quella sede giudicata difficile, perché lì, mi disse con testuali parole: “Sono tutti baffoni”, espressione colorita, che poi seppi significare, che chi lavorava al campo volo era tutta gente molto esperta.

Durante il colloquio questo anziano ingegnere, mi chiese in vari momenti, se una volta assunto, anche i miei sarebbero saliti a Torino. La cosa mi seccò enormemente, giacché capii di essere anche considerato il “terun” che cerca lavoro al Nord, quando invece io già lavoravo da prima di laurearmi, guadagnando significativamente più di quanto loro mi stessero offrendo e dentro di me decisi che lo avrei mandato a quel paese se me lo avesse chiesto un’altra volta, rinunciando così al posto di lavoro.

Fortunatamente non avvenne. Il colloquio continuò poi nella sua auto, poiché mi portò negli stabilimenti di Caselle Nord, che sarebbero stati la mia sede finale di lavoro. I capannoni erano vuoti perché eravamo oltre l’orario di lavoro, mi porto al “flusso”, l’hangar familiarmente così chiamato perché vi si svolgevano i tests di flusso dei serbatoi del Tornado. Quando aprì la porta dell’hangar tutti i miei sogni sembrarono avverarsi, tutti gli anni di studio faticoso trovavano infine una giusta ricompensa: di fronte a me troneggiava, in tutta la sua maestosità e potenza, un Tornado, penso che mi comparve un sorriso di ammirazione e soddisfazione che andava da un orecchio all’altro.

Dopo un po’ ci salutammo, anche perché era imminente il mio volo di ritorno a casa, dicendomi che avrebbe dato parere positivo per la mia assunzione. Assunzione che avvenne il 3 Marzo 1982.

Alla gioia per il successo avuto, si sommava il dispiacere per allontanarmi dalla mia città, dai miei genitori e, in poche parole, da tutto quanto fino ad allora era una sicurezza e una certezza. Ed era la prima volta che mi succedeva di staccarmi da queste cose, infatti quando partii per Torino, non sapevo dove avrei dormito la sera. I miei anni torinesi furono anni difficili ma di crescita, sia dal punto di vista umano che professionale. Me ne andai dopo circa tre anni perché, purtroppo, è difficile conciliare lavoro e passione ma, soprattutto, lo stipendio era realmente insoddisfacente.

Quattro anni dopo essermene andato, ebbi modo d’incontrare, durante il Salone Aeronautico de Le Bourget, a Parigi, il sig. Morbelli, capo-reparto del campo volo, il massimo dei famosi “baffoni”, e persona da me ammirata e stimata. Egli mi confidò: “Sapessi con quale insistenza abbiamo chiesto che tu fossi trasferito al Campo Volo … ma non ce lo hanno mai approvato”. Non si rese conto di avermi fatto un grande complimento, anche se masticai amaro.


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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Marco Longo

A te

Parlami di te dicevi … ed io ti parlavo dei miei risvegli sempre uguali, delle mie abitudini suddivise in ore. La tazza fumante del caffè al mattino gustato a poco a poco, mentre socchiudendo gli occhi catturavo tra le ciglia i colori dell’arcobaleno attraverso la scia del primo sole che penetrava i vetri come spada infuocata. Del malumore mentre il giorno andava, della stanchezza quasi disumana quando sforzavo il mio corpo a compiere lavori che mi affaticavano, lavori capaci di piegarmi, per punirmi quasi e non pensare a nulla.

Non ho mai capito se il tuo passaggio nella mia vita, è stato come quel sole di primo mattino o neve d’inverno che scioglievo di tanto in tanto fra le mie labbra nelle stagioni avvenire. Ho imparato a non perdere nemmeno un istante dei giorni sbiaditi, della routine, il solo pensiero che esistevi da qualche parte in questa nostra penisola mi dava la forza e la voglia di combattere, sebbene, mai ti ho potuto guardare negli occhi davvero.

Ti ho conosciuto lungo la via di parole sovrapposte che hanno riempito intere pagine di un indirizzo e-mail. Mi hai insegnato ad amare il prossimo più di quanto io già l’amassi, per le tue missioni di pace nel continente più povero di questo nostro globo terrestre, parlandomi di bimbi smunti e occhi sgranati per un tozzo di pane mancato e, di quella fame d’acqua mai conosciuta sulla mia pelle. Quante volte ho pensato di lasciare l’inutile involucro dove mi sono racchiusa e seguirti. Seguire i tuoi voli pindarici, le alte quote, quando con il tuo velivolo varcavi il confine che ti avrebbe portato lontano dalle nostre comunicazioni. Quante volte avrei abbandonato questa mia scialba vita per un solo giorno valoroso come il tuo, servito a qualcosa e a qualcuno.

Raccontami di te dicevi sempre … ed io ti inventavo aneddoti già trascritti perché non avevo niente da raccontare, se non dei miei momenti grigi, dei miei cammini dentro cunicoli bui come fossi una talpa cieca con gli occhi imbottiti di terra. Non vedevo nulla davanti e do ancora adesso per scontato che niente di positivo accadrà a questa mia vita, niente capace di scuotermi la terra di dosso. Fermando le tue parole, hai fermato il ritmo biologico del mio essere, mi stringo nelle mie stesse braccia per non sentirmi sola e, cerco nel mio cuore uno spiraglio d’amore per le cose del mondo. Se adesso tu sapessi di questa lettera, saresti adirato per il mio pessimismo, mi colpevolerizzeresti facendo divenire peccato queste parole, dibatteresti dicendomi che non conosco le ragioni vere di quanto un uomo possa scendere in basso prima di rialzarsi, mi colpevolerizzeresti per averti detto mille volte scrivimi ancora pur sapendo che il tuo tempo non può fermarsi davanti ad un uomo soltanto. “Egoista” diresti, ed io ti darei ragione nel giudicarmi così. Parlami di te dicevi sempre… ed ora non so che dirti, se non scriverti questa lettera pur sapendo che sei lontano dalla tua isola assopita in mezzo al mare. Ed io, oggi qui, persa nei miei pensieri ho raggiunto la nostra luna, la luna che ci ha permesso di vivere i nostri sogni.

Abbiamo camminato sul suo suolo polveroso e argenteo leggeri e sospesi come nuvole. Eravamo luce, eravamo aria, mentre il mondo girava ancora mostrando i suoi lati spigolosi e facce strategiche nonostante sia rotondo. Sono qui su questa luna, dove il sole non arriva come spada infuocata attraverso i vetri. Sdraiata, con gli occhi verso l’alto, tendo l’orecchio a questo silenzio che mi opprime e, aspetto …

Aspetto il tuo velivolo che faccia ritorno verso casa.


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Maria Morabito

La tartaruga

C’era una volta una tartaruga che voleva volare. Le altre le ripetevano che non era possibile. Ma lei testarda insisteva e non convinta si recò dal gufo che aveva fama di essere il più saggio degli animali. Giunta da lui gli espose il suo desiderio. – La volpe furba mi chiamata pazza. Il forte leone mi ha deriso. Il tenero agnello ancora si rammarica della mia stoltezza. Ma dimmi tu vecchio saggio è  davvero il mio desiderio irrealizzabile? – Sorella mia -, le rispose, – in vero nella mia lunga vita ho udito cose strane e inusitate. Ma mai ho sentito di una tartaruga che potesse volare. Orbene, sappi che la mia ignoranza di fatti simili non significa per te un divieto. Tu vieni ad abbeverarti alla fonte della mia saggezza, ma io posso offrire un magro ristoro alla tua sete. In sincerità l’unica cosa certa che posso dirti è  che non so nulla in proposito. Inutili fandonie sarebbero i miei consigli. Ora va,insegui il tuo sogno. Se non perderai la testa troverai la tua strada. – La tartaruga si mise in cammino per il mondo alla ricerca di qualcuno o di qualcosa che potesse esaudire il suo desiderio. Oppure cercava la certezza di non poter volare. Giunta in una terra lontana le sembrò di aver trovato tale certezza. Un grosso avvoltoio aveva finito da poco di consumare il uso macabro pasto. La tartaruga gli si avvicinò e gli chiese: – Signore dei cieli, cerco una risposta, quale è  il segreto della tua maestosa arte ? Come ti è  possibile librarti nei cieli ?  E’ un dono di natura o si può acquisire ? Se ti annoia darmi una risposta dimmi solo se posso volare. – Tu sei cieca, rispose duro l’ uccello, – perché  non vuoi vedere. Recati  presso uno specchio d’acqua e li vedrai perché  ti precluso il volo. Non ci sono risposte da dare. Guarda il tuo corpo pesante. Guarda i tuoi arti privi di piume: solo se apri gli occhi puoi vedere quanto cerchi. – La tartaruga si mise in cerca di un corso d’acqua. Non cercava però uno specchio. Voleva uccidersi. Poi si ricordò delle parole del saggio gufo. Seguì il suo cuore e decise di non morire. La tartaruga camminò a lungo per valli e monti. Dalle steppe brulle alle umide savane. Girovagando per il mondo incontrò una volpe bianca. Narrati alla volpe i suoi desideri catturò la sua attenzione. Il furbo animale le disse di poterla aiutare. Conosceva delle pietre che posseggono la stessa forza misteriosa delle ali dei volatili. Tenendole in bocca la tartaruga avrebbe potuto volare. Non doveva che lanciarsi da una collina nelle vicinanze. Da principio la tartaruga fu entusiasta. Il cuore le batteva forte ed era decisa a realizzare il suo sogno. Poi salendo sulla collina notò alcuni animali che si raccoglievano a valle esattamente sotto il punto da cui lei avrebbe dovuto prendere il volo. La assalì un dubbio, immediatamente fugato dall’ entusiasmo. Quando però fu sul punto di spiccare il volo si ricordò delle parole del gufo. Allora usò la testa e decise di non  buttarsi. Scesa dall’altro lato scoprì che la volpe l’aveva ingannata e aveva venduto la sua carcassa. Ripreso il viaggio la tartaruga giunse ai piedi di un monte. Il cuore le diceva che il momento della verità era vicino. La testa decise di salire verso gli strani bagliori che si trovavano in cima al monte. La scalata fu dura e richiese molto tempo. Sulla sommità, la tartaruga era ormai stremata e vide la causa dei bagliori visti prima. Un angelo sedeva in cima al monte sorridendo. Prima che l’animale proferisse parola, la lucente figura alata lo prese per mano. La tartaruga volò insieme all’angelo. Vide i monti e le valli che aveva percorso nel suo viaggio, e mille altri ancora di cui non aveva mai neanche udito parlare. Vide coste dalla forma inusitata, corsi d’acqua larghi come laghi e laghi ampi come mari, vide uccelli che non sapevano volare e  gatti maculati veloci come il vento, vide cavalli striati e uccelli colorati, vide pesci enormi e topi volanti, alberi eterni e fiori carnivori. Soprattutto vide bestie folli ed incoscienti distruggersi a vicenda o lasciarsi marcire nell’ animo come cadaveri ancora in vita: vide esseri nati per correre e volare ridotti a vegetali per loro scelta. –  Sciagurati -, pensò, – tutti perdono la testa e nessuno è  più capace di seguire il cuore -. Il volo durò a lungo. O forse un attimo. Fatto sta che la tartaruga si trovò in una terra sconosciuta. Il suo sogno era stato esaudito.


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Massimo Famularo

La tartaruga

uccellone cavalcatoIl desiderio di volare può essere un sogno irrealizzabile, specie se a provare questo intenso desiderio è un essere vivente non proprio “attrezzato” per volare. Ma niente paura: a questo rimediano le favole. Un testo che ricorda il migliore Andersen. Davvero una splendida favola con una morale che va ben oltre l’aspetto puramente aeronautico.


Narrativa / Breve