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In volo tra le nuvole … e nello spazio

L’autore di questo breve racconto – forse fin troppo breve – ci ha confessato che “[…] non è altro che la trasposizione su carta di un sogno che ho fatto tempo fa”.

Ha inoltre ammesso: “Essendo uno scrittore per hobby ho dato una mia interpretazione al sogno per integrarlo con la mia passione per le letture e il cinema di fantascienza, soprattutto quello dei classici anni ’40 e ’50”.

Una possibile versione onirica in cui potrebbe essere in volo nello spazio il protagonista del racconto di Massimiliano Murgia

Dunque una confessione chiara e articolata cui, per concludere ha aggiunto: “Ne è uscito forse un racconto dai tratti inquietanti, ma credo che ognuno di noi abbia un incubo ricorrente, che vorrebbe magari esorcizzare traducendolo in parole.

In sintesi, qui in poche righe si narra di un volo virtuale e di uno reale”

Può il rapporto parentale attraversare il cielo e lo spazio … ebbene questa è la congettura sulla quale si base il racconto “In volo tra le nuvole … e nello spazio”. Questa è una raffigurazione creativa di Titano, una delle lune di Giove

La giuria della V edizione del Premio, purtroppo, non lo ha valutato di particolare originalità e neanche di sufficiente contenuto aeronautico tanto che non ha ritenuto opportuno promuoverlo alla fase finale del concorso e dunque ammetterlo alla rosa dei 20 racconti che sono stati poi inseriti nell’antologia del Premio. Purtroppo per l’autore, fortuna per noi che possiamo leggerlo in anteprima.

Ad ogni modo, al di là di ogni personale opinione, il racconto a noi è piaciuto nella sua scorrevolezza, nella rapidità espositiva, nel parallelismo della vicenda reale e onirica che unisce i due fratelli (gemelli?). Certo non piacerà ai praticanti del paracadutismo e neanche a coloro che amano i testi ben sviluppati in tutte le loro sfaccettature … ma se faranno una ragione perché i racconti tra le nuvole sono così: imprevedibili, eterei, informi … praticamente come volare tra le nuvole e nello spazio


Narrativa / Breve

Inedito

Ha partecipato alla V edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2017;

in esclusiva per “Voci di hangar”

Un volo per due

shuttle in virataIl mio racconto ‘al femminile’ è un tentativo di dimostrare – col pretesto di una passione condivisa dalle due protagoniste – la possibilità di coltivare le facoltà d’intesa tra esponenti dello stesso sesso, ma di diversa età. Con risultati che gradualmente sfociano nella reciproca soddisfazione; e che, magari, sono proficui anche da altri punti di vista. Da qui la necessità di intercalare – nello svolgimento del processo narrativo – vari accenni all’oggetto della trattazione (l’attività aeronautica e spaziale), nonché al positivo consolidamento di un rapporto che dribbla il frequentemente inevitabile e aspro conflitto generazionale.



Narrativa / Breve Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”

 

 

Viola

mustang fumettoRino Celante è un uomo come tanti altri che vive in maniera semplice, quasi anonima, seguendo regole che lui stesso ha scelto d’imporsi. Una mattina, leggendo un quotidiano apprende, della cruenta morte di Antoine de Saint-Exupéry, il famoso scrittore e aviatore francese, del quale lui è da sempre un profondo estimatore. Rino è sconvolto e per la prima volta in tutta la sua vita, perde il controllo e decide di onorare la memoria del suo mito compiendo un gesto folle e apparentemente privo di senso. Il turbamento emotivo di Rino e le connessioni che emergono tra lui e il compianto scrittore elevano l’aspetto romantico-sentimetale del racconto al ruolo di vero protagonista.


Narrativa / Breve Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”

 

 

Il volo

Se ne stava immobile da ore. La natura pareva avesse colto la sua necessità di immobilità e di solitudine: la brezza che spirava quando era andato a sedersi su quella scogliera a strapiombo sul mare si acquietò, persino i chiassosi gabbiani parvero intuire questo suo intimo bisogno e si allontanarono in stormo verso il mare aperto dove un piccolo peschereccio issava le reti arrivando a nasconderlo completamente allo sguardo dell’uomo. Ma “lui” non stava guardando il peschereccio col suo scudo animato, non stava guardando l’azzurro del mare sottostante, ad una distanza vertiginosa; e non ne ascoltava la voce sommessa, il sussurro del frangente sullo scoglio simile ad una dolce ninna nanna. Se la madre lo avesse visto appollaiato lassù, in bilico fra la fragile roccia ed il nulla … lei non sapeva di quelle sue uscite. Quando usciva di casa per una qualche necessità e nessuna delle sue tre figlie poteva andare a badare al fratello lei sprangava le porte in maniera che lui non potesse uscire, in modo da proteggerlo da se stesso e dalla sua incoscienza del mondo e dei suoi rischi. Qualche ben pensante potrebbe obiettare che si trattava di una barbarie, ma provi pure ad andare a dirglielo a quella donna che quel figlio “demente” lo aveva tirato su da sola con tutto l’amore che una madre può dare, con tutte le attenzioni e le cure che il suo stato richiedeva, con sacrificio anche (ma mai se ne era lagnata). Quelli dei servizi sociali avevano provato ad aiutarla ma lei niente, non aveva mai accettato l’aiuto di nessuno al di fuori della sua famiglia. Da che era rimasta vedova, maledetto quel mare che aveva inghiottito il suo uomo!, aveva tirato avanti con la misera pensione che arrotondava vendendo al mercato i prodotti del suo orto e prestando alcune ore della sua giornata a servizio in casa del prevosto, un sant’uomo che avrebbe potuto anche risparmiarli quei soldi … ma aveva compassione di lei e di quel figlio innocente!! Aveva imparato, GiuseppeDiCrisquo (sputava il suo nome tutto d’un fiato per non inciampare nella sua balbuzie), “Peppino o’ tardo” come lo chiamavano gli altri quando nessuno della famiglia o il prevosto erano nei dintorni, a vivere in un mondo tutto suo che non aveva porte o finestre chiuse che potevano contenerlo: lui comunque viaggiava, correva, volava nel cielo, libero e senza barriere. Gli bastava chiudere gli occhi … Poi, casualmente, aveva scoperto un passaggio verso l’esterno: verso la cantina, alla quale si accedeva, tramite una stretta scaletta malamente illuminata, da una botola ricavata nel pavimento, quasi sotto il lavello della cucina, si apriva dall’esterno una finestrella, seminascosta dai cespugli di odoroso rosmarino. Si apriva proprio sopra un banco da lavoro, uno di quei vecchi banconi con le morse in legno, sul quale il padre eseguiva i piccoli lavori di manutenzione, ormai mezzo fradicio, sul quale era così facile salire per scavalcare la finestrella ed uscire all’aperto. Così, ogni volta che sentiva dare le mandate alle porte dopo che sua madre gli aveva rinnovato tutte le sue raccomandazioni e lo aveva salutato, GiuseppeDiCrisquo sollevava la botola, scendeva le scalette, saliva sul bancone da lavoro e scivolava fuori, nell’orto, dietro alla casa dove la madre, anche se si fosse voltata non avrebbe potuto vederlo. Faceva a corsa i pochi metri che lo introducevano nella macchia mediterranea dietro all’orto, quasi volando, eppoi via verso la scogliera. Da lì poteva volare anche senza chiudere gli occhi, semplicemente spingendo lo sguardo sul mare, oltre la linea dell’orizzonte, oltre le nuvole che spesso vi si addensavano, non prestando alcuna attenzione ai pescherecci ed ai loro scudi animati, né alla voce del mare ora rombante e cattiva, come quella sera che il mare s’era ingoiato ‘Ntonio, ora dolce e sussurrante come la voce di una mamma che canta fra i denti la sua ninnananna. Restava per delle ore lassù, appollaiato su quella scogliera dove nessuno aveva il coraggio di arrivare, tanto alto e scosceso era lo strapiombo. Ma lui osava perché conosceva il cielo e l’arte del volo, lui falco e gabbiano, lui albatro migratore … lui GiuseppeDiCrisquo volava … volava, esplorando il cielo, esplorando il mare col suo volo radente, si spingeva oltre i confini del mondo e del cielo … ad incontrare gli angeli ed oltre, forse fino al cospetto di Dio. Gli parlava di Dio, il prevosto, ogni volta che andava a trovarlo e tutte le domeniche in chiesa quando lui se ne stava a testa bassa per non incrociare gli sguardi degli altri fedeli (negli occhi della gente non era mai riuscito a vedere Dio e nemmeno uno spicchio di cielo), non parlava che di Lui Don Carmelo e ne parlava con affetto, con devozione e con convinzione, come uno che lo avesse visto molto da vicino. Ma Peppino o’ tardo sapeva che non era così, che anche Don Carmelo ne parlava per “sentito dire” e quello che descriveva non era Dio, perché non aveva mai descritto l’azzurro del cielo come lui lo vedeva, mai la rabbia o la quiete del mare sopra il quale planava … perché il prete non sapeva volare e non era falco o gabbiano, né l’albatro migrante. Se ne stava immobile da ore. D’intorno era quiete quando “lui” si alzò in piedi; scrutò nuovamente oltre l’orizzonte ascoltando la voce sommessa del frangente sullo scoglio ove gli parve di udire il richiamo degli angeli amici, forse di ‘Ntonio che lo stava chiamando dal mare come faceva al rientro dalle sue uscite prima che il mare famelico lo inghiottisse in un boccone,… chissà quale voce sentì raggiungergli il cuore. S’incurvò in avanti, GiuseppeDiCrisquo, la testa protesa, allargò le sue ali immense come d’albatro gigante e spiccò il volo dall’alta scogliera verso l’orizzonte ed oltre … volava … volava verso quel richiamo che nessuno mai saprà udire di nuovo. Scomparve, Peppino o’ tardo, ingoiato dal mare, che mai restituì il suo corpo tanto che la povera madre si creò l’illusione che gli angeli lo avessero prelevato direttamente dalla sua stanza per portarlo fino al cospetto di Dio. Ed il prevosto Don Carmelo iniziò a sognare il cielo d’un azzurro che mai aveva immaginato sovrastare un mare che sapeva cantar ninne nanne come mai nessuna madre aveva saputo fare. E nel cielo volteggiava uno strano uccello, fra il falco e il gabbiano … o un albatro gigante. Capì Don Carmelo, … finalmente capì i colori di Dio.


# proprietà letteraria riservata #


Walt

Volo cieco

Capita di trovarsi in aria un tardo pomeriggio agostano ed aver voglia di giocare con un cielo che alterna zone di sereno a cumuli e temporali, tanto per “vedere” quanto sei allenato a cambiare rotta in situazioni di visibilità ridotta e mantenere i riporti senza Gps tra le colline. Capita di divertirsi molto e rimanere a bocca aperta dinnazi alla maestosità di un temporale che incappuccia l’Argentario, con il cumulo che si sfilaccia sopravvento ma resta imponente e compatto dall’altra parte. Capita di perdersi nello spettacolo dei lampi che squarciano il buco nero, mentre a lato il sole splende basso e brilla sul mare schiacciato dal vento. Poi capita di sentire un qualcosa nell’occhio e, come fatto migliaia di volte prima, strofinare la palpebra con la lente a contatto sotto. Così capita di sentire una stilettata, non vedere più nulla da quell’occhio, cominciare a lacrimare abbondantemente, al punto che la guancia, la barba e la maglietta sono zuppe. Così, dopo oltre un’ora di volo divertente, sereno, entusiasmante per il continuo cambiamento della natura, desideri solo essere a terra, strappare via quella lente maledetta e sostituirla con gli occhiali. Ma non puoi perché, talmente abituato alle lenti a contatto, non hai portato gli occhiali. Nel frattempo, tra dolore, lacrime, malessere generale che ti prende anche lo stomaco, sei arrivato a Tarquinia e decidi di rientrare all’Urbe. Il dolore dall’occhio si propaga alla guancia ed anche dall’altro la visione è fortemente pregiudicata dall’istintiva tendenza a chiudersi, certamente non migliorata da una lacrimazione a fontana ormai diffusa. Dalle parti del Soratte cominci a preparare l’atterraggio. Ti rendi conto di non avere la solita percezione della profondità ma, sopratutto, di non riuscire a sbirciare l’anemometro mentre guardi fuori. Oltretutto il bastardo è proprio a sinistra del pannello, dalla parte dell’occhio balordo. A Passo Corese ti metti per 210°, si fa meno fatica a guardare il direzionale che fuori, ma la gentile operatrice di torre ti informa che hai due traffici davanti. Guardi e riguardi ma, una leggera foschia esterna e la nebbia che si diffonde nel tuo visus, non ti fanno vedere altro che il muso ed il suolo. Avanzi con l’attenzione di chi ha le spille negli occhi ma anche sotto il posteriore. Aneli un diretto liberatore, eppure per una volta il circuito standard ti sembra più logico, o forse è solo la voglia di ritardare al massimo il momento finale. I controlli di sottovento diventano ossessivi. Fortunatamente si atterra con il sole di lato, a destra, quasi alle spalle e almeno questa è una buona notizia, visto che il dolore diventa quasi insopportabile con la luce diretta. Decidi di non procedere ad un atterraggio standard. Non sei in condizione di gestire assetto, quota, velocità, in modo da fare un corto pennellato. Due tacche sole di flap, velocità di avvicinamento + 10 nodi, un po’ piatto, motore a sostenere. Il finale lo conosci, i serbatoi sono a pochi secondi dalla pista che intuisci più che vedere realmente.Tagli il motore solo quando sei all’inizio dell’asfalto, retta un po’ più in alto del solito, che non saresti in grado di valutare correttamente niente di più basso, sfrutti la velocità in più e l’effetto suolo per farlo “accomodare” giù, anche se la pista scorre via, il fatidico “terzo” è arrivato e la tentazione di riattaccare è tanta. Un pelo di ala a destra che c’è un po’ di vento … contatto. Hai paura a toccare i freni perché il malessere è forte e la nebbia davanti agli occhi tanta. Lasci correre lungo la striscia bianca, fregandotene di mostrare quanto sei bravo a liberare sul primo raccordo. Smaltisci e freni in sicurezza. Finalmente esci. Il rullaggio al parcheggio è un calvario contro sole. Non hai tempo per compiacerti, caduta l’adrenalina il dolore ti assale ancor più bastardo. Strappi via la lente ma è troppo tardi. Qualche ora dopo esci dal pronto soccorso oftalmico con un occhio tappato, una diagnosi di profonda abrasione della cornea, una prognosi di otto giorni e la maturata sensazione di essere un cogl…e. Gli occhiali di scorta avrebbero evitato tutto questo.


#proprietà letteraria riservata# §§ in esclusiva per Voci di hangar §§


Roberto Talpo