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Aeroporti

“Il tempo passa e le cose cambiano”, già e’ proprio vero, arrivi in aeroporto, scendi lentamente la scaletta dell’aereo, senti l’aria fresca sul viso e il sole caldo sulle mani. Non si direbbe di essere arrivati a Milano, sembra un altro posto. Questa volta non hai dentro un lieve senso di smarrimento come ti succedeva quando per lavoro lasciavi casa per andare in un posto che non era casa tua, o che non era ancora casa tua. In quelle occasioni avevi sempre la voglia di vedere posti nuovi, conoscere, curiosare, ma in fondo c’era sempre un senso di vago timore, legato al fatto di essere via, essere lontano dai tuoi, dalle tue cose e dal tuo ambiente. A volte ti era capitato di desiderare di non essere lì, di guardare attraverso i vetri dell’autobus che lentamente ti conduceva al terminal, con il vago pensiero di farti portare su un altro aereo e tornare indietro.

Arrivato all’aerostazione, vicino al nastro per i bagagli, l’attesa ti costringeva a guardarti intorno, a curiosare a paragonare le strutture di quel particolare aeroporto: “a quale terminal assomiglia questo posto? Forse a quello di Chicago, no, … no, a quello di Monaco, asettico, vetro e acciaio, freddo su freddo”. Poi, dopo le strutture, la tua attenzione passava sulla gente: il manager che aspetta i bagagli senza celare l’impazienza perché il suo, all’imbarco, non glielo hanno fatto più caricare in cabina. La signora anziana, elegante e distinta, che va a trovare i figli; l’inconfondibile famiglia di turisti con bambini che corrono qua e là mentre papà e mamma cercano di ricordare il nome dell’albergo e il modo di dirlo nella lingua del tassista; il commerciante che ha un braccio impegnato dal suo prezioso campionario e l’altro ormai diventato un prolungamento del suo cellulare. E poi ragazze sole, vestite in modo quasi sciatto, che sembrano capitate lì per caso: forse fanno del turismo o invece stanno per raggiungere qualcuno che le aspetta; uomini d’affari che tornano dalle famiglie o che arrivano, come te, in quella città per lavoro. E poi pensi: “ma io come sono? Impaziente come il manager, o simile a uno di quegli uomini d’affari?” “No, non sono così elegante, viaggio sempre comodo, o forse è meglio dire, mimetizzato.” “Chissà se chi mi guarda capisce che sono qui per lavoro? E chissà se la mia espressione tradisce i miei dubbi o se invece sembra assorta, come quella di uno sicuro di se che sa cosa fare e dove andare in questa città?”

Forse l’insicurezza viene dal fatto di non essere attesi lì dove si va. Di essere lì da “stranieri”, trovarsi a dover presentare se stessi a tutto ed a tutti. A non trovare un luogo o un volto familiare. A pensare alle persone care come distanti. “Pensa al lavoro” Ti senti dire a te stesso. “Pensa alla presentazione che dovrai fare domani. Hai preso tutto con te? Qual’e’ l’agenda?” Queste sono le cose che cerchi di forzarti in mente per fugare tutti i pensieri “strani”. Ma non basta… Le valigie tardano, le persone sempre più impazienti rendono l’atmosfera ancor meno accogliente. Il terminal si riempie di squilli di telefoni cellulari, di risposte canoniche in lingue diverse: “si sono arrivato, … tutto bene, … il volo era in orario, e voi come state …”.

Niente ti aiuta a superare quei momenti di freddo lieve, di incertezza latente. Ma ecco le valigie; scorrono lente davanti ad un pubblico impaziente, che non applaude. Un pubblico che rapisce una ad una le protagoniste di questa muta sfilata di bagagli variopinti. Le valigie passano, ma non le tue. Non si capisce mai come accada che i propri bagagli siano sempre in ritardo. Non escono mai per primi da quei sipari di gomma nera. Non accade mai che la propria valigia esca fiera, prima tra tutte. No, essa ti lascia aspettare. Prima di te la piccola suora prende la sua valigia spropositata che tu immagini piena di rosari e icone della Madonna. Poi un fiume di beautycase e valigie firmate; sono quelle degli immancabili turisti americani. Passa perfino il sombrero “tipo familiare” del turista reduce dalla vacanza in Messico, ma la tua valigia, pigra, non vuole venire fuori. Anche lei indugia, anche lei si trattiene sul carrello, nascosta tra le altre, nella speranza di essere reimbarcata per tornare a casa. Alla fine, eccola, non ultima, ma sempre attesa troppo a lungo. La guardi, la prendi la soppesi: “si è la mia” ti dici, e a questo punto niente più ti trattiene nell’aerostazione.

Devi cominciare a muoverti verso la città e cercare. Cercare un taxi, cercare l’albergo, cercare un ristorante per la cena, cercare di capire a quale zona corrisponda l’indirizzo del posto che dovrai raggiungere per il meeting, cercare di ambientarti in camera, cercare di prendere sonno. Devi solo cercare, non trovi nulla già pronto in un posto nuovo. Non trovi nessuno ad aspettarti. E’ vero, non e’ la prima volta. Sai già che l’indomani il lavoro da un lato e la tua curiosità dall’altro ti faranno passare tutti questi vaghi timori. Sai già che ti basta poco per poi farti prendere dall’interesse per i luoghi e per tirarti fuori da quella palude di blanda tristezza. Ma deve ancora passare … ancora un piccolo sforzo.

Invece, tutto è diverso quando arrivi in un posto in cui sai che troverai qualcuno che ti aspetta e che non vedi l’ora di rivedere. Il viaggio ti ha portato via da qualcosa, ma ciò che ti aspetta e’ ciò che tu desideri di più. Il sole sulle mani, il vento sul viso, sensazioni piacevoli fuori dall’aereo e che ti accompagnano fino alla navetta che lentamente, troppo lentamente ti porterà al terminal.

Ed ora lì nell’attesa delle valigie sei come il manager, impaziente di veder arrivare il tuo bagaglio. L’attesa ti mette in tensione, cerchi con lo sguardo la toilette, la trovi e la raggiungi come faresti con un’oasi a lungo cercata nel deserto. Ti trattieni lì il più possibile, guardandoti nello specchio, sciacquando e risciacquando le mani per poter usare tutto il tempo necessario a che le tue valigie arrivino sul nastro. E questa volta il trucco funziona: sei riuscito a farle arrivare! Eccole lì spuntare e tu rapido a rincorrerle. Così valigie alla mano, te ne vai verso l’uscita seguendo le inutili indicazioni gialle: “So la strada, so benissimo dove andare, oggi qui, non ho nulla da cercare!” Uno sguardo distratto al terminal, un ricordo vago di quella sensazione spiacevole, ma solo un ricordo; oggi sai che non e’ così. Oggi l’impazienza è dolce, l’aeroporto è amico, niente può metterti di cattivo umore. Oggi rivedrai qualcuno che conosci. Oggi finalmente rivedrai qualcuno che ti stava aspettando. Oggi rivedrai qualcuno che ami e che ti ama. Oggi potrai baciarla di nuovo. Oggi rivedrai Eleonora.

 


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Claudio Palmieri

Un incontro ravvicinato davvero speciale

Cari amici, ho pensato di trasmettervi un’esperienza personale molto bella e della quale conservo ben nitido il ricordo; si tratta di uno spettacolo della natura che ho avuto la fortuna di ammirare da una “postazione” del tutto privilegiata.

Oggi sono un avvocato “civilista”, ma sono nato in mezzo agli aeroplani, e tra gli ardimenti di mio padre pilota militare ed i conseguenti palpiti di mia madre, ho iniziato a coltivare subito la passione per il volo, e dopo l’esperienza di quello a motore (fatta grazie all’Aeronautica Militare Italiana, quale allievo ufficiale pilota del Corso “Orione III”), sono approdato all’“ala silenziosa”: l’aliante. Qualche tempo fa, nelle primissime ore di un pomeriggio di ottobre, sono decollato dall’aeroporto di Rieti, “Umbilicus Italiae” e polo mondiale del Volo a Vela, a bordo di un aliante monoposto del Centro Nazionale di Volo a Vela per un consueto volo di allenamento. Tempo bello, 8/10 nodi di vento da nord ovest, decido di farmi trainare (dall’aereo a motore, che rimorchiando con una fune l’aliante lo eleva alla quota di poche centinaia di metri, sufficiente per poi proseguire da solo) verso Poggio Bustone. Sì, proprio il bel paese di montagna dove è nato Lucio Battisti, appoggiato ad uno dei costoni settentrionali del gruppo del Terminillo, e dove è arroccato uno dei quattro monasteri francescani della Valle Santa reatina, e dove udite, udite, il Poverello di Assisi “…qui commise peccato di ghiottoneria”. Chissà cosa avrà mai mangiato San Francesco per sentirsi in colpa. Visto il giaciglio di pietra su cui dormiva nell’altro monastero di Greccio, posto di fronte sui monti Sabini, che delimitano il lato occidentale dell’ampia valle di Rieti; penso che la “ghiottoneria” sia consistita in una doppia crosta di pane duro, o giù di lì. Ma rimaniamo in volo. Giunto proprio sulla verticale del monastero mi sgancio dal traino ed inizio a sfruttare una discreta “termica” (corrente ascensionale di aria calda, alla cui sommità, quando c’è sufficiente umidità, si formano le nubi cumuliformi). Salgo inanellando spirali rotonde, che alla velocità di salita di due/tre metri al secondo, in poco meno di cinque minuti, mi portano a circa 1.400 metri di quota rispetto alla valle sottostante. In quel momento, guardando ad ovest, proprio sopra l’oasi naturalistica dei Laghi Lungo e Ripasottile, vedo più in basso la sagoma di un grande rapace che guadagna quota in silenziosa ascesa. La tentazione è forte e decido di andare a vedere; ma devo sbrigarmi, perché i rapaci sono straordinariamente bravi a sfruttare il vento e so già, che tra una manciata di secondi sarà ad una quota superiore alla mia. Punto deciso verso di lui, e mentre mi avvicino in leggera “picchiata” mi accorgo che non è la solita, pur sempre bella, poiana. E’ troppo grande, ormai sono a meno di trecento metri, non c’è dubbio: è un’Aquila reale. Lei di sicuro mi ha già visto da ben prima che io la scorgessi, comunque “cabro” per ridurre la velocità (da 150 a 70/80 kmh), e portarla a quella minima – mia – di sostentamento, per non apparire aggressivo e non disturbarla (tra l’altro lei è una formidabile predatrice, “armata” di becco ed artigli ben più duri del plexiglass del mio cupolino). Al termine della cabrata livello alla sua stessa quota, Le sono affianco (la maiuscola è d’obbligo con un’autentica regina); viro – sempre con garbo – a sinistra e mi inserisco nella sua spirale di salita; ora siamo “speculari” nel cerchio che stiamo descrivendo, con l’estremità della mia ala sinistra puntata verso l’immaginario centro, che dal lato opposto al mio, è indicato anche dall’ala sinistra dell’Aquila.

Lei è assolutamente tranquilla, io invece sono emozionato, non mi pare possibile contemplare in volo e così da vicino quella creatura meravigliosa. La osservo meglio, la Sua livrea è bruna, punteggiata qua e là sul dorso da piume bianche; le ali, completamente spiegate, hanno un’apertura di quasi due metri e mezzo e sono ferme, non danno un solo battito; l’unico movimento che percepisco è quello delle “remiganti”, tese e divaricate come le dita di una mano, che accarezzano l’aria quasi suonassero l’immaginaria tastiera di uno strumento, ed in sincronia con le timoniere ne mantengono costante l’assetto ed ottimizzano la salita. E’ chiaro che anche lei mi sta studiando, se solo volesse sarebbe già più in alto di me, in posizione dominante ed ho la sensazione di non infastidirla. Dopo aver descritto insieme tre/quattro giri Lei punta diritto verso ovest, ed io sempre alla stessa quota La seguo agevolmente, perché in planata rettilinea l’aliante ha una maggiore efficienza, e quindi a 90 kmh mi è facile starle dietro. Decido allora di accostarmi lentamente alla sua ala sinistra. Lei non si scompone, ma si limita a rimanere davanti a me, un metro “positiva”, vale a dire appena un po’ più in alto. Ed è mantenendo questa formazione strettissima che procediamo insieme, affiancati, con la testa del rapace tre/quattro metri a destra della mia, davanti e poco al di sopra del bordo d’attacco dell’ala destra dell’aliante. L’irrequieta vivacità ed “il piglio” deciso dell’occhio scuro, il profilo adunco del potente becco, incastonato nella nobile testa bruna, che l’Aquila con morbide movenze volge ripetutamente verso di me mentre, nell’azzurro luminoso che scorre sullo sfondo, mantiene sicura la rotta, sono straordinari. Sono letteralmente stregato da quello che vedo, quando, all’improvviso, ripiegate le ali ed assunta la forma di un fuso, l’Aquila si tuffa in una picchiata vertiginosa. Mi è quasi sparita sotto la prua, penso che se ne sia andata, e invece no; con una “richiamata” strettissima, impossibile al più evoluto aereo da caccia, risale quasi in verticale e mi sfreccia davanti, velocissima, a poche decine di metri dal “naso” dell’aliante; sale di una cinquantina di metri e sempre senza aprire nemmeno per un attimo le ali, si rituffa nel vuoto e risale nuovamente. Sembra un delfino che giochi sull’onda di prua di una nave. Questa scena si ripete quattro volte e poi scompare … in un battito d’ali. Probabilmente è tornata velocemente verso la montagna alle mie spalle, confondendosi con lo scuro terreno sottostante. Quando atterro ancora non credo di essere riuscito a vedere quello che ho visto; racconto l’accaduto, ma nessuno sa darmi spiegazioni. Me le dà la L.I.P.U. (Lega Italiana Protezione Uccelli): sono stato oggetto di una parata nuziale, che una giovane Aquila reale, producendosi probabilmente per gioco nel caratteristico “volo a festone”, ha ritenuto di donarmi trattandomi, se non da suo pari (la sua “superiorità aerea” è indiscussa), almeno da amico e compagno di giochi… voglio solo sperare, dato l’intrinseco significato delle evoluzioni, che fosse un esemplare femmina, e non un maschio, ingannato dalla virginea, candida, livrea “matrimoniale” dell’aliante.


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Diego Palazzoli

Pet on board

L’imbarco di Mimì, alla fine, gli era costato più del biglietto, acquistato on line sette mesi prima, in offerta super promozionale di una compagnia low cost. Quasi il doppio, per dire la verità. Poi c’era stata quella spiacevole storia, lì alla biglietteria dell’aeroporto di Orio al Serio. – In questo volo è previsto già il trasporto in cabina di due cani; è il massimo consentito dal regolamento, quindi la sua bestiola dovremo caricarla nella stiva – gli aveva detto la biondina slavata in divisa celeste-pigiama che era di turno al check-in. La bestiolina era Mimì, appunto. Una gatta di diciassette anni, manto maculato in bianco, marrone e ruggine, piccolo delizioso relitto al quale Fabrizio era rimasto aggrappato al momento del naufragio del suo trentennale matrimonio. Il salvagente morbido e peloso che gli aveva permesso, sia pure a fatica, l’approdo alla spiaggia tranquilla di una solitudine non più tormentata come era stato i primi tempi. – Non se ne parla nemmeno – aveva ribattuto deciso Fabrizio. – Il trasportino lo porto con me. Non era stato facile, aveva anche dovuto alzare la voce, a un certo punto. Cosa che non era mai stata abituale, per lui, uso praticamente da sempre, per indole e attitudine, a non elevare mai i toni oltre un certo limite. Una caratteristica che, a primo impatto, poteva sembrare un sintomo di timidezza e di scarso vigore; solo il morbido involucro di una volontà interiore di consistenza ferrea, per chi lo conoscesse abbastanza in profondità. Non era stato facile, ma alla fine l’aveva spuntata lui. Anzi, loro: lui e Mimì, che aveva effettuato il viaggio, comodamente accovacciata nel suo trasportino, sulle ginocchia di Fabrizio.

Il sole di Sardegna, già rovente a giugno, li folgorò all’uscita di Elmas. Erano in automobile, adesso, una Punto noleggiata all’Avis. Climatizzata, naturalmente: per Mimì, da sempre, viaggiare aveva rappresentato uno stress, e adesso era lì che respirava con la bocca aperta e la lingua fuori. – Tra poco saremo arrivati – disse dolcemente Fabrizio. – Perdonami per averti causato un ulteriore piccolo tormento, ma questa è una cosa che dovevamo fare, io e te. La gatta strizzò gli occhi, due volte. Il suo modo silenzioso di dire: “Stai tranquillo, uomo: ho capito” – Da qui sei partita, quando ti trovammo in giardino, malridotta trovatella. Ti ho portato in giro per l’Italia, dietro ai miei trasferimenti da zingaro, e qui ti riporto. Voglio farti rivedere il mare, il tuo mare.- mormorò ancora lui, ricacciando indietro un boccone di singhiozzi che rischiava di strozzare la gola e mozzare il respiro.

Aveva sempre temuto quel momento.

Fin da quando Mimì altro non era che un minuscolo batuffolo colorato, dalla coda appuntita e dagli occhi immensi. Una fedele e affezionata compagna di vita che aveva dolcemente condiviso con lui una parte del lungo cammino: l’ultimo tratto della strada nel paese del latte e del miele, con sua figlia che veniva su, dritta e rigogliosa come una spiga di grano e sua moglie che gli riservava ancora sguardi d’amore, invece che di sospetto e sordo rancore. Prima che tutto cominciasse ad andare in frantumi. E anche dopo, se è per questo.

Sì, Fabrizio aveva sempre temuto, quel momento, perché sempre aveva saputo che, prima o poi, sarebbe inesorabilmente arrivato.

Era cominciato tutto come cominciano queste cose: una roba da niente, la gatta che si leccava in un modo un po’ strano, un’ulcera quasi invisibile su uno dei capezzoli nascosti tra il morbido pelo dell’addome.

Una visita dal veterinario (e quelli sì che erano brutti viaggi, per Mimì, fin dalle prime vaccinazioni), una sentenza spietata, l’inutile sofferenza di un’operazione inutile.

– Le resta un anno di vita, forse qualcosa di più, ma non troppo. – gli aveva detto la dottoressa. – Cosa posso fare? – aveva chiesto stupidamente lui, annichilito dalla sorpresa e dal dolore. – Trasformi i suoi ultimi mesi in qualcosa che sia il più vicino possibile al paradiso dei mici, sempre che ne esista uno – era stata la risposta, accompagnata da una affettuosa stretta di mano sull’avambraccio.

Così aveva fatto, dedicandosi al suo animaletto totalmente. L’aveva coccolata, accarezzata, blandita in tutti i modi possibili, ricompensato cento volte più di tanto dalle quiete fusa di Mimì. Si era persino illuso, a un certo punto, che forse non sarebbe successo mai, che forse il veterinario aveva sbagliato tutto, che forse la sua adorata gattina fosse davvero un highlander immortale della categoria felina, come diceva qualche volta Arianna, sua figlia. Scoprendo, in quel sorriso, i denti perfetti che ormai da un anno, dopo la dura separazione con sua moglie Camilla, Fabrizio aveva occasione di rivedere solo di rado.

Mimì non morirà … magari il tumore si è fermato, è regredito, magari …

Poi erano arrivati i colpi di tosse, che avevano cominciato a squassare il piccolo petto della bestiolina. Il respiro sofferto, affannoso, in certi momenti. Quasi un rantolo penoso. Momenti sempre più frequenti. E … … era cominciata la difficoltà di trattenere il cibo, e il corpo si era rapidamente avvizzito, il muso si era scavato, perdendo in fretta la sua morbidezza da pelouche.

Il mare era agitato, sotto l’ingiuria sibilante del maestrale. Sceso dalla macchina Fabrizio poggiò la gabbietta sulla sabbia e la aprì.

Mimì era sempre stata una gatta timida, per niente amante degli spazi aperti, come se la libertà la spaventasse, invece di attirarla. Ma c’era qualcosa di diverso, stavolta. Cacciò furi il muso, annusando freneticamente l’aria, come era solita fare quando si affacciava al balconcino di casa. “La vecchia casa”, pensò Fabrizio. “Quella casa”. Nella nuova non c’erano né logge né terrazzo. Poi, incredibilmente, venne fuori dalla gabbietta, senza ulteriori esitazioni. Stirò languidamente il corpicino ormai smagrito, poi avanzò, procedendo lentamente su quella soffice polvere, a lei ignota, in direzione del mare. Coraggiosamente, tranquillamente, sfidando gli spruzzi umidi che le sputava addosso il maestrale. Fabrizio la seguì, passo passo, finché non la vide fermarsi a pochi decimetri dalla prima sabbia lambita dal mare. Lei si volse, levando lo sguardo verso il suo volto. Era come se volesse comunicargli qualcosa, e lui sapeva bene cosa: del resto Mimì non aveva mai avuto bisogno di miagolare, per farsi comprendere. Fabrizio allora si chinò, prendendola tra le braccia. La sentiva rabbrividire sotto il pelo umido. Se la strinse addosso, delicatamente, riscaldandola con le carezze e con il calore del proprio petto. Tornò indietro, vicino alla strada accovacciandosi con la gatta in braccio tra due vecchie cabine, per ripararsi un po’ dal vento, che sembrava volersi accanire ogni minuto di più. Le lisciò la gola, avvertendo il battere del cuore sotto i polpastrelli. Le stropicciò teneramente le orecchie. Le sfiorò il dorso, fino all’attaccatura della coda. Poi ancora le passò le dita lungo il muso, massaggiandole la pelle sopra le gengive, come le piaceva tanto. La sentì rilassarsi, sempre di più, fino ad abbandonarsi completamente, addormentata.

Fabrizio non piangeva più, adesso. Le sue lacrime se n’erano già andate tutte via. “È a me che tocca”, pensò. “Solo io posso farlo, Mimì”.

Muovendosi adagio, per non farla svegliare, infilò la mano nella tasca del giubbotto: la siringa e quella fiala, che dopo tante insistenze alla fine si era decisa a consegnargli la dottoressa, erano lì.

Stava passando un aereo. Con la sua scia bianca sembrava voler dividere a metà l’azzurro intenso del cielo.

Troppo in alto, troppo lontano, per fare rumore.


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Patrizio Pacioni

Settimo cielo

Soltanto dopo il centesimo viaggio Corrado aveva imparato ad addormentarsi in aeroplano. Adesso succedeva automaticamente, non appena la spinta ascensionale del decollo si era esaurita: gli bastava reclinare il capo sulla spalliera del sedile, chiudere gli occhi e abbandonarsi al rollio accattivante del volo. A questo punto, quasi istantaneamente i dialoghi degli altri passeggeri si amalgamavano in un ronzio di fondo fatto di parole spezzate, frammenti di conversazioni amabili e inutili, che pilotavano delicatamente i suoi pensieri attraverso la valle di penombre che conduce alla dolce incoscienza del sonno. Fu un tintinnio metallico, a trascinarlo fuori dalle placide brume tra le quali già cominciava a levitare. – Gradisce qualcosa, signore? – Era una voce di donna, quella che gli stava parlando, calda e gentile. Corrado percepì discrete ma persistenti tracce di Chanel allacciate all’aroma del caffè, in una miscela inusitata ma gradevole all’olfatto. Sollevare le palpebre si risolse in uno sforzo ancora più gravoso di quello necessario per tirare su la tapparella della cucina di casa (l’ultimo in ordine di tempo degli innumerevoli alloggi che lo avevano accolto nei più recenti segmenti della sua vita) che aveva subito almeno dieci riparazioni negli ultimi tre mesi, ma che continuava inesorabilmente a incepparsi a metà strada ogni volta che se ne tirava la cinghia. Era una delle hostess, ad avergli parlato, una graziosa, giovane donna, minuta ma ben proporzionata, la cui origine mediterranea era inequivocabilmente rivelata dalla pigmentazione gradevolmente bruna della pelle e dalla folta chioma corvina. Senza aspettare che Corrado le rispondesse, sganciato di propria iniziativa il ripiano di plastica collegato allo schienale del sedile davanti al suo, la ragazza vi aveva deposto una tazza di plastica bianca colma a metà di caffè caldo, le posate avvolte in un tovagliolo di carta, la bustina dello zucchero e un minuscolo bicchierino sigillato di panna. Ma ciò che immediatamente catturò l’attenzione di Corrado fu il dolce. Torta di Ricotta con salsa di Fragole annunciava il biglietto di benvenuto. Siete nel settimo cielo e il sole splende sopra le nuvole ! Corrado si voltò verso l’oblò alla sua sinistra, incredulo. Avvertiva ancora nei vestiti e nelle ossa l’umidità che aveva intriso gli uni e le altre nel corso dell’intera giornata. Quando si era svegliato, ai primi chiarori del giorno, la pioggia cadeva già da qualche ora, e aveva continuato a farlo incessantemente fino alle tre del pomeriggio, allorché Corrado aveva avviato il motore della sua Lybra per partire alla volta di Elmas. Proprio in quel momento Giove Pluvio doveva aver deciso di prendersi una pausa di riposo, dopo tanta fatica: ma si era trattato appena di una manciata di minuti, giusto il tempo strettamente necessario per riprendere fiato, evidentemente. Infatti, non appena imboccata la superstrada per Cagliari, all’uscita di Iglesias, si era scatenata una delle più violente bufere in cui, nella sua vita vagabonda, a Corrado fosse capitato di imbattersi: torrenti d’acqua avevano preso a rovesciarsi senza soluzione di continuità sul parabrezza, vanificando e irridendo la frenetica spola dei tergicristalli, mentre raffiche taglienti di maestrale con mani invisibili spingevano l’automobile verso la corsia opposta. … il sole splende sopra le nuvole! Quale bufala piramidale, Corrado non poteva certo crederci, neanche … Invece, contro ogni aspettativa, era assolutamente vero. Incendiata nel precoce tramonto di metà novembre, la sfera solare, dilatata e sanguigna come un cuore malato, sembrava essersi adagiata su un immenso tappeto di batuffoli di lana color antracite, cirri temporaleschi che a Corrado ricordarono gli impalpabili riccioli di polvere che trovava sul pavimento da bambino, nel corso delle incursioni fantastiche sotto il lettone dei genitori. Corrado rimase a contemplarla, cercando di archiviare immagine e sensazioni nell’almanacco dei ricordi, con lo sguardo fisso, finché una ragnatela di luce bianca non si sovrappose ai vasi indeboliti che irroravano le sue retine da miope. L’ATR volava veloce, in direzione nord, verso la Costa Smeralda, ma per un po’ il tempo e lo spazio si cristallizzarono nella mente di Corrado. “ E’ una mirabile sintesi del mio stato attuale. “ pensò, assaporando il primo sorso della bevanda calda. “ Sospeso tra cielo e terra, tra l’isola e il continente, tra passato e futuro. “ Massaggiandosi con le dita gli occhi gonfi di stanchezza. “ Sempre che ci sia un futuro, per me. “ Tra la vita e la morte, ecco la verità. “ Perché questo non è uno dei miei soliti viaggi. “ Da Iglesias, sede della nuova filiale di cui da poco più di un anno gli era stata affidata la responsabilità, a Cagliari, a Milano, a Genova … Su e giù, in continuo movimento da una filiale all’altra. Un meeting, la definizione dei budgets per il nuovo anno, il “road show” della Direzione Centrale, la presentazione di prodotti finanziari e assicurativi sempre più innovativi e sofisticati. Una vita da nomade di lusso, con l’angoscia di svegliarsi, in piena notte, domandandosi, ancora nella confusione del sonno interrotto, se fosse meglio scendere da una parte o dall’altra del letto, perché all’Hotel Metropoli la porta della stanza era a destra, al Regina Margherita invece a sinistra, mentre all’Hotel des Etrangers … “No, domani non ci saranno incontri di lavoro, e, invece del solito tavolo della sala-riunioni, ci sarà ad aspettarmi il lettino di un’asettica camera operatoria.” Una tosse secca e fastidiosa, un malanno stagionale da niente, almeno finché non erano rimaste nel fazzoletto inconfondibili striature vermiglie. Una due, cinque, dieci volte. – Cancro ai polmoni. – Gli aveva annunciato in un soffio Guido, l’amico medico, riponendo la lastra nella busta gialla del laboratorio radiologico, studiando con esagerata attenzione uno dei poster appesi alle pareti del suo studio, perché è sempre spiacevole specchiarsi negli occhi di un condannato a morte, specialmente se è uno a cui vuoi così bene. Un paesaggio esotico, vegetazione lussureggiante e mare, uccelli in volo in un cielo turchese, Corrado lo ricordava bene. – Proprio a me, che ho sempre detestato fumo e fumatori! – aveva reagito bruscamente, al momento più stizzito che spaventato. – Purtroppo capita anche questo, Corrado. Mi dispiace. – e da come si era incrinata la voce del medico, mentre così gli rispondeva, lui non aveva avuto nessuna difficoltà a credergli. Già dal mattino successivo era cominciata la vorticosa serie di visite specialistiche, prelievi e analisi di ogni tipo. – Forse siamo ancora in tempo. Forse. Ma bisogna intervenire subito. Diciamo domani. – Era stata la risposta di Guido, quando Corrado gliene aveva chiesto l’esito. E intanto gli metteva in mano un biglietto del volo diretto Air Dolomiti. – Sistema le tue cose e vai. A Genova già ti stanno aspettando col bisturi in mano. – Oh, Guido era fatto così, e quello era il suo modo di relazionarsi e di comunicare: un po’ brutale, certo, ma schietto. Prendere o lasciare, insomma, e Corrado aveva già deciso da tempo che non lo avrebbe mai cambiato con un altro diverso. Né come amico, né come medico, s’intende. Ricotta cheese cake with Strawberry sauce Che fosse scritta in italiano o in inglese, era proprio deliziosa. Corrado raccolse con il cucchiaino un bel mucchietto di briciole, e lo passò nel goloso sciroppo di fragole. “Fortuna che a nessun dottore finora sia venuto in mente di vietarmi di mangiare dolci.” si rallegrò, mentre masticava adagio, per poter meglio assaporare il gusto raffinato. Sospeso. Tra cielo e terra. Tra passato e presente. “Massì, lasciamolo stare, il futuro.” Stava deglutendo l’ultimo boccone, quando Rosaria lo chiamò. Direttamente al centro della testa, come era solita fare. Istintivamente Corrado consultò l’orologio: le diciassette e venticinque. – Sei in ritardo, questo pomeriggio. – la rimproverò pacatamente. – Ed è da stamattina, che non mi vieni a trovare. – Rosaria non rispose. Non lo faceva mai. Se ne stava lì in silenzio, nascosta nell’ombra, anche se qualche volta a lui sembrava persino di sentirne il respiro. Corrado però intuì che lei gli aveva appena regalato un sorriso, o perlomeno l’equivalente mentale di quella smorfietta speciale che tanto lo aveva aiutato a innamorarsi di lei. Era sempre più difficile, però. Perché l’immagine di Rosaria, affissa alle pareti intime della sua anima con il più doloroso dei chiodi, era un po’ come uno di quei dipinti dei quali erano sono affrescati i templi e i sepolcri antichi: quando, scavando nella sabbia e nel tempo, un archeologo arriva alla fine a poterli ammirare, riesce appena a intuirne le sublimi bellezze classiche, prima che l’ingiuria dell’aria li dissolva sotto lo sguardo attonito dei suoi occhi impotenti. Ma per quanto concerne Rosaria il processo era molto più lungo, una interminabile sequenza rallentata che rendeva ancora più struggente la perdita. Era stata la linea del naso, la prima a scomparire, seguita subito dopo da gran parte delle morbide curve del corpo, dalle gambe, dalle labbra. Ora, che anche i begli occhi scuri che tante volte si erano specchiati nei suoi nel sublime culmine dell’orgasmo amoroso, stavano evaporando come minuscole pozzanghere al sole di mezzo agosto, Corrado riusciva a richiamare sullo schermo nero della memoria soltanto i riccioli capricciosi tra i quali tante e tante volte si erano smarrite carezze tenere e appassionate. Anzi, no, qualcos’altro era rimasto. Le mani. In particolare i pollici tozzi, unici nella sagoma singolarmente rotonda, in ridicolo contrasto con le altre dita, lunghe e sottili. Rosaria, che se n’era sempre vergognata, al punto di avere sviluppato l’abitudine inconscia di nasconderli in presenza di estranei negli incavi dei pugni serrati, non riusciva a comprendere come ciò che lei aveva sempre considerato (“i miei salsicciotti”) un’imbarazzante bizzarria anatomica, potesse rappresentare un così potente catalizzatore delle attenzioni di un uomo. Col tempo, però, con sottile piacere, e femminile malizia, aveva saputo trasformare il gioco di sottrarli ai baci di Corrado in una schermaglia intrigante che speziava i loro incontri più intimi …

Fuori, a tremila metri di quota, oltre l’oblò, il viola scuro dell’ultimo scampolo di quel fantasmagorico tramonto virava rapidamente nel buio gelido della notte. E Rosaria si era di nuovo ritirata nella dimensione malinconica e misteriosa delle rimembranze. Prima di poter provare a richiamarla indietro, Corrado si accorse che stava per succedere, e che, come al solito, non avrebbe potuto fare niente per impedirlo. Ormai, con l’inesorabile progredire del male, gli accadeva sempre più spesso: all’inizio era come se un sorso d’acqua fosse sceso giù per il canale sbagliato. Una breve interruzione del respiro che, se in quel momento lui stava parlando, gli rendeva incomprensibili le parole, trasformandole in una specie di anomalo sorriso strozzato. Poi la sensazione di soffocamento si faceva rapidamente più forte, e Corrado avvertiva l’espandersi nella parte superiore del torace, tra i bronchi e la trachea, di un grumo compatto di catarro e chissà cos’altro, un corpo estraneo che l’organismo cercava invano di espellere con colpi di tosse sempre più violenti. Squassanti, inutili, irritanti. Ecco, era al culmine della crisi. Corrado si chiese quanti degli altri passeggeri stessero guardando, preoccupati, nella sua direzione. – Posso esserle utile? – Un’altra hostess. Carina quanto la prima, ma del tutto diversa: alta, slanciata, i lunghi capelli biondi raccolti in un raffinato chignon. Con il petto in fiamme, ma con la consapevolezza che un filo d’aria aveva ripreso a transitare, alimentando in qualche modo il respiro, Corrado le rispose con un cenno di diniego del capo. – Grazie, signorina. Un momento di difficoltà, ma ora è tutto a posto. Davvero. – riuscì finalmente a sillabare. La ragazza indugiò ancora qualche secondo, scrutandolo attentamente, indecisa sul da farsi. “Con un viso paonazzo come il mio, e la gola che fischia come una caffettiera dimenticata sul fornello acceso, in effetti non le deve riuscire facile credermi sulla fiducia.” – La prego, sia cortese, mi porti un bicchiere d’acqua. – le chiese. Più per toglierla d’imbarazzo che perché ne avesse davvero voglia e bisogno. – Sì, credo che potrà farLe farà bene. Torno subito. – sorridendogli ancora, prima di allontanarsi.

“Dimmi, Rosaria, dove sei ?” la evocò ancora, “E cosa stai facendo, in questo stesso momento?” proseguì, cercando di rilassarsi, lo schienale abbassato di un paio di scatti. “Magari sei in casa, seduta al tavolo della cucina o della camera da pranzo, accanto a tua figlia, e l’aiuti a risolvere il problema di matematica per domani.” Facendosi del male, con piena consapevolezza, come puntualmente gli accadeva almeno due volte al giorno. Da quindici anni ormai. Soprattutto da quando era venuto a sapere della nascita di Chiara. Che avrebbe potuto essere la loro bambina. Se solo avessero avuto più fortuna. Se fossero stati appena un po’ più coraggiosi. Se Rosaria l’avesse amato quanto lui l’amava. Come dire: se la terra potesse girare al contrario. Se. Comunque le cose non erano andate affatto così. “Perché la vita non è la trama di un romanzo, o di un film, che puoi riscrivere da capo, e cambiare il finale, se non ti piace. O magari è proprio così, ma la notizia cattiva è che poi, nei titoli di coda, non compare mai il tuo nome, tra quelli degli autori.“ L’assistente di volo bionda era di nuovo al suo fianco, in piedi nel corridoio, con un bicchiere di carta in ciascuna della mani. Efficiente ai limiti del credibile. Corrado optò per l’acqua naturale, lasciando che lei riportasse indietro quella gasata.

– Allora, lo accetta questo incarico di direttore di agenzia a Milano? Non stia a pensarci troppo, però: se ha deciso di salire la scala, un minimo di sforzo per arrampicarsi sul primo gradino dovrà pur farlo, non crede? – Mentre gli parlava sorrideva, il Capo del Personale, nel suo bell’ufficio di Roma, e intanto sfogliava distrattamente l’ultimo numero di Capital. “E io non seppi dire di no.” ricordò Corrado “D’altronde è sempre stata la filosofia della mia vita, quella di lasciarmi condurre dagli avvenimenti, senza opporre resistenza, come un cadavere che scende lungo il corso del fiume: non importa se urtando contro qualche scoglio ti ammacchi la fronte, o ti spezzi un arto, non è grave se una striscia di pelle rimane impigliata in un rovo sporgente. Tu abbandonati alla corrente, e prima o dopo ti troverai a galleggiare in un’ansa tranquilla. “ Ma davvero è sempre così, che vanno le cose? – Devo trasferirmi, Rosaria. E’ troppo importante, per me. – la mise al corrente quella sera stessa. – Se mi ami davvero, rinuncia al tuo incarico di assistente universitaria, abbandona la tua famiglia, dimentica i tuoi amici e i tuoi interessi, insomma lascia tutto, e vieni via con me. – Convinto che lei non potesse che rispondergli sì. – Ma tu, Corrado, sei davvero sicuro di amarmi quanto dici?- Erano state invece le ultime parole che lei gli aveva rivolto. Dopo di che gli aveva girato le spalle, e se n’era andata via, soffocando con grande dignità un accenno di pianto. “Da un giorno all’altro, dopo tanti giuramenti, dopo tanta frenetica passione, fu come se io non fossi mai esistito. Chiusa nella sua robusta corazza di rancore, a quei tempi per me incomprensibile, lei respinse uno dopo l’altro i miei confusi tentativi di ricucire la nostra storia. ” Perché, probabilmente,  “Quando una donna dice basta, è per sempre.“ non è soltanto un modo di dire. Corrado aveva passato molti dei mesi seguenti in profonda depressione, cercando invano di comprendere come una catena di equivoci, intrecciata con incroci impossibili di ambizioni e sentimenti, potesse averli portati a dissipare, con tale ingiustificabile leggerezza, il loro tesoro sublime. In poche parole, a somministrare ai porci la manna generosamente dispensata dal cielo. Nel corso delle interminabili elucubrazioni seguite al devastante distacco, attribuire puntualmente alla sola Rosaria la colpa della dolorosa separazione, era stato al tempo stesso un blandissimo analgesico e un potentissimo veleno. Fino al momento che, dopo avere scartato ogni altra ipotesi, non s’era fatta strada nella mente e nell’anima di Corrado l’ipotesi (se possibile ancora più devastante) che l’irritante disinvoltura, con cui Rosaria era riuscita a tagliarlo fuori dalla propria vita, avesse affondato le proprie radici in tutt’altro humus. “ Forse sono stato io a non amare abbastanza. E lei l’ha capito per prima“ era stato il pensiero che duro e doloroso quanto può esserlo un pugno in pieno viso, aveva fatto da brusco e prematuro risveglio all’ennesima notte insonne. “ Faticai molto ad accettare questa ipotesi, e soprattutto a convincermi che Rosaria aveva assolutamente ragione: perché ero io ad avere avuto la possibilità di scegliere tra la mia donna e la carriera, e a lei avevo riservato soltanto la medaglia d’argento. Fu soltanto dopo, quando ormai l’avevo irrimediabilmente perduta, che cominciai davvero a capire quanto lei fosse importante per me, e quanto tutto il resto, al confronto, contasse poco, o niente. E dopo quella scoperta fu orribile, giorno dopo giorno, sentirmi crescere dentro al petto questo sentimento, che più diventava grande, e importante, più diventava inutile. “ Non era stato facile, ma, nonostante tutto, dopo il suo trasferimento a Milano, Corrado era riuscito a rispettare la scelta di Rosaria, e non l’aveva più cercata. Questo certo non voleva dire che l’avesse persa di vista, anzi: da lontano aveva continuato, mese dopo mese, a raccogliere notizie da conoscenti comuni, a informarsi in ogni modo possibile delle sue vicende personali e professionali, riuscendo persino a procurarsi alcune delle sue prime pubblicazioni. Addirittura, una volta che aveva saputo della presenza di Rosaria in città in occasione di un congresso, di cui ora non ricordava neppure lontanamente l’argomento, Corrado non aveva esitato ad andarne a seguire un intervento, all’Università Cattolica, seduto in ultima fila, nascosto come un agente segreto da operetta dietro un paio di improbabili occhiali da sole. Soffrendo come un cane, quando un giorno aveva saputo che lei aveva lasciato il suo incarico di assistente, e che si era sposata. Odiandola violentemente per questo, con tutto se stesso. Almeno per un po’. Ma non riuscendo minimamente a scalfire, neppure per un solo secondo, la convinzione di aver perso con lei l’incastro mancante della propria vita. “Accanto a me, invece, non c’è stata più nessuna donna.“ pensò Corrado, con amarezza, ma senza nessun rimpianto. Forse aveva avuto ragione Guido, quando, dandogli un’affettuosa pacca sulla spalla, lo aveva consolato.  – Non avertene a male: è scientificamente dimostrato che alla fine gli eroi e gli stronzi restano sempre da soli. – Poi, più serio: – Ma se per caso credi che adesso Rosaria stia meglio di te, vuol dire che delle donne non hai mai capito un’acca. – E questa, probabilmente, era un’inconfutabile verità.

– … stiamo sorvolando la Corsica, poi l’aereo si dirigerà verso Genova, dove atterreremo in orario recuperando i minuti persi al decollo per motivi di traffico … – informò dall’altoparlante la voce del comandante, calda e convincente in tutte e tre le lingue in cui ripeté l’annuncio. “ Forse alla scuola piloti insegnano anche dizione.” pensò Corrado, e intanto, senza neppure accorgersene, aveva preso a mangiucchiarsi le unghie della mano destra, ritrovando il gusto rassicurante di un gesto che non ripeteva dai tempi della seconda media. “Ho tentato di soffocarne persino la memoria, all’inizio, Dio solo sa quanto sia vero. Ma quell’amore straziato e dolente è stato più forte di me: mi si è accoccolato addosso, come un cucciolo di gatto, ha dormito e vegliato, di notte, sotto le mie stesse lenzuola. Ha diviso con me l’aria, l’acqua e il pane, ha partecipato imparzialmente ai successi e agli insuccessi di ciò che restava della mia vita. E alla fine ha avuto il suo trionfo.“ C’era un gradevole calore, nella carlinga, il sedile era morbido e accogliente, e Corrado non godeva di un sonno ininterrotto da almeno tre anni. Di nuovo avvertì l’incoerenza progressiva che distaccava la mente dai pensieri. Era piacevole, potersi finalmente lasciare andare. “ … anche se ha dovuto uccidermi, prima di farlo. “

Qualcuno gli aveva allacciato la cintura, e, sempre senza svegliarlo, aveva riportato adagio lo schienale del suo sedile in posizione verticale. “Sarà stata la bambolina bruna, oppure l’angelo dai capelli d’oro?“ Corrado si svegliò appena in tempo per avvertire lo scatto metallico del carrello, che gli comunicava che l’atterraggio sul “Cristoforo Colombo” era già cominciato. L’impatto morbido delle ruote sull’asfalto della pista. “Atterraggio perfetto, Comandante, quasi quanto la sua pronuncia inglese!“ Cosa aveva detto, Guido? – A Genova c’è un chirurgo che ti aspetta con il bisturi in mano. – Già. Un campanello elettronico annunciò lo spegnimento della lampadina col logo della cintura di sicurezza, e tutti scattarono in piedi quasi contemporaneamente, in una agitazione chiassosa quanto disordinata. Corrado aspettò, seduto al suo posto, e l’aereo era già vuoto a metà, quando si decise a estrarre il borsone da viaggio dallo scompartimento sopra al sedile. “ Solo bagaglio a mano. Non avrò bisogno di un gran guardaroba: per quanto possano andare bene le cose, non credo che sarà il massimo della vita, lì in ospedale.“ – Arrivederci al prossimo viaggio. – Lo salutò lo stewart, mentre lui già metteva il piede sul primo gradino della scaletta. – Chissà. – gli rispose Corrado, guadagnandosi di ritorno un’occhiata perplessa. La patina umida spalmata sull’asfalto, in cui navigavano i tremuli riflessi delle luci bianche dell’aeroporto, lo informò che la tempesta era passata anche di lì. Ma non pioveva più, ed era pur sempre qualcosa. “ Stai attento, dottore!, visto che dovrai lavorarmi proprio nei dintorni del cuore. Dacci pure dentro, coi tuoi ferri, e togli via tutto il marcio, se puoi. “ Forse, dopotutto, qualche goccia cadeva ancora, visto come gli si stavano inumidendo gli occhi. “ Ma non azzardarti a sfiorare Rosaria. “


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Patrizio Pacioni

L’altra

un racconto da leggere soprattutto … dopo la parola “fine”

Quando ti sorprende un temporale del genere in autostrada, è persino difficile distinguere che tipo d’acqua sia quella che si rovescia addosso alla tua automobile da ogni direzione. Quella che scende dall’alto è pura e trasparente, e la manda giù gratis il buon Dio. Ma poi c’è anche quella grassa di fango e di olio schizzata dalle auto che ti corrono davanti, e dai camion che stai sorpassando …

Valerio guida da più di due ore, e l’ultima azione che ricorda con certezza di avere compiuto coscientemente è stato il ritiro del tagliando al casello d’ingresso di Firenze. Poi è stato un continuo susseguirsi confuso di chilometri e pensieri.

E’ sempre il cambiamento, quello che spaventa di più. Sa bene che dopo che avrà visto Elisa al di qua del cancello degli Arrivi Internazionali di Malpensa, la vita non sarà più la stessa. Non sarà più la stessa per nessuno, in effetti. “Un viaggio di lavoro. Questione di un paio di giorni a Milano.” La solita banale scusa che prima o poi ogni marito propina alla moglie, l’ha appunto somministrata per l’occasione a Teresa. E lei che come al solito gli ha creduto, senza fare domande, senza avanzare obiezioni.

Eppure … Come ha fatto a non sospettare niente nemmeno quando ieri, di sabato mattina per giunta!, lui s’è alzato di buon’ora, e se n’è andato con l’automobile a uno dei pochissimi “lavaggi a rullo” aperti in città? Possibile che non l’abbia sfiorata neanche un dubbio allorché le ha chiesto di portargli per favore il vestito in tintoria, accertandosi che lo stirassero come si deve … Senza parlare naturalmente della camicia e della cravatta comprate in Galleria il venerdì, e sistemate sulla poltrona, già pronte per essere indossate al momento di mettersi in viaggio. E che non abbia battuto ciglio, vedendolo tornare a casa il pomeriggio coi capelli freschi di taglio, shampoo e frizione? Che non abbia riconosciuto il taglio perfetto di Modaveri, il re incontrastato dei parrucchieri del centro, quello da cui lui non andava più dai tempi dei loro appuntamenti da fidanzati. “ Chissà, forse si tratta soltanto di una raffinata strategia psicologica: a volte per una donna accordare una fiducia talmente incondizionata al suo uomo si rivela in realtà il metodo più efficace per legarlo a sé, facendolo sentire costantemente sotto esame da parte della propria coscienza. “ Un sospetto più che legittimo per tutti, ma non per lui, che per oltre quindici anni ha avuto modo di sperimentare il coerente, candido e incondizionato amore di Teresa.

Cinquanta chilometri dall’aeroporto, adesso. Che vuol dire più o meno mezzora, manovra di parcheggio compresa. Altri quaranta minuti prima dell’atterraggio del volo sul quale viaggia Elisa. Quindi in tutto poco più di un’ora prima dell’incontro che, comunque vada, inciderà profondamente e irrevocabilmente il destino di tre persone.

Si ritrova fermo nello spiazzo dell’autogrill senza neppure sapere come e perché. Realizza che nonostante la stanchezza non è di un caffè che sente la necessità più immediata. Scende la scala che porta ai servizi, lascia cadere una banconota nel cestino della custode, poi si dirige subito al grande specchio che sovrasta i lavandini. Aggiusta il nodo della cravatta, liscia le pieghe della giacca e dei pantaloni, col pettine cerca di rimettere a posto, almeno per quanto possibile, la costosa opera di Modaveri. “I primi tre secondi”, gli suggerisce la voce da manager che troppo spesso ormai si sostituisce alla sua, e che gli parla dentro giorno e notte, senza pause per le feste. “ Sono in assoluto i più importanti quando incontri qualcuno.” Subito dopo estrae per l’ennesima volta dal portafoglio (dallo scomparto segreto) la foto di Elisa che porta sempre con sé. La guarda, e come sempre succede, sente il cuore accelerare i battiti. – Sei bellissima, angelo mio, e tra poco saremo insieme. – mormora, non abbastanza a bassa voce per impedire che il ragazzo che si sta lavando le mani accanto a lui si volti a guardarlo con l’espressione intimidita di chi s’interroga su quanto possa essere pericoloso un folle. “ Ma Teresa … ” non può fare a meno di chiedersi Valerio, mentre riallaccia la cintura di sicurezza, e il motore ronfa tranquillo in folle. “ Cosa dirà Teresa quando lo saprà? “

E’ incappato in un traffico imprevedibilmente intenso, nell’ultimo tratto di strada, e anche trovare un posto nel parcheggio dell’aeroporto non è stato poi così facile. Così adesso si deve affrettare nei lunghi corridoi, è costretto a camminare veloce sui nastri trasportatori troppo pigri, se non vuole rischiare di arrivare in ritardo. Cioè proprio l’ultima cosa che avrebbe voluto fare, affannarsi fino all’ultimo istante, perdendo così il piacere intenso e struggente dell’attesa di un momento magico e irripetibile, per quanto breve. E’ uno slalom concitato tra centinaia di passeggeri in attesa, e i loro bagagli, scandito dagli annunci quasi incomprensibili degli altoparlanti che annunciano decolli, atterraggi e imbarchi. Poi finalmente in lontananza lampeggia l’incredibile rosso dei lunghi capelli della dottoressa Connors. La riconosce da lontano tra tanti e fra tante, col suo volto da fotomodella, le gambe lunghe, un fisico da schianto e l’eleganza sobria della donna in carriera. In realtà lei è una giovane e promettente pediatra, ma chi potrebbe indovinarlo, a vederla così? Una donna intrepida che, per svolgere la sua opera di medico volontario in uno dei Paesi più poveri d’Africa, a trent’anni ha rinunciato a una promettente carriera, abbandonando da un giorno all’altro la fresca cattedra e il prestigioso studio nel centro di Dublino, allestito dal padre apposta per lei. Anche lei l’ ha visto, un largo sorriso le scompiglia allegramente le lentiggini così deliziosamente irlandesi, mentre agita in alto il braccio in segno di saluto.

Valerio si ferma sul posto, stordito e confuso. Il salone, i bar, le botteghe stipate di giornali, profumi, cravatte, cinture e souvenirs scompaiono insieme alla gente che lo circonda, inglobati dalla nebbia chiara che ottenebrandogli la mente impedisce la formulazione di idee che conservino un minimo di coerenza. “Possibile che sia venuta dal Burkina Faso da sola?” si chiede, incapace di accettare quell’ipotesi, cercando non senza difficoltà di non cedere al panico che, salendo in una gelida spirale dalle gambe, gli paralizza i movimenti e gli tronca il respiro. Subito dopo però comprende che per trovare quello che cerca deve soltanto spostare lo sguardo appena più in basso, accanto alla donna: lì c’è una bambina di otto anni dalla pelle color cioccolato, con un vestito a quadretti bianchi e blu, i capelli acconciati in una miriade di treccine, che lo fissa con gli enormi occhi scuri spalancati. Compostamente seduta sulla sedia a rotelle, gli sta facendo timidamente ciao anche lei.

– Elisa! – urla Valerio, con tutto il fiato che ha in corpo. – Papà. – gli risponde la bambina, balbettando quell’unica parola così piano che lui, ancora lontano com’è, può soltanto leggerglielo sulle labbra. Quasi inciampa in un borsone da viaggio, mentre riprende a correre verso di loro per superare quegli ultimi quindici metri, un’altra valigia la salta come se fosse un ostacolo sulla pista di atletica.

Vorrebbe trasformare in parole tutto quanto gli vortica nella mente e nel cuore, vorrebbe abbracciare quella meravigliosa creatura e stringerla forte al petto. – Il viaggio è andato bene, Dottoressa? – invece è tutto ciò che gli riesce di dire. – Ci sono trecento chilometri da Bobo Dioulasso all’aeroporto di Ouagadougu, lo sa bene anche Lei, Mister Galanti, e non si tratta esattamente di un’Autostrada. – gli risponde la giovane donna, nel suo italiano deliziosamente farcito di risonanze britanniche. – E nelle condizioni di Elisa … – aggiunge subito dopo, appendendo un sorriso in fondo alla frase. – Vuole dire che … – – No, stia tranquillo, non ci sono stati particolari problemi. E’ una bambina molto coraggiosa. – – Sì, lo so. – Si china a carezzare la piccola malata, e lo fa con delicatezza persino esagerata, come se avesse paura di infrangere in qualche modo quell’incanto.

La opereranno in settimana a Milano, cercando di eliminare la malformazione congenita che le sta sgretolando il minuscolo cuore. Forse l’intervento riuscirà perfettamente (Valerio ha pregato tanto per questo) e una giovane vita riprenderà subito a germogliare, com’è giusto e naturale che sia alla sua età. Elisa tornerà finalmente a sedersi al suo banco, tra i compagni di classe, nella scuola costruita e gestita da Alpha Solidarité. Forse invece la piccola non ce la farà, e la sua anima salirà al cielo per andare a ricongiungersi con quelle di milioni di altri piccoli martiri della fame e della miseria. La sola cosa di cui è certo Valerio è la dolce violenza con cui lei ha saputo penetrargli nel cuore da quando l’ha scelta, la più indifesa e malata tra indifesi e malati, per l’adozione a distanza. Bella, così incredibilmente bella, molto di più di quanto gli era apparsa nell’unica foto in cui aveva avuto modo di vederla.

Basta premere sul cellulare il tasto col telefonino verde, per ripetere l’ultimo numero composto e chiamare casa. – Sono Valerio. – dice, trattenendo un’emozione che troppo presto sarebbe tentato di sciogliere in lacrime. – Quel figlio che aspettavamo, Teresa … che volevamo così tanto e che non ci è mai arrivato … è appena atterrato all’aeroporto. –

FINE (ma continua a leggere … il bello viene adesso!)


Ho voluto dedicare questo racconto al CIAI (Centro italiano aiuti all’infanzia) via Tertulliano, 70, 20137 Milano. Per saperne di più scrivi a info@ciai.it (sito internet www.ciai.it ) oppure chiama allo 02/540041 o al numero 848-848.841 (al costo di un solo scatto in tutta Italia e per tutta la durata della conversazione

Nota dell’autore: Il CIAI dal 1968 difende il diritto di ogni bambino, ovunque sia nato, a crescere nell’amore di una famiglia. Ogni anno sostiene i bambini del mondo attraverso oltre 5000 Sostegni a Distanza e ne previene l’abbandono con progetti rivolti alle loro famiglie in Burkina Faso, Etiopia, Ruanda, Cambogia, India e Romania. In trent’anni di vita ha anche dato a 1500 bambini una nuova famiglia in Italia, difendendo la centralità del bambino nell’Adozione Internazionale E poi, corsi di formazione per le famiglie e gli operatori, campagne di sensibilizzazione contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e numerose pubblicazioni per dire con fermezza che UN BAMBINO E’ UN BAMBINO IN TUTTO IL MONDO Senza il tuo aiuto tutto questo sarebbe impossibile! Sostieni l’impegno del CIAI e aiutalo a dare un domani a questi bambini. Puoi scegliere tu: 10, 25, 50, 300, 1.000 Euro… qualunque sia il tuo contributo, è il segno tangibile della tua amicizia e può rendere migliore il presente e il futuro di tanti bambini.

… perché non c’è modo migliore di dimostrare e di donare amore!

Buon Natale, buon 2004, buona vita … a tutti i bambini del mondo.

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