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Icaro

– Paolo! Rientra, per favore – urlava nonna Carmela. Lui sarebbe pure rientrato. Stare su un cornicione al settimo piano e soffrire di vertigini non è il massimo della vita. Solo che c’era un problema. Nonna Carmela era morta da un mese d’infarto e l’aveva vista coi suoi occhi quando l’avevano chiusa nella bara. Scosse la testa, riflettendo, poi con un’alzata di spalle decise che forse questo non era così importante, e che sarebbe rimasto fuori ancora per un po’. Certo che tirava un bel venticello, lassù, e le antenne della TV oscillavano a destra e a sinistra chiamandosi l’una con l’altra nel loro linguaggio misterioso e segreto fatto di vibrazioni e cigolii metallici. La più alta era quella della famiglia Rossitti: una volta fatto l’abbonamento a Telepiù il sig. Paolo (il tizio pieno di tic che quando c’erano le riunioni di condominio tirava sempre fuori un lavoro nuovo da fare, perché lui era geometra e queste cose le sapeva, e suo cognato aveva un’impresina che con poca spesa …) non si era voluto rassegnare al fatto di abitare in una zona disgraziata, dal punto di vista televisivo, e pur di poter vedere almeno le ombre dei calciatori, al posticipo della domenica sera, piano piano aveva tirato su un traliccio che per forma e dimensioni ricordava in modo inquietante la Tour Eiffel. A parte il freddo, e la paura del vuoto, ciò che più dava fastidio a Paolo era d’essere a piedi nudi, soprattutto per la circostanza che i cornicioni sono posti molto frequentati dai piccioni, e si sa che quelli sono bestie insolenti e maleducate, quando gli scappa gli scappa, e non vanno tanto per il sottile. – Allora, Paolo! Ho già messo la cena in tavola! – provò ancora la nonna, e stavolta Paolo fu tentato davvero di rientrare, anche se più dei richiami, ad agganciarlo era stato il delizioso profumo della parmigiana di patate. Capì che se avesse esitato ancora alla fine avrebbe finito per rinunciare, e sarebbe ritornato mestamente al davanzale della finestra e, dal davanzale, in casa. Così, tirato un profondo respiro e preso il coraggio per i capelli, spiccò il salto nel vuoto. Doveva battere le braccia, con movimenti ampi e profondi, ma non frenetici, accompagnando il gesto con la ritmica spinta delle gambe, un po’ come quando stai nuotando, ma con la differenza che per volare è necessario che tu senta dentro di te d’essere diventato davvero più leggero dell’aria … Ma che tu non abbia mai, mai, e poi mai paura di cadere! Era un po’ di tempo che non lo faceva, cosicché all’inizio Paolo faticò alquanto a governare le traiettorie aeree, e ci mancò meno d’un pelo che non finisse con l’impigliarsi nei fili stesi tra le finestre ad angolo della signorina Milvia. Non che gli sarebbe dispiaciuto moltissimo, per dir la verità, perdersi in quella moltitudine di mutandine e reggiseni di pizzo, di calze e sottovesti trasparenti, dove avrebbe respirato, lo sapeva bene, il profumo di gelsomino e di femmina che con così poca parsimonia effondeva intorno a sé quella splendida donna in fiore … Ma il pensiero della professoressa Bruni che si affacciava dal balcone del soggiorno sorprendendolo così combinato, scrutandolo di traverso con lo sguardo riservato in classe agli alunni che scopriva impreparati alla lavagna, lo convinse rapidamente a esibirsi in una plastica virata e a puntare in alto, verso l’attico dell’avvocato Pedroli. Eccolo lì, il principe del foro, intento a godersi beato il fresco della sera in terrazzo, circondato dai suoi fiori, in calzoncini hawaiani e Lacoste celeste, regalmente affondato in una elegante e comoda sdraio ergonomica. Sorseggiando con voluttà un cocktail talmente guarnito da ricordare un angolo di foresta tropicale, sfogliava pigramente una rivista illustrata tenuta aperta in grembo. Paolo si fermò, appeso al parapetto come se fosse il bordo di una piscina: aveva sempre ammirato la classe dell’avvocato, i suoi vestiti fatti su misura, le cravatte di Gucci, le morbide scarpe d’alce e la Mercedes grigia metallizzata. Insomma, un bell’uomo abbronzato d’estate e d’inverno, illuminato da dentro dalla nobiltà della cultura, del potere e dei soldi. Ma la luce rossastra e obliqua di quell’interminabile tramonto era ancora sufficiente perché Paolo, che aveva sempre avuto dieci decimi, potesse distinguere la copertina di ciò che stava leggendo l’eminente signor Pedroli. KIDS era il nome della rivista, e sotto la testata, stampate su costosa carta patinata, spiccavano foto di ragazzini nudi ritratti in pose oscene e … Un incombente conato di vomito gli fece perdere l’equilibrio, precipitandolo nel nulla, e solo all’ultimo istante, poco prima di spaccarsi il cranio contro la ringhiera del balcone del secondo piano, Paolo ricordò di conoscere l’arte di volare, raddrizzandosi con un abile giravolta e planando dolcemente verso la strada. Solo che non era proprio la serata giusta, evidentemente, perché giù c’era il ragionier Tajani, che passeggiava con il walkman sulle orecchie, sparandosi in vena rap a tutto volume, e chissà cosa avrebbe detto vedendolo atterrare così sul marciapiede. E fosse stato da solo, almeno! Invece no: i suoi cani, due dobermann muscolosi e feroci, neri come le ore di mezzo di una notte nuvolosa e senza luna, trotterellavano intorno annusando qua e là per stabilire quali fossero gli angoli più adatti per marcare il territorio. Lo sentirono subito, alzando verso l’alto occhi tanto brillanti da forare l’oscurità incipiente della sera e zanne incredibilmente bianche e appuntite. Lo aspettavano senza abbaiare (quegli assassini non gradiscono irritarsi la gola, prima di uccidere), ma accompagnando la lenta discesa di quel succulento boccone con un ringhio sordo frammezzato da guaiti acuti e impazienti. – Eilà, non sono mica la vostra bistecca! – protestò Paolo, scalciando furiosamente e riuscendo infine a frenare a neppure un metro dalle fauci spalancate. Riprese lentamente quota, esausto, e improvvisamente il richiamo della parmigiana di patate si fece irresistibile: rientrò dalla finestra del bagno, che aveva lasciata accostata. Tirò lo sciacquone, tanto per dare un tocco di classe a tutta la storia, lavò diligentemente le mani con una delle saponette alla rosa comprate alla Standa, nei sacchetti da dieci, poi girò la chiave nella toppa e come se niente fosse si incamminò lungo il corridoio. – Sono qui, nonna. – annunciò, facendo il suo ingresso trionfale in sala da pranzo. La tavola era apparecchiata con la tovaglia azzurra dei giorni di festa e il servizio di porcellana con i fiorellini lillà che piaceva tanto a Paolo. – Buon compleanno, tesoro. Mangia tutto tu, io non ho appetito, stasera. – lo accolse con la cara dolce voce sdentata nonna Carmela, sollevando il busto dalla cassa di mogano foderata di velluto rosso adagiata sui cavalletti accanto al divano. Paolo trovò la cena effettivamente deliziosa.

Il soffio continuo e monotono del respiratore artificiale si accompagnava benissimo al ronzio elettrico delle altre apparecchiature che, attraverso gli aghi infilati un po’ dappertutto nel corpo di Paolo, lo mantenevano in vita da quasi dieci anni. I medici avevano detto che era stato un miracolo che fosse sopravvissuto a un incidente del genere: lo scontro frontale di un motorino contro una betoniera pesante parecchie tonnellate, una sfida che di solito non lascia speranze. Era successo il giorno in cui la Signora Maria, la donna che tre volte a settimana andava a fare le pulizie, aveva trovato sul tappeto finto persiano dell’ingresso la vecchia Carmela, fulminata dallo scoppio dell’aorta. Il padre e la madre di Paolo se n’erano andati quando lui frequentava ancora le scuole medie, visitati e fagocitati a un anno di distanza l’uno dall’altra dallo stesso indesiderato ospite: un carcinoma allo stomaco, piuttosto aggressivo e fetente. Quindi, poiché la nonna era l’unica parente che gli era rimasta al mondo, com’era logico che fosse il ragazzo era andato a vivere a casa sua: affezionandosi a lei sempre di più, scoprendo nell’anziana donna, giorno dopo giorno, una creatura energica e tenera allo stesso tempo, in possesso, al di là dell’enorme differenza d’età, della sensibilità necessaria per comprendere e condividere i suoi problemi d’adolescente. Ci sono diversi modi di dare una brutta notizia, e quel mattino piovoso, che puzzava prematuramente d’inverno, era stato scelto il peggiore: durante l’ora di geografia era entrato in classe il bidello che, con aria circospetta, aveva sussurrato alcune parole all’orecchio dell’insegnante, svignandosela il più in fretta possibile dalla porta lasciata socchiusa. Il professor Grimaldi si era passata la mano sulla fronte, poi, gravemente, con lo sguardo diretto al pavimento, si era rivolto agli alunni: – Ragazzi, è successa una cosa molto triste, per la quale vi chiedo di stare vicini al vostro compagno. Pasini, ascolta … – “ Pasini? Sono io, Pasini! “ era stata l’unica cosa che aveva pensato Paolo prima di alzarsi, comprendendo ogni cosa all’istante, sgusciando in fretta dal banco senza nemmeno raccogliere lo zainetto, correndo via schivando le braccia protese del professore, verso il cortile, verso il suo Ciao incatenato ai tralicci del canestro nel campo di basket.

Si era risvegliato sei mesi dopo l’incidente. La prima cosa che aveva visto era stato il volto di un’infermiera bionda, bello come quello di un angelo. Ma non aveva creduto di essere in paradiso: nello stesso momento in cui aveva ripreso conoscenza aveva lampeggiato, nitidissimo, il ricordo del mostro d’acciaio che usciva dalla curva, proprio sulla sua direttrice di marcia. Aveva stretto i freni così forte da capire,prima dell’impatto, d’essersi slogato invano un polso. – Che ore sono? – avrebbe voluto chiedere all’angelo. – Quanto tempo ho dormito? – ed era stato lì che si era accorto di non riuscire a parlare, e che, quando aveva tentato di sollevare il capo, aveva verificato per la prima volta che non succedeva proprio niente. Ma si sa che le creature celesti, siano serafini o cherubini, hanno il potere di leggere nel pensiero, perché, stando a quel che si dice, ne ricevono la delega direttamente da Dio.

– Non posso crederci, ti sei svegliato, alla fine! E’ un evento prodigioso, un miracolo! Ricordati bene la data di oggi: ore 10 del mattino del 17 marzo 1987 … – aveva quasi gridato lei, incredula. Ma più incredulo di lei era rimasto Paolo, visto che l’incidente era capitato il 26 settembre dell’anno prima. – Certo che ti sei fatto un bel sonnellino. Aspetta qui, caro, e non muoverti … – Le mani a schermare il volto improvvisamente imporporato dalla gaffe piramidale. – … ehm, scusami, non so più neanch’io quello che dico. Vado subito a chiamare un dottore. – E prima che si allontanasse, Paolo aveva fatto in tempo a notare due lacrime affacciarsi dagli occhioni lucidi.

Quando i medici gli avevano detto quali erano e quali sarebbero state, fino alla morte, le sue condizioni, Paolo l’aveva già capito da un pezzo: spina dorsale spezzata, paralisi totale e irreversibile. L’unica cosa che da allora l’aveva tenuto attaccato a quella specie di vita era stata l’estrema risorsa di potere flippare via con le sue fantasie oniriche ogni volta che lo desiderasse. C’era il sogno di guerra, in cui lui era il comandante di un esercito invincibile che con imprese mirabolanti sistemava tutte le ingiustizie del mondo, punendo dittatori e politicanti malvagi e corrotti. Poi c’era il sogno d’amore, naturalmente con Angela (per ironia della sorte, si chiamava proprio così!), la dolce infermiera: mille passioni travolgenti, mille vite felici vissute insieme, in ogni epoca e sotto ogni latitudine. E l’esploratore, l’investigatore, l’astronauta, il grande maestro di scacchi … Ma era il sogno del volo, quello che lo prendeva di più.

Che cominciasse sul cornicione di casa, sulla cima di un monte, sulla sommità di una torre … era sempre il più affascinante, perché poi non era Paolo a governarlo, come le altre fantasie, ma, sempre diverso, andava avanti ogni volta secondo un disegno che sembrava sfuggire completamente al controllo della volontà: spesso assolutamente surreale, talvolta triste, talvolta persino angoscioso, ma proprio per questo più simile alla vita vera. Un moscone nero e carnoso ronzava più forte delle macchine che da tremilacinquecento giorni si sostituivano a reni, cuore e polmoni. Stava arrivando la primavera, e l’insetto era molto indaffarato nelle sue faccende, così come vuole natura. Passò e ripassò a pochi centimetri dalle pupille sempre aperte dell’uomo immobile nel letto. Poi gli si posò sulla punta del naso. “ Tutti i miei sogni darei. “ pensò Paolo. “ Tutti. Solo per poter muovere le labbra una sola volta e scacciarlo via di lì con un soffio. “ Ma non poteva farlo, naturalmente. Poi il moscone spiccò ancora il volo. Paolo lo seguì con lo sguardo, finché fu nel suo campo visivo. Per ritrovarsi alla fine, ancora una volta, a fissare l’intonaco bianco del soffitto. “ Sono io, quel moscone. “ decise. E ripartì l’antico mito di Icaro.

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Patrizio Pacioni

Buon compleanno!

Cinquant’anni! Erano un traguardo importante, una specie di giro di boa al quale si arriva una sola volta nella vita. Non che Benigno e Massimo fossero gente di mare, benché avessero imparato a nuotare fin da ragazzi; né sorrideva loro l’idea che verosimilmente si trovavano a metà del proprio percorso esistenziale. Tuttavia era un dato di fatto: secondo le statistiche era già ottimistico considerare l’età raggiunta come l’apice della curva della vita e la cifra tonda si prestava inevitabilmente a due attività: un bilancio degli obiettivi raggiunti ed un festeggiamento in grande stile. Per quanto riguarda il primo punto, era stato Benigno a nominarlo in quel modo. Affermato manager a livello internazionale, gli capitava spesso di farcire i discorsi di tutti i giorni con il linguaggio professionale. Massimo allora, piccolo imprenditore di successo, l’aveva guardato con tanto d’occhi e aveva arricchito il programma di quel secondo goliardico elemento: “Sì, ma dobbiamo anche divertirci alla grande!”. Del resto i bilanci furono presto fatti. Entrambi godevano di un agiato tenore di vita, alimentato da una proficua remunerazione lavorativa, e avevano da tempo messo su una bella famiglia in cui si respirava la vicinanza autentica degli affetti. Non rimase quindi che dedicarsi al secondo punto, ma la scelta non fu semplice: “Un viaggio al Polo!” “Un safari!” “Una mega-abbuffata!” “Un’orgia!” Molte idee rimbalzarono tra loro, ma nessuna fu giudicata abbastanza speciale; nessuna avrebbe dato loro la potente scarica adrenalinica che cercavano nel singolare festeggiamento; nessuna sarebbe riuscita a rappresentare il senso di ebbrezza e di sospensione, provato col raggiungimento della significativa pietra miliare sulla strada partita nel lontano 1963. “Affrontiamo il cielo!” propose alla fine Benigno. È vero che Massimo aveva al suo attivo due o tre lanci nel corpo dei paracadutisti durante il servizio militare, ma erano un ricordo ormai sfuocato, un’esperienza vissuta troppo in fretta, sotto il segno dell’incoscienza giovanile. È vero anche che Benigno viaggiava spesso in aereo per affari, ma si trattava solo di una comoda situazione salottiera da business class. Entrambi quindi convennero sull’insolita trovata, rispondendo d’istinto al richiamo di quell’autentico elemento primordiale: l’aria. “E che ci vuole?!” commentò in modo sprezzante Benigno per fare coraggio ad entrambi ed affrontare il vuoto apparente del cielo. L’amico sorrise con ostentata sicurezza. Fu così che i due uomini con i piedi ben piantati per terra e già visibilmente stagionati dal tempo, si ritrovarono rispettivamente l’uno appeso alle funi di un parapendio, l’altro attaccato alla barra di un deltaplano.

“È fantasticooooo” urlò Benigno all’amico, nell’auricolare del telefonino che avevano deciso di tenere reciprocamente in comunicazione. Si era appena buttato dal pendio arrotondato della base di lancio con quella specie di paracadute e già le correnti ascensionali gli avevano fatto capire che là, a differenza di ciò che accadeva nel suo lussuoso ufficio, non sarebbe stato il solo a dirigere il gioco. “Non mi parlare proprio adesso, sono troppo concentrato.” rispose Massimo pilotando quella moderna versione della macchina volante leonardesca, che si era appena staccata dalla rampa di legno affacciata sulla profonda vallata sottostante. Avevano scelto di compiere l’impresa in un luogo del cuore: l’incantevole conca alpina che li aveva ospitati per molte vacanze estive e nella quale avevano fondato affetti, amicizie … e non solo. Tra i campi adatti al pascolo ed al foraggio, gli schiumosi torrenti e le folte pinete alcuni paesi si mimetizzavano come lastre rocciose con i loro tetti in beola: in uno di quelli si trovavano le case di entrambi, ospitali proprietà, simbolo dello status economico raggiunto dai due uomini di mezza età. I due ammirarono il ben noto panorama, che non avevano mai potuto godere da un punto d’osservazione così privilegiato. I variopinti elementi umani del paesaggio e quelli naturali con la loro prevalenza di grigio, azzurro e le mille tonalità di verde si mescolavano così amabilmente nella visione d’insieme che ai due sorse spontaneo un commento estatico. Ecco che cosa poteva aggiungere il volo, quello vero, alla loro vita, spesso orientata secondo un’ottica prevalentemente orizzontale: una nuova prospettiva da cui guardare le cose. Né mancarono altre intense emozioni. L’energica scossa vitale che speravano di ricevere dall’esperienza non tardò a pervadere il loro corpo teso, nella forma di un’istantanea e magnifica sensazione di eccitata vertigine. Se non fosse stato per il corso di volo simulato, frequentato in un moderno centro d’addestramento, i due avrebbero provato solo panico e terrore; ma le competenze acquisite nelle torri d’aria e nei tunnel del vento artificiali diedero ai due novelli Icaro sufficiente controllo d’assetto e di guida. Inoltre, l’abbigliamento tecnico delle migliori marche, acquistato per l’occasione, conferì a quella sorta di ex-atleti un aspetto talmente sportivo che perfino loro finirono per credere alla virtù intrinseca di quel travestimento “da esperti”. Assunta infatti una posizione sicura, iniziarono a percepire lo strumento di volo come un’espansione del proprio corpo. Ogni fune, ogni leva, ogni lembo di tessuto gonfiato dalla resistenza dell’aria, particolarmente fresca a pungente a quell’altitudine, divenne un organo meccanico-anatomico adatto agli spostamenti nel cielo.

Le loro abilità di conduzione dei rispettivi mezzi aerei si rivelarono inizialmente all’altezza della situazione. Lo scetticismo sulla modalità di conseguimento del brevetto, non troppo velatamente manifestato dagli altri amanti del cielo che avevano preso con loro l’impianto di risalita, sembrò da principio solo suggerito dalla nefasta ispirazione di qualche uccellaccio del malaugurio. “Un corso simulato?” avevano commentato “Vedremo come ve la caverete nella realtà!”. Ma il loro legittimo sospetto sembrò purtroppo rivelarsi profetico dopo pochi minuti dal decollo. Improvvise ed inaspettate folate di vento iniziarono a sbalzarli in tutte le direzioni, obbligandoli a bruschi cambiamenti di rotta. “Che cosa succede?” chiese Massimo a Benigno, sentendone gli urli spaventati nel cellulare. “Non riesco più a governarlo! Le raffiche sono troppo potenti!” si allarmò quello. Ma di lì a poco la stessa sorte toccò all’altro. “Aiuto. Neanch’io riesco più a virare verso terra!”. Le correnti presero infatti a spingere entrambi verso l’alto, sotto gli sguardi attoniti e increduli degli altri frequentatori del cielo, che non capivano se i due fossero dei temerari o degli sprovveduti. Per alcuni interminabili minuti la situazione sembrò irrecuperabile e del tutto fuori controllo: i due inesperti piloti non potevano far nulla se non assecondare i capricci di quel bizzarro vortice ascensionale, che li fece turbinare verso gli strati più alti della troposfera. Le immagini piacevoli e solari delle planate iniziali lasciarono il posto al minaccioso roteare sotto i loro occhi di tutti quegli elementi montani, prima così stabilmente ameni e tranquillizzanti. Benigno e Massimo pensarono allora di non farcela. Chiusi in una solitaria disperazione, annullarono la comunicazione tra loro, lasciando echeggiare solo le sonore imprecazioni individuali contro la propria avventatezza e la malasorte, raccomandandosi a sprazzi alla protezione di qualcuno che, se c’era, stava ben oltre la ionosfera. Poi di colpo la situazione si capovolse. Un istantaneo e deciso movimento discendente dell’aria modificò radicalmente la forza della portanza sulle proprie superfici di volo e i loro essenziali velivoli iniziarono a perdere velocemente quota. Allora Massimo e Benigno si ripresero d’animo e diressero prontamente i leggeri apparecchi verso il basso, riuscendo a sfrecciare obliquamente tra gli eterei e lattiginosi cirri. Capirono ben presto però che a quella velocità l’impatto l’atterraggio sarebbe stato rovinoso e i primi sospiri di sollievo, accompagnati dalla ripresa di scambi di incoraggiamento reciproco, si trasformarono in una nuova solipsistica sequenza di irripetibili invettive contro tutto e tutti. I due amici arrivarono perfino a dubitare della protezione e della benevolenza da parte degli abitatori delle più alte sfere celesti, che forse li stavano abbandonando ad un destino crudele.

Fu allora che Benigno e Massimo scorsero qualcosa di stranamente animato e dinamico nell’aria intorno a loro. Una specie di grande figura umana incolore, dai tratti non pienamente definibili, apparve e scomparve ora più nitida, ora più evanescente. Come uno spessore di materia aeriforme, si delineò sullo sfondo della vallata sottostante, pur rimanendo trasparente e di una consistenza plastica. “L’hai visto anche tu?” chiese uno dei due all’altro, che annuì incredulo con un filo di voce. “Che cos’era?” incalzò allora il primo. “Non lo so. Forse …” esitò il secondo non sapendo dare altra spiegazione “lo Spirito dell’aria.” Non ne discussero per cellulare. Era troppo per due esseri umani così radicalmente piantati nella concretezza della realtà quotidiana. Ma non ebbero neppure la sfrontatezza di rinnegare l’incredibile eppur realistica e comune visione, che avrebbe potuto trovare facilmente spiegazione razionale nello stato di panico totale in cui essi versavano. Ma a sostegno della vista, arrivò subito dopo un’inaspettata esperienza uditiva. Una specie di sussurrata e sibilante interferenza si intrufolò con due sole parole negli auricolari, ripetendole alcune volte fino a dissolverle in una debole e bonaria risata. “… leggerezza … gravità … leggerezza … gravità …” Udito quella specie di sospiro parlato, la situazione si normalizzò all’istante ed entrambi ripresero facilmente il controllo del parapendio e del deltaplano, iniziando le manovre di discesa. Se quello era davvero lo Spirito dell’aria, allora era stato lui a prendersi gioco di loro o più probabilmente aveva voluto semplicemente giocare i due nuovi ospiti. Forse, più semplicemente, il suo intervento era stato animato dal desiderio di mostrare loro le due potenti, opposte e complementari tensioni del volo, che insieme sostengono e precipitano ogni essere che affronta il cielo. Atterrare con quella nuova consapevolezza, significò per Benigno e Massimo aver imparato davvero qualcosa, grazie a quell’esperienza.

Appena toccarono il suolo, i due si scambiarono un’occhiata e fu come se avessero capito in quel preciso istante la lezione: le due facce dell’essere irreale erano le stesse presenti nella vita di tutti i giorni. Il peso dei gravi ruoli sociali in contrapposizione al sollievo degli affetti personali. Forse la loro equilibrata miscela dà senso all’esistenza. A quel punto della loro vita, rassicurati dalla morbida carezza del terreno sotto le suole, capirono di aver ricevuto un regalo degno del loro festeggiamento e alzarono lo sguardo al cielo con un senso di gratitudine. Sciolti moschettoni e funi che li tenevano ancora agganciati all’atmosfera, si abbracciarono, confessandosi tacitamente gli stessi pensieri. La folla di parenti e amici si avvicinò intanto ignara e festaiola, accogliendoli con un applauso e un grido corale di nuovi felici auspici: “Buon compleanno!”


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Roberto Morgese

A te

Parlami di te dicevi … ed io ti parlavo dei miei risvegli sempre uguali, delle mie abitudini suddivise in ore. La tazza fumante del caffè al mattino gustato a poco a poco, mentre socchiudendo gli occhi catturavo tra le ciglia i colori dell’arcobaleno attraverso la scia del primo sole che penetrava i vetri come spada infuocata. Del malumore mentre il giorno andava, della stanchezza quasi disumana quando sforzavo il mio corpo a compiere lavori che mi affaticavano, lavori capaci di piegarmi, per punirmi quasi e non pensare a nulla.

Non ho mai capito se il tuo passaggio nella mia vita, è stato come quel sole di primo mattino o neve d’inverno che scioglievo di tanto in tanto fra le mie labbra nelle stagioni avvenire. Ho imparato a non perdere nemmeno un istante dei giorni sbiaditi, della routine, il solo pensiero che esistevi da qualche parte in questa nostra penisola mi dava la forza e la voglia di combattere, sebbene, mai ti ho potuto guardare negli occhi davvero.

Ti ho conosciuto lungo la via di parole sovrapposte che hanno riempito intere pagine di un indirizzo e-mail. Mi hai insegnato ad amare il prossimo più di quanto io già l’amassi, per le tue missioni di pace nel continente più povero di questo nostro globo terrestre, parlandomi di bimbi smunti e occhi sgranati per un tozzo di pane mancato e, di quella fame d’acqua mai conosciuta sulla mia pelle. Quante volte ho pensato di lasciare l’inutile involucro dove mi sono racchiusa e seguirti. Seguire i tuoi voli pindarici, le alte quote, quando con il tuo velivolo varcavi il confine che ti avrebbe portato lontano dalle nostre comunicazioni. Quante volte avrei abbandonato questa mia scialba vita per un solo giorno valoroso come il tuo, servito a qualcosa e a qualcuno.

Raccontami di te dicevi sempre … ed io ti inventavo aneddoti già trascritti perché non avevo niente da raccontare, se non dei miei momenti grigi, dei miei cammini dentro cunicoli bui come fossi una talpa cieca con gli occhi imbottiti di terra. Non vedevo nulla davanti e do ancora adesso per scontato che niente di positivo accadrà a questa mia vita, niente capace di scuotermi la terra di dosso. Fermando le tue parole, hai fermato il ritmo biologico del mio essere, mi stringo nelle mie stesse braccia per non sentirmi sola e, cerco nel mio cuore uno spiraglio d’amore per le cose del mondo. Se adesso tu sapessi di questa lettera, saresti adirato per il mio pessimismo, mi colpevolerizzeresti facendo divenire peccato queste parole, dibatteresti dicendomi che non conosco le ragioni vere di quanto un uomo possa scendere in basso prima di rialzarsi, mi colpevolerizzeresti per averti detto mille volte scrivimi ancora pur sapendo che il tuo tempo non può fermarsi davanti ad un uomo soltanto. “Egoista” diresti, ed io ti darei ragione nel giudicarmi così. Parlami di te dicevi sempre… ed ora non so che dirti, se non scriverti questa lettera pur sapendo che sei lontano dalla tua isola assopita in mezzo al mare. Ed io, oggi qui, persa nei miei pensieri ho raggiunto la nostra luna, la luna che ci ha permesso di vivere i nostri sogni.

Abbiamo camminato sul suo suolo polveroso e argenteo leggeri e sospesi come nuvole. Eravamo luce, eravamo aria, mentre il mondo girava ancora mostrando i suoi lati spigolosi e facce strategiche nonostante sia rotondo. Sono qui su questa luna, dove il sole non arriva come spada infuocata attraverso i vetri. Sdraiata, con gli occhi verso l’alto, tendo l’orecchio a questo silenzio che mi opprime e, aspetto …

Aspetto il tuo velivolo che faccia ritorno verso casa.


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Maria Morabito

Il pilota

Da bambino non ero come gli altri bambini che trascorrevano i giorni dietro la gonna della madre e mangiavano pane bagnato con lo zucchero. Io mi allontanavo sempre da casa, andavo per vie sconosciute sicuro di me e della via di ritorno sui miei passi.

C’era un posto dove potevo sdraiarmi indisturbato e guardare il cielo, era un campo di papaveri così alti e così tanti che da lontano apparivano ai miei occhi come un immenso tappeto rosso.

Ogni volta prendevo la rincorsa, convinto infatti di sprofondare dolcemente, invece non facevo altro che dividere in due la schiera di papaveri con il mio minuto corpo. Ma era in quel momento che trovavo il mio mondo, laddove nessuno avrebbe osato mai cercarmi, laddove nessuno avrebbe mai rubato i miei sogni.

Ad occhi in su e, con uno stelo di papavero in bocca, seguivo il volo delle rondini, cercavo di immaginare l’emozione che loro potevano provare da quell’altura vertiginosa, a quanto minuscolo poteva apparire quel campo da lassù.

Mi addormentavo quasi sempre, ed ogni volta era ora di cena quando rientravo a casa. Mio padre non alzava mai gli occhi dal piatto, mentre mia madre sbraitava davanti ai fornelli con la pentola della minestra sollevata, a gas spento, senza decidersi di portarla a tavola.

– Niente, non è rimasto niente per te. I tuoi fratelli hanno cenato un’ora fa, ed io e tuo padre ti abbiamo atteso invano. Ecco mangia quel che è rimasto poi vai a letto-.

Non avevo fame, ero sazio d’aria, non avevo sonno perché avevo già dormito abbastanza.

– Diventerai un cardellino se non mangi.

– Meglio, così finalmente potrò volare anch’io.

Era sempre a questa mia risposta che mio padre prendeva parola, ma non avevo il tempo di mettere le ali che già me le strappava.

– In gabbia ti metteremo se diventerai un cardellino, così finalmente smetterai di vagabondare.

Di notte, seduto in bilico sulla finestra, rimanevo incantato a scrutare le miriadi di lucciole. Ogni cosa volava attorno a me, o forse ero io a vedere così, ma la cosa straordinaria era aver scoperto che potevo mettere le ali alla mia fantasia, ed anche il monte più alto potevo raggiungerlo con il mio pensiero.

Di domenica, la sveglia suonava alle 7 in punto. I nonni abitavano in campagna e per arrivarci impiegavamo circa un’ora. Era sacra la domenica a casa nostra, la famiglia doveva riunirsi a qualsiasi costo.

Mio padre era il primo ad attendere sulla porta, giocherellava con l’orologio che portava al polso. La mamma, ansiosa e sudata, dava l’ultimo ritocco ai nostri vestiti, a chi metteva a posto la camicia, a chi allacciava le scarpe, e a me, a me toccava sempre stringere la cintura ed aggiungere un buchino in più talmente ero dimagrito, ma diventare un cardellino e farmi spuntare le ali, oramai era il mio unico scopo di vita.

Arrivati dai nonni, il tempo di un abbraccio e sbirciavo la stradina che portava nel bosco, non vedevo l’ora di scappare, sentirmi libero, tirare fuori dai calzoni la camicia, buttare in aria la cintura, e quando ognuno era intento alle sue cose, cercare il modo per distogliere anche i miei fratelli da me. Ero sempre il primo ad inventare un gioco da condividere con i miei cugini e sempre il primo a dissolvermi senza lasciare traccia. Non dimenticherò mai quel giorno.

Era una domenica del 1967. Mi allontanai forse troppo dall’abitazione dei nonni, tanto da dimenticare nella frenesia di libertà il sentiero di casa. Avevo notato da lontano un albero di pino altissimo, come ipnotizzato divenne il mio punto di riferimento. Era li che dovevo andare quel giorno.

Mi arrampicai come una scimmia, senza mai guardare in basso. Ero convinto che una volta in alto avrei provato l’ebbrezza di un uccello in volo pur non vibrandomi nell’aria. Dio! Era bellissimo. La grande distesa degli alberi di ulivo sembrava disegnata a matita da una linea obliqua. Le querce erano come tanti gomitoli di lana accostati e mischiati di verde chiaro e verde scuro.

Quando scorsi il mare credetti di morire, appariva come un filo sottile, ora si allargava appena, ora si assottigliava, azzurro, ma diverso dal cielo, quel cielo allora misterioso e da esplorare a tutti i costi.

I nonni, genitori e fratelli, urlavano all’inverosimile, le loro voci mi arrivavano triplicate come un eco da tutte le parti, provai a rispondere alle loro urla, ma il rombo di un aereo squarciò la magia che si era venuta a creare. Rimasi senza fiato dalla paura, ma fui come illuminato da qualcosa.

Le mani piene di bolle stringevano il ruvido tronco. Non riuscivo più a scendere. Piansi chiedendo aiuto.

I miei, come spinti da un fiuto segugio, mi ritrovarono.

Li vedevo come dei fiammiferi con la testa dipinta di nero, tra di loro una voce mi arrivava fino agli orecchi, penetrava i timpani, mi rafforzava.

– Il mio bambino. Il mio cardellino, fate qualcosa per il mio bambino.

Povera mamma, quanto dolore le avevo recato quel giorno.

Misero in subbuglio un intero paese.

C’era un bambino incollato ad un albero che non sapeva scendere a terra, ne tanto meno volare.

Di voce in voce, i fiammiferi divennero tanti e, se soltanto uno avesse deciso di accostarsi all’altro per fare qualcosa, sarebbe accaduto il peggio. Ognuno rimase al loro posto, statico ed in silenzio.

Dopo ore interminabili qualcuno gridò: – Buttati adesso,lasciati andare, non ti farai del male.

Provai a guardare giù. Non avrei mai immaginato di poter salire così in alto con la sola forza delle mie braccia.

Un lenzuolo, un cerchio bianco come la neve, una piccola piazza senza giostre, non so cosa era stato per me in quel momento il cerchio della mia salvezza, ma seguii la voce, mi lasciai andare.

Scendevo in picchiata ad una velocità folle, ma non dimenticherò l’ebbrezza di quei momenti.

Atterrai sul bianco giaciglio. Ero a terra, confuso, spogliato dai miei vestiti. I fiammiferi erano uomini curiosi, spaventati. Riconobbi appena i miei genitori tra quei volti sconosciuti.

Mio padre, chino su di me, mi sollevò lentamente, disse: – Visto Che un uomo non può volare? Ti saresti disintegrato come un frutto marcio se soltanto avessi tentato di volare.

Non ascoltavo, non volevo ascoltare, avevo ancora il rombo dell’aereo dentro la mia testa, non andava via.

Abbracciando mia madre dissi: – Non diventerò mai un cardellino mamma, ma un pilota sì. Ora lo so.

Presi il brevetto di pilota nel 1981, da allora stringo ogni mattina la cintura dei pantaloni sulla bianca divisa dove spiccano ali stampate.

Mia madre a sera mi attende con l’eterna minestra che riscalda cento volta prima che io arrivi. Il posto di mio padre è vuoto.

So che adesso mi avrebbe atteso per cenare. So che adesso avrebbe distrutto ogni gabbia pur di farmi volare.

Sarebbe stato fiero di me.


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Maria Morabito