Ero il più giovane su quella macchina pazza che andava da Modena a Torino su strade non proprio prive di buche, anzi. Il più giovane di quattro amici disparati: uno di diciotto, due di 30 e un medico di 40. Niente ci legava nella vita, ma una pazzia ci faceva legare più che fratelli. Ci piaceva ubriacarci d’emozione, sentire l’adrenalina scendere in vena, darci il senso del brivido anche stupido ma sentirci gasati, sicuri, superuomini tra rammolliti. Ruggero, il medico, ci raccontava che eravamo drogati. Schiavi di una droga naturale che solo il pericolo o la paura poteva dare. L’avevamo sperimentata il roccia, in moto e, ora, la si sperimentava in cielo, quell’adrenalina. Eravamo al terzo lancio col paracadute, si voleva a tutti i costi il brevetto dei sei lanci e non ci saremmo mai ritirati prima. Una questione d’onore con noi stessi. Giungemmo al raduno già stanchi, occhi arrossati e labbra secche. L’esercito, o meglio, i para’, come ci piaceva chiamarli in ricordo di Massu, il colonnello francese de Para’ d’Algeria che seguivamo nelle imprese. I para’ fornivano paracadute e Direttori di Lancio e l’aviazione vecchie vacche volanti, gli SM.83, se ricordo bene. Il raduno era in piena Torino e il Comune ci dava un pulmino da ragazzi. Quella volta eravamo in tanti, comprese cinque donne più pazze di noi. Erano infagottate il tute militari; chi l’aveva adattata al suo fisico e chi, come la rossa, larga e impacciata; si vedeva che era la prima volta. Io, felice della mia verde oliva americana, trovata a Livorno, al mercatino, l’adocchiai subito e lei adocchiò me. Avrà avuto la mia età o poco più vecchia: legammo subito. Era davvero il suo primo salto. Io, forte dei primi tre mi sentivo un nonno. Lei beveva ogni cosa che dicevo, registrava ogni consiglio che davo, mio Dio, ero proprio gasato. Lasciammo salire tutti, noi fummo gli ultimi e, beninteso ci tocco il posto in piedi, appiccati alla barra centrale. Qualcuno dietro spingeva, altri spingevano contrari e fu giocoforza che i nostri corpi condividessero lo stesso spazio Come profumava di pulito. Il pulmino si stava già riempiendo di quell’odore classico di sudore, paura, e eccitazione, riempivano spazi ristretti, come fusoliere d’aeroplani. Era il mio odore, ma non il suo, Lei profumava di donna e di pulito. I capelli respirati m’entravano in bocca, Lei cercava di scostarsi ma non poteva e, lentamente roteando la nostre bocche sentirono l’una l’inizio dell’altra. Eravamo timidi e in pubblico. Ma si sentiva che eravamo eccitati. Le scosse che ricevevamo portavano i nostri inguini sempre più pressati contro l’inguine dell’altro e confesso che fu estremamente difficile mantenere solo quel principio d’erezione. Ero un Para’, dovevo vincermi. L’andata fu una specie d’inferno gradito. Il mio corpo incastrato nel suo come parte mancante per un insieme perfetto. Era caldo il suo corpo, caldo e morbido. Il suo respiro lieve ed eccitato come il mio, il cuore un motore d’aereo. Ci trovammo vicini alla imbracatura, seduti sull’erba, in attesa dell’involo. Salii per primo e Lei dietro. Per lanciarci si doveva fare il percorso inverso. Avrebbe dovuto fare il salto davanti a me e questo non mi piaceva. Se uno dalla paura si ferma o lo butti sotto o lo recuperi staccando in gancio. È sempre una operazione che se anche fatta veloce è lenta alla relatività dell’aereo e, o salti fuori campo o salti al prossimo giro. Non li si buttava di sotto. Incominciarono ad uscire sotto l’ordine del Direttore di lancio: – Fuori, uno, fuori due, fuori … – Lei era la decima, io l’undicesimo. Chiamò, l’ottavo, Lei si voltò a guardarmi sotto quel buffo elmetto, vidi quello che parve un lampo di paura. Dio, non si butta, non si butta … Non ebbe esitazioni e volammo fuori nella scia dell’aereo come due angeli. La fune di vincolo ha uno strappo predeterminato. Ti sembra di precipitare a sasso e senti un gigante trattenerti con uno strappo violento, poi, dondoli, dondoli nel vento. Eravamo a poche decine di metri, mi guardò, rideva. Viso rosso, eccitata, bambina e rideva, io risi con lei. Fu un amplesso a distanza e in aria. Sentii come entrare in lei e lei mi sentì entrare e mi gridò: – Ti voglio ora. – Scendemmo godendo con tutto noi stessi. Ero turgido, ma non emisi nulla. Forse Lei bagnò. Ci trovammo a terra, non c’era che un poco di vento e mi buttai sul suo paracadute sgonfiandolo e, lei, capì e si buttò sul mio, quasi sopra al suo. Ci trovammo quasi l’uno sopra l’altro. Ma le bocche si riuscirono a trovare, le lingue scattare, come eravamo vivi. Ci sentivamo eccitati, contenti d’essere a terra e rotolammo abbracciati. Avevamo vinto la paura, il terrore e ora si godeva la vita pieni d’adrenalina. Mi soffregai poco su di lei, quasi un attimo e la bloccai: quello che non era uscito in aria uscì sulla terra. Chiusi gli occhi, aspirai nelle sue orecchie e godetti da come non avevo mai goduto. Lei sorrise, si fermò, mi spinse il corpo contro e mi lascio godere, forse godendo anche Lei a occhi chiusi, non avevamo intorno nessuno. Ci muovemmo come per una copula. Ci muovemmo selvaggiamente nascosti dalla seta bianca. Un’ora? Un giorno? Una vita? Forse pochi secondi! Raggiungemmo l’orgasmo insieme guardandoci negli occhi. Mai avevo visto viso di donna trasformarsi così: un attimo belva e l’attimo dopo un Angelo sereno e disteso dove appariva tutto il miracolo della vita che scorreva ora placida nelle nostre vene. Ci chiamarono, recuperammo il paracadute e ci separammo, Lei tornò con il camion, il Sergente era un suo amico e rischiò il trasporto di un civile. Forse sarebbe stato lui ad amarla quella notte. Non ho mai saputo il suo nome ma ricordo ancora il suo viso disteso e bello, 30 anni dopo.
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