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L’amore del vento

C’erano giorni in cui il cielo era coperto, altri in cui qualche fiocco di vapore qua e là cercava di rendere meno monotono il paesaggio. C’erano altri giorni ancora in cui le nubi si strappavano all’improvviso e cominciavano a correre e a inseguirsi senza riposo: voleva dire che era arrivato il vento. D’altronde il mondo era stato creato da poco ed il vento si divertiva come un matto ad esplorare le altitudini e a guardare i campi da lassù, ad arricciare i capelli alle nuvole, a fare a gara con gli uccelli, ad accarezzare le vette dei monti, a riscaldarsi la schiena al calore del sole, a spostare la pioggia sopra il mare o la grandine sulle foglie degli alberi. Non era dispettoso o stupido: era il vento. Aveva sentito parlare degli uomini e del loro darsi da fare. Non ne era molto attratto e comunque non aveva molta passione per ciò che rimaneva piantato in terra, per qualunque cosa che non fosse capace di volare o di innalzarsi. Era una creatura dell’aria e ne andava fiero: che c’era poi di così interessante da vedere, laggiù, dove tutto appariva infinitamente piccolo e insignificante? L’altezza, i grandi spazi, i divini silenzi, la profondissima calma e gli sterminati orizzonti era quello di cui aveva bisogno il re dell’aria, colui che muoveva i cirri ed i cumulonembi sulle vie dell’atmosfera. Un giorno come tanti che si trovava a giocherellare tra le cime delle montagne innevate, vide un’aquila posarsi su di un nido: – E’ un piacere incontrarti, aquila. – L’onore è mio, vento. – Da quale viaggio ritorni? – Sono stata lontano, seguendo i raggi del sole. Ho visto grandi città, fiumi ed erba: ho visto uomini innalzare torri alle stelle e camminare lungo sentieri che si perdono nei deserti. Ho visto uomini piangere e ridere, uomini felici e uomini meschini. Li ho visti rincorrere ricchezze e diventare poveri. Li ho visti amare ed odiare. Ho visto fuochi accesi nel buio delle case e ho visto uomini che spegnevano il fuoco, che distruggevano case. Li ho visti darsi la mano nel giorno e poi sollevare la stessa mano insanguinata di notte. – Già…Gli uomini: devono essere delle creature veramente stupide ed incoerenti… – E’ vero. Ma sono interessanti. Mi stupiscono: puoi vederli abbrutire per un’idiozia o risplendere di valore per grandi ideali. Li puoi vedere tradire per pochi denari come puoi scoprirli a morire per salvarsi l’un l’altro. – E tu, torni sfinita per vedere quei quattro imbranati senza capo né coda? Perché non rimani qui, dove tutto è calma e grandezza? Cosa cerchi laggiù, alle basse quote, che non hai qui? L’aquila rimase in silenzio per qualche secondo poi: – Non sei mai stato giù, vero? – No. E non ne sento la necessità. – Ma non sai come è esattamente. Sbaglio? – Beh … lo posso vedere da qui. – Da qui non vedi nulla. La terra, gli uomini, le loro piccole grandi emozioni, i prati in fiore, l’azzurro dei mari, il pianto di un bambino … tutto scompare se lo guardi da troppo lontano. – Che cosa è un prato in fiore? – Non si può spiegare a parole. Da qui è solo una macchia di colore in mezzo al verde. Una lacrima colorata dell’arcobaleno, forse. Dovresti dargli un’occhiata da vicino. – E come farò a sapere che quello che starò guardando sarà un prato in fiore? – Te lo dirà il cuore. Vai, ora. – Cosa significa? – Vai. Hai già perso troppo tempo. Detto questo, l’aquila piegò il capo sotto un’ala e si addormentò, incurante delle altezze e dei monti e delle nuvole e dell’azzurro, degli uomini e di tutto quello che aveva visto, che le affollava l’anima. Il vento, per la prima volta in vita sua, scese sulla terra.

Cominciò col seguire il corso di un fiume e ben presto arrivò ad una città: spalancò porte e finestre per meglio vedere gli uomini, sollevò tende e vestiti, spazzò strade e viuzze, accarezzò le teste dei piccoli e sciolse i veli alle donne. Ascoltò tutti i discorsi, capì la fatica dei naviganti ed il sudore dei contadini, scivolava tra le parole dolci e soffiava su quelle amare, agitò bandiere, risuonò nelle campane, infine passò in silenzio sui templi e sui cimiteri. Era stata una giornata piena ed emozionante e per riposarsi continuò a seguire il corso della corrente fino a ritrovarsi in un luogo che lo riempì di serenità: era tutto verde e cominciò a scorrere le sue lunghe dita tra gli steli dell’erba disegnandoci placide onde. Poi, per un attimo, quasi si arrestò: sul prato c’era qualcosa di colorato. Dalle quote in cui abitualmente si muoveva appariva talmente piccolo che non ci aveva mai fatto caso. Si avvicinò con curiosità e poi cominciò a girarci intorno: era un fiore. Un piccolo fiore azzurro. Bellissimo. Era perfetto, su quel prato. Non c’era dubbio: era un fiore, anche se era la prima volta che ne vedeva uno, non si poteva sbagliare. Quello era un fiore e quello doveva essere un prato fiorito. – Sei stupendo. – Disse il vento danzandogli attorno. – Grazie. Chi sei tu? – Sono il vento. Non sono di qui. Abito nel cielo. – Sei tu che mi stai facendo dondolare? – Si. Ma sto cercando di fare piano. Mi sto muovendo il più lentamente possibile. Spero di non recarti noia. – Non ti preoccupare. Anzi, è dolce. Mi piace come mi muovi. – E a me piace muoverti: sei delicato e leggero. – Stai attento a non fare troppo forte, sono fragile. – Non ti preoccupare…Tu abiti qui? – Credo di si. Sai, sono nato da poco e ancora non so bene qual è il mio compito…Tu sai qual è il tuo compito? – Non ho le idee molto chiare. Mi muovo. Sto sempre in movimento. Se non mi muovo non ci sono. Il mio esistere, il mio esserci è dato dal mio movimento. – E non ti fermi mai? Non puoi sederti un po’ vicino a me? – Non posso: te l’ho detto: se mi fermo, muoio. – Che peccato, pensavo avremmo potuto stare un po’ abbracciati. – Che significa “abbracciati?” – Significa stare fermi, aggrappati l’uno all’altro. Non lo hai mai fatto? – No. E’ bello? – Non lo so. Nemmeno io l’ho mai fatto. – Cercherò di imparare, allora. Il vento accarezzò per un po’ i petali del fiore che gli sorrideva nel caldo della primavera e poi disse: – Devo andarmene, ora: sono stanco e ho bisogno di tornare per un po’ in alto. Tornerò a trovarti presto. Fece un giro attorno al suo gambo, sfiorò con dolcezza ogni petalo, ogni millimetro di corolla e se ne andò. Il giorno seguente e gli altri ancora era ancora lì, a meravigliarsi per gli uomini e per la terra, ma soprattutto a cercare di abbracciare e stringere il suo fiore che con il tempo diventava sempre più bello. Venne l’estate ed il grano attorno cresceva alto e forte, ma il fiore si era aperto in tutta la sua gioia, ed ogni riflesso del suo colore riempiva di dolcezza il vento che nel frattempo diventava sempre più abile e lieve e il suo soffio era diventato una brezza: ogni tanto sembrava quasi riuscire a fermarsi e posare la sua mano sui petali ma era solo un istante e di nuovo cominciava a correre. E le carezze, i soffi leggeri, lo sfiorarsi continuò per tutti i mesi del caldo, per tutte le notti con le stelle ed i grilli a cantare alle lucciole tra le spighe.

Ma se ne andarono le lucciole. Ma tacquero i grilli. Scomparvero le spighe. Venne così l’autunno ed il fiore sembrava essere sempre più debole ed il vento si sentiva sempre più forte. Il vento doveva stare molto attento nel provare ad abbracciare il fiore perché questo avrebbe potuto farsi male. – Cercherò di essere più delicato che posso – sussurrò il vento – e ti starò sempre accanto. Mi stanco molto meno, ora. Un giorno il vento trovò il fiore triste e silenzioso, chissà, forse erano le nuvole scure all’orizzonte a renderlo triste, forse il grano che non c’era più… – Cosa ti succede? – chiese il vento preoccupato. – Non è nulla, pensavo. Ti ricordi di quando ci siamo incontrati? Cosa eri venuto a fare quaggiù? – Volevo vedere un prato fiorito. Ma poi ho incontrato te. E tu sei stato il mio prato fiorito. – Io sono solo un fiore. Ma non ti preoccupare: il prossimo anno qui ci saranno tanti fiori. In ognuno di quei fiori ci sarà un po’ di me e un po’ di te. Vedrai il prato fiorito. – Ma ci sarai anche tu, no?

Il fiore non rispose e quel giorno tutti e due non si dissero più nulla ed il vento accarezzò come mai era riuscito a fare ed il fiore non aprì più bocca, nemmeno quando due petali caddero piano. Ma il vento non se ne accorse. Piano, intanto, la neve cominciava a scendere. Il vento cominciò allora a correre più forte, a giocare con i fiocchi e a soffiare con più energia. Ma il vento non se ne accorse. Altri petali caddero piano. Ma il vento non se ne accorse. In un momento di gioia più grande il vento abbracciò il fiore e…ci riuscì. Sentiva il fiore vicino vicino, sentiva i petali e sentiva lo stelo, sentiva il profumo, ne sentiva i colori, il sorriso e l’amore. Poi sentì un odore più acre, più forte: era l’odore della morte. Non era più lì, quel fiore, ma era disperso, portato dal vento d’inverno su se stesso, disperato, riverso.

Il vento che voleva un abbraccio. Ma che abbracciare non sapeva.

Qualcuno giura di averlo visto gridare tra le gole della valle, urlare di rabbia sui fianchi del colle, colpire il mare e la terra. Era la pioggia ed il lampo, era artiglio di gelo, era alito d’arsura. Era un cielo impaurito. Era la notte senza la luna.

Qualcuno giura di averlo visto passare ancora d’estate, leggero, su quel prato fiorito a cercare di afferrare ciò che non può essere afferrato, a cercare di capire ciò che non può essere capito. Qualche volta piange. Qualche volta ride, divertito.

Qualcuno giura di aver visto quattro petali di fiore volare via, nel silenzio.

Volare in alto. Più in alto dell’aquila. Delle stagioni. E del vento.


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Quattro amici in volo

“Comincia la festa ragazzi, divertitevi più che potete!”

Oggi non vi parlerò di volo, o meglio, non sarà lui il protagonista, oggi vi parlerò di quattro amici, quattro amici speciali, quattro amici che hanno scelto come luogo di ritrovo un posto inusuale: il monte Vettore!

Spegnete tutto e isolatevi dal mondo: vi poterò tra odori, suoni e colori!

L’avventura di oggi comincia da lontano, comincia da un volo di due ore sul monte Vettore il giorno prima, comincia con l’idea (assurda) di tornare in piana (piana di Castelluccio, ndA) nella speranza di replicare, se non addirittura migliorare un volo già molto bello di suo, comincia con la voglia di tornare lassù perché, per noi, stare “lassù” è qualcosa di speciale.

Siamo al parcheggio del Vettoretto in una stupenda giornata d’estate, oltre ai quattro irriducibili Ubaldo, Lorenzo, Gianni ed io, ci sono il fratello e la mamma di Gianni e Martina, i nostri controllori di volo di giornata! Poco dietro ci sono i prati multicolori della piana, i ghiaioni del monte Vettore, le rocce dello “Scoglio dell’Aquila” e più su la cima del Vettore; tutt’intorno il silenzio rotto solo dal fruscio del vento e dal ronzio di qualche ape. Salutiamo la “torre di controllo” e ci avviamo verso il decollo situato duecento metri sopra la strada. Salire in decollo oggi è una di quelle fatiche che farei mille volte senza mai pentirmene: è un salto nei sensi, tra le tinte dei prati e i profumi dei fiori appena sbocciati, tra il lento e tumultuoso fruscio del vento e il grido di un falco che vola alto sopra di noi, salire in decollo oggi è forse una delle fasi più belle del volo, quella in cui si riesce ad ammirare più da vicino lo spettacolo della natura, toccarlo, accarezzarlo …

Sì, per un attimo ho pensato di non decollare ma quando ho visto lo Scoglio dell’Aquila, alto e maestoso come mai mi era sembrato, mi è tornato in mente una citazione di Leonardo Da Vinci: Quando avrai provato l’emozione del volo, camminerai con lo sguardo rivolto verso il cielo, perché là sei stato e là agogni di ritornare … ho alzato la vela e senza pensarci due volte sono decollato!

Di solito non sono mai il primo a decollare, ma oggi sì, oggi ho qualcosa dentro che mi dice vai, parti, vola più in alto dei tuoi sogni!

Il fruscio del vento lascia spazio al “bip bip” frenetico del variometro che mi fa capire subito che oggi è giornata e subito dopo Ubaldo, Gianni e Lorenzo rompono gli indugi e decollano: “Comincia la festa ragazzi, DIVERTITEVI PIU’ CHE POTETE!”, urlo via radio mentre ho già raggiunto la base dello Scoglio dell’Aquila.

“Manuè che hai bevuto? Dieci minuti e sei già arrivato in cima!”, mi urla Ubaldo. “Sei un disgraziato, avevamo detto che saremmo saliti insieme!”, continua Gianni. “Siete voi che siete delle schiappe”, replico. “Allora quando ti prendiamo ti chiudiamo la vela cosi vediamo quanto sei bravo”, continua Lorenzo … Tiriamo avanti per una mezz’ora abbondante a prenderci in giro, incuranti della quota, delle termiche, dell’avanzamento, oggi proprio non ce ne frega nulla di fare quota, oggi vogliamo solo stare insieme e divertirci, prendendoci in giro come solo degli amici per la pelle sanno fare.

Esco un po’ fuori e mi metto in posizione buona per far foto; becco Lorenzo, metto lo zoom al massimo: “Un po’ più a sinistra, così, bene, ora FERMO, NON TI MUOVERE, FEEEEEEERMO!”

Lorenzo non mi risponde, ma dopo un po’ sento un anonimo insulto via radio … Le nostre traiettorie si incrociano e si allontanano mille volte sopra i prati del Vettore, mentre il sole si staglia alto nel cielo. Continuo imperterrito delle mia triplice attività di fotografo, operatore radio e pilota (vabbé pilota, si fa per dire!) ma sento che manca qualcosa: effettivamente un panino con la porchetta ed una birretta gelata in cima al Vettore ci sarebbero stati bene!

Questi sono i voli che preferisco, quelli poco tecnici ma che permettono di far foto e … di sparar cavolate! Ma sì, oggi non ce ne frega nulla di far quota o di andare da qualche parte, lo scopo di questo volo è quello di stare insieme lassù, tra fiori, prati e nuvole!

Il vento ci gioca un brutto scherzo, aumenta repentinamente quando siamo verso Forca Viola. Ubaldo, Gianni e Lorenzo escono subito senza problemi, io passo un brutto quarto d’ora ma riesco sempre a mantenere l’avanzamento sopra i 5 km/h. Sento la paura nelle loro voci mentre si prodigano nel darmi dei consigli, ma tengo saldi i comandi e scappo fuori. Ci togliamo d’impaccio e torniamo a salire, di nuovo, stavolta un po’ più guardinghi ma sempre determinati a restare sù il più possibile. La radio mi molla, e dire che l’avevo ricaricata la sera prima, ma oggi i miei amici sono particolarmente logorroici e questo è il risultato.

Sono passate due ore da quando siamo decollati, qualcuno inizia a dare segni di cedimento e alza bandiera bianca: “Scendo al Guaidone e atterro”. “Va bene, ti seguiamo” Parte Gianni ma appena trova una termica torna velocemente a salire e riaggancia la vetta: “Ma non dovevamo atterrare?”. “Sì però qui ancora tiene …” “Ho capito, era un tentativo di depistaggio” “Ma no io volevo veramente atterrare però ….” Parte Lorenzo, determinato ad atterrare, punta Forca ovest ma poi vira secco verso il Vettoretto: “Qui si sta su alla grande, venite qua!” “Ahò, ma tu non dovevi atterrare?” “Sì ma qui tiene, sai com’è …” “Torre di controllo a volatori, se non atterrate vi abbattiamo!” “Prima dovete beccarci … ” risponde Ubaldo.

Si va avanti cosi per un’ora abbondante, tra falsi buoni propositi e tangibili tentativi di riagganciare per l’ennesima volta il Vettore. Il sole ci regala uno dei suoi più bei tramonti, mentre noi continuiamo a volare in piena estasi mistica. Il silenzio della piana viene turbato da delle urla, sono urla di gioia, ma hanno un tono diverso dal solito: è il tono di un padre di famiglia che oggi è tornato bambino! La mia vela continua a salire mentre Gianni, dopo mille tentativi di depistaggio, atterra, Lorenzo lo segue a ruota, non prima di essersi disteso completamente sull’imbragatura quasi a volersi addormentare; pochi minuti ed anche io ed Ubaldo atterriamo sulla strada sfruttando le luci delle auto per centrare l’atterraggio.

L’euforia a terra è tangibile, ma per capire di cosa parlo dovreste osservarci, dovreste vedere i nostri occhi, osservare l’espressione del nostro viso, ascoltare la vibrazione profonda della nostra voce appena atterrati. Ci abbracciamo, ci diamo delle pacche sulle spalle, urliamo di contentezza perché questo per noi è un momento irripetibile!

Risaliamo in macchina, Lorenzo afferra la sua Canon per mostrarmi le foto scattate in volo e per prima appare la foto del suo frugoletto Alessio: “E’ inutile che mi state a dire, le emozioni che mi da mio figlio il volo manco tra tremila anni me la darà!”

… [SILENZIO]


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Manè

Le due rondini

Era una volta una coppia di rondini che stranamente in inverno, anziché migrare verso paesi più caldi, abitavano nella soffitta di una casa e d’estate facevano il nido sul tetto di quella stessa casa. “Sono degli uccelli davvero bizzarri!” dicevano quelli che le osservavano, non conoscendone la storia. In realtà non erano uccelli bizzarri, strano era ciò che era capitato loro. Ma vedremo cosa ne penserete voi bambini dopo che avrete letto questa favola.

“Mamma, mi compri un palloncino?” disse il bimbo mentre passeggiava con la mamma in una via del centro un sabato pomeriggio. “Va bene. Quale vuoi?” “Quello a forma di delfino.” “Grigio o azzurro?” domandò al bimbo il venditore di palloncini. “Azzurro, per favore. Quello più grosso!” Il bimbo prese il palloncino e lo osservò. “Guarda come va in alto!” esclamò. “Attento a non farlo volare.” si raccomandò la mamma. Il bimbo tirò giù il filo fino a prendere il palloncino tra le braccia. “Mamma, posso salirci sopra?” “Ma non è un canotto …” “Dai, solo un attimo. Dammi la mano.” “E va bene, baby stranezza.” La mamma prese il filo, se lo legò al polso e poi aiutò il bimbo a salire a cavalcioni sul palloncino. “Che bello!” esclamò il bimbo felice “Lascia andare un po’ il filo, mamma, voglio andare in alto.” “Si, ma solo un poco.” Purtroppo il filo le scappò di mano e il palloncino si alzò nel cielo, ma quel che è peggio è che il nodo che la mamma si era fatta intorno al polso si sciolse ed il palloncino volò via insieme con il bambino. “Aiuto! Aiuto!” gridò la mamma “Il mio bambino sta volando via. Aiuto!” Tutti alzarono gli occhi e videro l’incredibile scena del bambino che volava cavalcando un delfino finto. Il bimbo non aveva paura, anzi si divertiva un mondo perché era una cosa straordinaria, ma … dove sarebbe arrivato? In men che non si dica il palloncino raggiunse le nuvole e si arenò all’ingresso della baia del Regno delle Rondini. “Oh, oh, abbiamo ospiti.” disse la rondine incaricata della sorveglianza del Regno. “Buongiorno e benvenuto nel Regno delle Rondini.” “Il Regno delle Rondini? Oh, che meraviglia! Buongiorno.” rispose il bimbo. “Cerchi qualcuno?” chiese la Rondine. “Be’ se c’è qualcuno che può aiutarmi a tornare sulla terra …” “Che cosa ti è successo?” Il bimbo le raccontò l’episodio del palloncino e la sorvegliante chiamò la squadra del Pronto Intervento, il cui capo era una rondine grassa, un po’ stupida e dai modi spicci. “Sai volare?” chiese al bimbo. “No, io … no.” “E il tuo amico?” “Ma lui è … un palloncino.” “Be’ sa volare o no?” “No, no … cioè sì, ma solo verso l’alto … credo …” “E’ necessario l’esercizio! Qui siete tutti pigri. Esercizio costante ci vuole: costante! Fuori le ali!” Il bimbo aprì le braccia. “Ma … dove sono le ali?” “Non ha ali.” s’intromise la sorvegliante “E’ un bambino!” Quest’ultima conosceva fin troppo bene la stupidità del capo della squadra del Pronto Intervento. “Un bambino? E cosa ci fa qui? E’ un nemico del Regno?” “No, no, calma. E’ una storia troppo lunga per raccontartela.” La sorvegliante sapeva che se gliel’avesse narrata, l’altra le avrebbe chiesto di ripeterla quattro o cinque volte prima di capirne meno della metà, tanto era ottusa. “Ciò che il bambino desidera è tornare a casa. Sulla Terra.” aggiunse. “Potevate dirmelo subito! Squadra, attenti! Posizionate la scala.” La squadra eseguì prontamente ed ecco una robusta scala di corda penzolare dalla nuvola. La capo-squadra, rivolgendosi al bambino, disse: “Basterà che tu metta il piede qui e scenda.” Quando la scala fu ben sistemata, ci si accorse che era troppo corta e che non arrivava fino alla Terra. Il bambino e la sorvegliante si scambiarono uno sguardo desolato. Intanto sulla Terra, la mamma in preda all’ira si era avvicinata al venditore di palloncini e, gridandogli delle parole molto cattive, gli aveva rotto tutti i palloncini. Questi, arrabbiatissimo, dimenticò di essere un gentiluomo e, contro tutte le regole della cavalleria, le diede un grosso calcione sul sedere, ma così grosso che la fece volare in alto in alto nel cielo. Fortuna volle che anche lei approdasse nel Regno delle Rondini. “Mamma!” esclamò il bambino non appena la vide. “Amore mio!” I due si abbracciarono forte forte forte. “E’ la mia mamma! E’ la mia mamma! Evviva! Evviva!” Il bimbo non stava in sé dalla gioia; mai avrebbe immaginato di veder arrivare la mamma nel Regno delle Rondini. Anche la mamma era felicissima ed era grata al venditore di palloncini per il calcione nel sedere che, stranamente, non le faceva già più male. Ma ora bisognava risolvere il problema del ritorno a casa. “Come possiamo fare?” domandò la mamma alla Rondine sorvegliante. Fu interpellata la Rondine scienziato, la quale non trovò altra soluzione che quella di trasformare la mamma ed il bimbo in due rondini affinché potessero tornare a casa volando. La mamma accettò e così immediatamente, dopo che ebbero bevuto un intruglio misterioso, avvenne la metamorfosi. Le due neo rondini salutarono affettuosamente le loro nuove amiche e si diressero verso la Terra. Approfittando della nuova condizione fecero dei lunghi giri intorno al mondo e videro un sacco di cose bellissime che mai avrebbero potuto immaginare. “Mamma, sai che mi piace di più essere una rondine che un bambino?” disse il bimbo. “Be’, ti dirò che anche a me non dispiace. Siamo liberi, possiamo andare dove vogliamo e … guarda lì che lago meraviglioso!” “Non lo avremmo mai visto se non fossimo diventati rondini.” “E’ vero, ma ora andiamo a casa. E’ passato molto tempo.” “Se proprio dobbiamo …” Quando arrivarono a casa, però, si accorsero che non sapevano come fare per trasformarsi nuovamente in una mamma ed un bambino. La Rondine scienziato non aveva dato loro niente da prendere per tornare com’erano prima, né aveva detto se sarebbero rimaste rondini solo per un periodo di tempo limitato. “Dovremo tornare al Regno delle Rondini per chiedere cosa fare.” disse la mamma. “Ma il bimbo non era d’accordo. “Mamma … io preferirei rimanere così. Non ho voglia di tornare ad essere un bambino, quel letto così grande … io non so più dormirci, tutti quei giocattoli … io non so più giocarci …” Anche la mamma provava le stesse sensazioni e le piaceva molto poter essere libera e girare il mondo quando e come voleva. “Be’ in fondo … non siamo obbligati a cambiare … se stiamo bene così …” “Oh, sì, io sto benissimo!” disse il bimbo. “Allora … va bene … restiamo così” “Mamma, sei la mamma più straordinaria e la rondine più fantastica che esista. Anzi sei la mamma rondine più straordinariamente fantastica.” “Quanti complimenti … grazie. Ma questa casa? Non possiamo lasciarla abbandonata.” “No. Diamola ai poveri.” “Giusto! Aspettami qua. So già a chi darla.” La mamma rondine uscì, percorse tutta la via fino all’angolo e lo vide. Era sempre lì, tutti i giorni, con il caldo e con il freddo, da mesi e mesi. Chi era? Chiederete voi. Un mendicante. La sua era una brutta storia, una storia di guerra, di miseria e di umiliazioni. Abitava nel suo paese, non lontano dall’Italia, con i suoi quattro bambini. Era vedovo perché la moglie era morta in un incidente d’auto. Una mattina all’alba i soldati avevano fatto irruzione nella sua ed in tutte le case vicine ed avevano obbligato tutti gli abitanti ad uscire così come si trovavano. Il pover’uomo era riuscito a prendere solo qualche coperta per proteggere i bambini dal freddo ed aveva dovuto fuggire, ma lui si riteneva fortunato perché aveva tutti e quattro i suoi figli con sé. Era stato costretto a fare un lungo viaggio a piedi fino al confine e spesso, non avendo di che sfamare i suoi bambini, dava loro da mangiare solo delle bacche selvatiche. Al confine era stato messo su un pullman insieme ad altri profughi e condotto in Italia. Qui aveva dovuto arrangiarsi da solo. Purtroppo la violenza della guerra gli aveva fatto perdere l’uso di un braccio e di una gamba che l’uomo si trascinava stancamente e, un po’ per questo, un po’ perché extra-comunitario, non era riuscito a trovare un lavoro. Così si era sistemato in un vagone ferroviario abbandonato e tutto il giorno chiedeva la carità all’angolo della strada. Questa storia la mamma rondine la sapeva già da prima perché vedeva il mendicante ogni mattina accompagnando il bimbo a scuola e si fermava a fargli l’elemosina. Quando gli si avvicinò, il mendicante, pensando che fosse solo un uccello affamato, le disse: “Vieni, ho solo quattro panini che sono per i miei bambini, ma te ne do volentieri un pezzetto, rondinella affamata.” Ma la mamma rondine disse di no con la testa e gli fece cenno di seguirlo. Il mendicante si alzò e la seguì. Arrivati alla casa, la rondine gli indicò lo zerbino, il mendicante lo sollevò e vide una chiave. “Devo … devo aprire?” chiese. La rondine annuì. L’uomo aprì la porta ed entrò, ma rimase fermo e intimidito in un angolo dell’ingresso. La rondine allora, con grande sorpresa e spavento del mendicante, parlò e gli spiegò tutta la storia; poi disse che, da quel momento, quella casa era per lui e per i suoi bambini. L’uomo prese la rondine tra le braccia e la baciò. “E’ un miracolo!” esclamò sbalordito. “E’ ciò che ti meriti. Tu sei un uomo buono e la vita è già stata tanto ingiusta con te. Hai perso tua moglie, la tua casa e tutto ciò che avevi. Ora il Signore vuole ridarti una casa. Va’ a prendere i tuoi figli e portali qui.” “Lo farò solo ad un patto.” “Quale?” “ Che anche tu resti qui.” “Ma io ho scelto di restare rondine proprio per essere libera, per andare dove voglio.” “Vorrà dire che, quando avrai finito di girare tutto il mondo, tornerai qui ed abiteremo insieme.” E così accadde. Le due rondini girarono in mondo in lungo e in largo e scoprirono posto incantevoli che purtroppo né io né voi vedremo mai (non tutti almeno). Mantenendo l’accordo fatto, alla fine di ogni viaggio esse tornavano a casa e restavano lì fino alla partenza successiva. E così ora che hanno finito di viaggiare e viaggiare e viaggiare sono tornate definitivamente a casa e, come vi ho detto all’inizio, in inverno abitano in soffitta e d’estate fanno il nido sul tetto.

Ora ditemi, bambini, pensate anche voi che sono due rondini bizzarre?


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Alessandra Libutti

Loredana Limone

Nella cabina di pilotaggio

Arrivo all’aeroporto con largo anticipo per scoprire che il genio delle prenotazioni mi ha prenotato sul volo Londra-Roma invece che il Roma-Londra (nonostante la mezz’ora di telefonata, i dati del biglietto e la mia richiesta di ricontrollare la prenotazione quarantacinque volte perché non mi quadrava l’orario d’arrivo). A quel punto (nelle migliori tradizioni) i voli sono strapieni. Vado a protestare e mi consigliano di spedire una lettera. Mando il tipo della direzione a quel paese. Al check-in sono più gentili. Mi dicono di aspettare la chiusura del volo. Poi alle cinque e un quarto mi comunicano che il volo è chiuso e non sono rientrata (ero la sesta in lista, sono saliti i primi cinque…), ma visto che non ho bagaglio, posso provare ad implorare direttamente all’imbarco (mi consigliano vie crucis e autoflagellazioni che in epoca di Giubileo fanno la loro parte). Mi precipito in volata all’uscita C2 ma niente da fare. Attendo attendo. Mi mettono in lista d’attesa per il volo successivo. Sono la undicesima. Trasferimento all’uscita C11 con sosta ai cessi per fumarmi una sigaretta. Sono in formato omino Michelen, e bagaglio con il peso d’una tonnellata di parmigiano, caffè e libri, un caldo da paura. Mi destratifico mentre corro. All’uscita C11 ritrovo gli stessi di prima che ormai hanno preso a cuore il mio caso (ai limiti del patologico). Speranze pochissime ma mi dicono di non disperare.

Assisto ad un’inglese isterica che ricopre di vituperi un’addetta all’imbarco a causa dei disguidi che ha subito per i voli cancellati, prenotazioni a scatafascio, biglietti a rimpiattino. Lei ascolta con una pazienza certosina. Poi arriva un tassista che ha rincorso per mezzo aeroporto una coppia di anziani inglesi che si sono oooops … dimenticati di pagarlo. Mi offro da interprete, cambio le sterline in lire ai due smemoranti, liquido il tassinaro che si è fatto straripagare della dimenticanza al limite della rapina a mano armata. I due pagano quello che lui chiede tra l’imbarazzo generale. Intanto il volo è imbarcato. Per me posti Nix.

Arrivano altre tre persone a cercare di risolvermi l’incresciosa situazione. Infatti se non salgo su quest’aereo, sul successivo è da escludersi che ce la faccia. Ma come si fa? Manco un posto libero. Alla fine a qualcuno viene l’idea dello strapuntino. Il capitano dice occhei. Voilà. Vai, corri. Infilo il corridoio in volata e mentre corro mando un messaggio al coniuge “arrivo”. Poi chiamo di corsa mia madre “stopartendotispiegoquandoarrivo”. Entrata, si chiudono le porte. Saluto e ringrazio il comandante e mi accomodo nella cabina di pilotaggio…

La cabina di pilotaggio è un gioco pirotecnico di lucine, lucette, pulsantini, levette, manovelle, rotelle, numerini, numeretti, sigle, siglette, voci confuse dagli speakers. L’armamentario mi circonda mi aggira: sopra, sotto, davanti, di dietro. Ho paura di muovermi previo toccare qualcosa di vitale importanza, onde deriverebbe sfrittellamento del velivolo con tragedia inumana non riportata dai tempi di Ustica. Titoloni di giornale: Aereo precipita sulle Alpi. Qualcuno ha mandato in tilt i due motori. Non si conoscono le cause del disastro. E’ accertato che il pilota non beveva. Forse ad un passeggero è andato di volta il cervello. La scatola nera non è stata ritrovata.

– Senti, mi fa un piacere – mi fa il comandante, come se si trattasse di un incarico di vitale importanza – mi chiudi la porta così mi fumo una bella sigarettina. Eseguo all’istante. Lui s’accende la sua sigarettina tranquillo e beato, apre il finestrino laterale e si sbraga alla grande: Ahhhhhhhh!!!!!!! Mi vengono in mente tante cose, ma dico solo: – Fantastico! Il comandante per me è già un mito. Osservo attentamente il finestrino aperto a manovella e mi rendo conto che in fondo ‘sta cabina di pilotaggio più che fantascientifica mi sembra una 500 coreografata a mo’ di alberello di Natale.

– Tutto ok? Tutto ok. Vabbé. Chiudiamo ‘sto finestrino e partiamo.- Lancio di sigaretta all’esterno. Leggo i titoli: aereo esplode in rifornimento. Non se ne conoscono le ragioni. Tric e tracche, spintarella, cazzottino, tiratina, rumore di ferraglia. – Eh maccheccazzo ‘ste guarnizioni! Ce l’hai i dati. Sì sì, c’ho tutto. Facciamo 235? sì sì va be’. 564, 675, 98 62. VHF, RIFF RAFF e Patrac. Voce dallo speaker incomprensibile. Movimenti frenetici. Gira deqquà, manovra dellà, tira un leva su, due leve giù, spingi questo, alza quell’altro. – A Londra c’è un tempo schifo. All’arrivo faremo il balletto. Vabbé intanto partiamo.

Ci siamo. La pista è davanti gloriosa e trionfante. Lunga lunga una quaresima, ed io sto là, occhi spiaccicati in avanti che me la gusto tutta in allungata, impennata e virata. Ciao Roma. Intanto proseguono le manovre i pigiatasti, contanumeri, fogliettini, manuali, inserimento dati, l’altimetro che ci porta in un battibaleno sui trentamila piedi. Dopo quindici minuti, il dado è tratto. Ai due non resta più niente da fare. Il comandante si dedica alla lettura del giornale. Io faccio salotto con il secondo pilota. Sorvoliamo le Alpi, passiamo Ginevra. Un bambino chiede di vedere la cabina. Mi tolgo dai piedi e m’intrattengo con la capo hostess che ha un raffreddore di quelli schiantacervello. All’altezza della Manica mi riaccomodo. Si comincia la discesa. Ricominciano le voci e il pigia deqquà e pigia dellà. – Accidenti che mestiere che fate! – Ehm sì. E’ un po’ difficilino. Per lo più è automatico ma ci sono situazioni in cui è… non vorrei sembrare immodesto… quasi eroico.

Il tempo è infausto. Si comincia a ballare. Comincio a capire come funziona la questione. Riconosco ormai i vari tasti e a che cosa servono. Mi sento come ad un corso accelerato di pilotaggio. – Sì, i dati va bene – dico – ma scusate la domanda da ignorante… ma come fate a non sbagliare strada? Scoppio di risa. – Ehm, in effetti non è poi così insolito. C’è chi ogni tanto sbaglia rotta di due o trecento chilometri… L’aereo balla che è una meraviglia. Il vento (me lo comunica il comandante) tira a centocinquanta all’ora. Porca puttana piove! – Eh lo vedo. – No. No. Piove dentro. – Ahi, cazzo, piove pure di qua. Aspetta. Mettiamoci un fazzolettino. Le falle ai finestrini vengono arginate a furor di kleenex.

– Altro giro, altro regalo. Ma ‘ndo cazzo ci stanno mandando questi di Stansted? in Cornovaglia? – Giro giro tondo. E pensare che eravamo in anticipo. Addio cenetta. Ci tocca ripartire subito. Vita infame. Scopro che a causa del maltempo l’aereo che ci sta davanti è stato dirottato su un altro aeroporto. Sembra di stare sulle montagne russe. Anzi, mi corregge il secondo pilota: è un rodeo. Io sobbalzo sul seggiolino. Yahooo!!!

Veniamo agganciati da Gatwick. Il controllore di volo comincia a dare ordini e portare l’aereo giù: 10000 piedi, 8000, 5000, 3000. A 1500 usciamo dalla coltre di nubi e la pista compare in tutto il suo clamore. – Che facciamo comandante? Cerchiamo di centrare la pista? – Vabbé. Proviamoci almeno.

La pista si avvicina in modo preoccupante sulla destra. L’aereo è spinto verso sinistra dal vento che ha raggiunto i centottanta chilometri orari. – Cazzo come siamo storti. Che facciamo? atterriamo di lato? Silenzio di tomba. I due sono un concentrato di succo di spremuta di concentrazione. 1000, 800, 500. A 300 stiamo per toccare. Siamo nel pieno d’una tromba d’aria. Maronna qua se schiantamo. Il comandante cerca di buttare l’aereo a destra, il vento ci ributta a sinistra. PING PONG PING PONG PING PONG. Tre, due uno… virata all’ultimo secondo. L’aereo si raddrizza e atterra dolcemente, senza uno sbandamento, una sbavatura. Sei milioni di nervi mi si distendono contemporaneamente.

Il comandante si volta e mi fa: – Ti ricordi quando ho detto che a volte il nostro mestiere è automatico e a volte invece…

Segue lettura della mappa dell’aeroporto. – Gira qua. – No, no aspetta è di là. – Sì ma dove sta? Ah sì sì è di qua. – Vabbé, vai di là.

L’operatore inglese del tunnel sbaglia l’attracco. Sbadabang! – Che è successo? – Niente comanda’ l’inglese c’ha sfasciato il portello. Niente Venezia. Restiamo qua. Conosce qualche ristorantino a Londra? – Aspetta che mo’ ce riprova. Questa volta il tunnellista fa centro. – Peccato. Non l’ha sfasciato del tutto. Solo qualche graffio. Ci tocca ripartire. Conosce qualche ristorantino a Venezia?

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Viaggio in aereo

Il primo giorno di autunno aveva fatto capolino quella mattina con una temperatura troppo fresca dopo un’estate incerta e tempestata da piogge torrenziali. Quella mattina Marta aveva un incontro importante con il direttore dell’azienda di software che da anni prestava la sua opera nel circuito informatico. Se in quell’occasione fosse riuscita a portare a casa un buon risultato, sicuramente questo per lei avrebbe potuto significare una promozione e quanto meno un riconoscimento di immagine a livelli piuttosto alti all’interno dell’azienda. Sentiva la tensione scorrere nelle vene, ma la sua sicurezza e la sua risolutezza nel portare avanti questo progetto riuscivano a infonderle fiducia e serenità necessari per raggiungere il suo obiettivo. Doveva andare a Parigi. L’aereo sarebbe decollato da Caselle alle 10,40 e lei doveva passare dall’ufficio a ritirare le ultime pratiche che la segretaria le avrebbe fatto trovare pronte sulla sua scrivania. La notte era trascorsa in modo inquieto e la sveglia aveva squillato quando Marta ormai aveva letto quasi tutto il tredicesimo capitolo del libro che qualche giorno prima aveva acquistato da Petrini, in via Pietro Micca. La trama non le era risultata per nulla convincente, ma la speranza che si potesse riscattare nel corso della lettura ancora non l’aveva abbandonata. In ogni caso leggere l’aiutava a tenere la mente lontana dal lavoro e dal pensiero per l’incontro della mattina successiva. Spenta la sveglia e riposto il libro sul comodino, si era alzata per preparare la colazione. Una tazza di caffelatte caldo, due fette biscottate e qualche biscotto, le sarebbero bastati per affrontare la giornata con sufficiente energia in attesa di un pranzo frugale. Aveva deciso di non essere eccessiva nel vestirsi e nemmeno di sembrare troppo rigorosa nel taglio dell’abito. Forse un abbigliamento molto casual e giovanile avrebbe aiutato il direttore dell’azienda di software a prestarle maggior fiducia riguardo alle nuove idee che lei gli avrebbe proposto. Apparire frizzante e sbarazzina in dose giusta poteva rappresentare la nota di colore e di inventiva ideale perché l’accordo andasse in porto. Così scelse un jeans chiaro da indossare con una maglietta a manica lunga di colore nero. Gli stivaletti scuri con i tacchi,per dare un tocco sufficientemente elegante; la temperatura già molto bassa per fine settembre poteva permetterle di indossare un giacchino di pelle nera; borsa a tracolla e valigetta del computer. I capelli corvini sciolti sulle spalle contornavano un viso reso luminoso da un trucco leggero e ben curato. Gli orecchini e il girocollo d’argento davano un tocco di lucentezza. Ad ornare le mani affusolate un semplice anello al dito anulare sinistro, un rubino incastonato sull’intreccio di due fedine d’oro, un regalo della zia a cui Marta era molto affezionata. Pronta ad uscire, Marta aveva controllato che le finestre fossero chiuse e oltrepassato l’uscio aveva infilato la chiave nella toppa e dato le quattro mandate. Non aveva avuto pazienza di aspettare l’ascensore che risultava occupato. Così aveva sceso i tre piani di scale con agilità e flessuosità, come un gatto che corre sicuro verso l’uscita. Avrebbe preso la sua auto per arrivare all’ufficio e da lì avrebbe detto alla segretaria di chiamare un taxi. A quell’ora il traffico non era molto, sarebbe sicuramente aumentato di lì a poco. Arrivata in ufficio, ritirate le carte e avuta una breve conversazione con la segretaria per gli appuntamenti del giorno seguente, Marta salì sul taxi che l’attendeva in strada. Destinazione: aeroporto. Il check-in era già stato annunciato quando Marta arrivò all’aeroporto. Velocemente caricò sul rullo il bagaglio a mano mentre si apprestava a spegnere il cellulare. Si avviò con passo veloce e sicuro verso la postazione per l’imbarco. Una ventina di persone erano davanti a lei: chi in piedi vicino alle vetrate, chi a chiacchierare seduto sulle poltroncine, chi a leggere distrattamente le pubblicità vicino alle vetrine che esponevano borsette e portafogli in vera pelle. Una sola persona leggeva il giornale seduta su di una poltroncina tra una donna che pensierosa si scrutava le mani ed un uomo di mezza età che era intento a giocherellare con la pipa spenta che teneva in bocca. Un uomo dall’aspetto curato, vestito con un abito scuro, di ottima fattura, distinto e casual al tempo stesso, con occhiali fumè, le mani prive di anelli, appena distratto dalla nuova presenza, guardò Marta mentre si avvicinava.Una scorsa veloce quasi disinteressata alla figura di Marta e aveva ripreso a leggere. Marta fu una dei primi passeggeri ad incamminarsi nel tunnel per arrivare al bus che li avrebbe portati fino all’aereo. L’uomo che leggeva il giornale era dietro di lei, in mezzo alle altre persone. Non lo aveva più visto sul bus e nemmeno lo aveva cercato con lo sguardo. Arrivata alla scaletta dell’aereo l’aveva salita con tranquillità e si era avviata verso il posto a lei riservato: fila g, posto 3 lato corridoio. Aveva sistemato il bagaglio a mano nell’apposito scomparto sopra al suo seggiolino e si era seduta nella speranza che nessuno si fosse accomodato accanto a lei. Gradiva rimanere da sola, assorta nei pensieri, ripassando mentalmente tutti i punti della proposta che si accingeva a presentare al suo interlocutore di Parigi. Tutti i passeggeri si erano accomodati e lei era rimasta la sola della sua fila. Dall’altra parte del corridoio un’altra persona era seduta nel seggiolino più vicino al suo. Era l’uomo che all’aeroporto leggeva il giornale. Lo guardò per un istante e lui sembrò non accorgersene. Presto il comandante annunciò il decollo e i passeggeri allacciarono le cinture pronti a sentire rollare le ruote sulla pista. Quando il decollo fu terminato e le cinture slacciate, Marta prese a sfogliare le sue scartoffie. Si senti sfiorare il braccio e sentì una voce calda e avvolgente chiederle cortesemente se potesse dare qualche spiegazione sul prodotto che aveva utilizzato per compilare le tabelle che aveva in mano. Si voltò e incontrò lo sguardo profondo di un uomo dai lineamenti fini, dalla dolcezza disarmante e dalle labbra magnetiche. Presa da un fremito improvviso si scosse subitamente cercando di far mente locale. Cercò di spiegare in modo semplice, stringato ma dettagliato di cosa si trattasse e di quale metodo fosse stato applicato. La conversazione proseguì poi su toni meno professionali ma senza dubbio non meno discinti. Marta sentiva dentro di sé un fremito sempre più forte e quell’uomo stava usando tutto il suo fascino per riuscire a destare il suo interesse. Fu dopo circa un’ora che Marta ormai sopraffatta dall’emozione, chiese alla hostess di utilizzare la toilette. Si guardò allo specchio e si scoprì rossa in volto, con gli occhi palesemente lucidi e limpidi e con una sensazione inconfondibile lungo tutto il corpo. Provava un senso di eccitazione fisica pazzesco che mai aveva provato prima di allora. Quell’uomo l’aveva coinvolta a tal punto da farle provare il desiderio di fare del sesso con lui, immediatamente. Si vergognò di ciò che sentiva, ma il calore che sentiva tra le cosce, i capezzoli turgidi dal desiderio, il fremito lungo il corpo e il senso si morsa allo stomaco non cessavano e lei non riusciva a darsi pace. Sobbalzò nel sentire bussare alla porta della toilette. Fu quasi spaventata nel sentire la voce di quell’uomo chiederle se si sentisse bene e se avesse bisogno di aiuto. Lei aprì la porta e lo fece entrare. Lui disse che aveva spiegato alla hostess che la sua fidanzata, e quindi Marta, non si sentiva molto bene e che credeva fosse necessario chiederle se tutto fosse a posto. Quando furono uno di fronte all’altra, il desiderio si fece insopportabile. Lui le infilò le mani sotto la maglia a cercare i suoi seni che palpò e strinse con forza mentre con le labbra cercava la bocca di lei. Marta completamente sopraffatta si abbandonò ai sensi. Lasciò che lui la baciasse profondamente, e che le alzasse la maglia per baciarle i seni, mordicchiarne i capezzoli, leccandone la forma tonda e soda. Le slacciò i jeans insinuando le mani nella parti più intime alla ricerca del suo piacere e del suo calore. Percorse lentamente ogni lembo della pelle di Marta, dai seni fino al pube, per affondare la sua lingua tra le grandi labbra del sesso ormai rigonfio per assaporarne il succo. E poi la sollevò delicatamente sulla piccola sporgenza del lavabo e fece scendere i jeans fino a che potesse penetrarla con il suo sesso grosso e duro. Si amarono con violenta passione, godendone fino all’ultima goccia in un’estasi fantastica. Raggiunto l’orgasmo lui la rivestì dolcemente, la baciò sulle labbra e presa per mano l’accompagnò fino al seggiolino dove passò a contemplarla per tutto il viaggio con un accentuato rigonfiamento dei calzoni.

25 settembre 2002


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