C’erano giorni in cui il cielo era coperto, altri in cui qualche fiocco di vapore qua e là cercava di rendere meno monotono il paesaggio. C’erano altri giorni ancora in cui le nubi si strappavano all’improvviso e cominciavano a correre e a inseguirsi senza riposo: voleva dire che era arrivato il vento. D’altronde il mondo era stato creato da poco ed il vento si divertiva come un matto ad esplorare le altitudini e a guardare i campi da lassù, ad arricciare i capelli alle nuvole, a fare a gara con gli uccelli, ad accarezzare le vette dei monti, a riscaldarsi la schiena al calore del sole, a spostare la pioggia sopra il mare o la grandine sulle foglie degli alberi. Non era dispettoso o stupido: era il vento. Aveva sentito parlare degli uomini e del loro darsi da fare. Non ne era molto attratto e comunque non aveva molta passione per ciò che rimaneva piantato in terra, per qualunque cosa che non fosse capace di volare o di innalzarsi. Era una creatura dell’aria e ne andava fiero: che c’era poi di così interessante da vedere, laggiù, dove tutto appariva infinitamente piccolo e insignificante? L’altezza, i grandi spazi, i divini silenzi, la profondissima calma e gli sterminati orizzonti era quello di cui aveva bisogno il re dell’aria, colui che muoveva i cirri ed i cumulonembi sulle vie dell’atmosfera. Un giorno come tanti che si trovava a giocherellare tra le cime delle montagne innevate, vide un’aquila posarsi su di un nido: – E’ un piacere incontrarti, aquila. – L’onore è mio, vento. – Da quale viaggio ritorni? – Sono stata lontano, seguendo i raggi del sole. Ho visto grandi città, fiumi ed erba: ho visto uomini innalzare torri alle stelle e camminare lungo sentieri che si perdono nei deserti. Ho visto uomini piangere e ridere, uomini felici e uomini meschini. Li ho visti rincorrere ricchezze e diventare poveri. Li ho visti amare ed odiare. Ho visto fuochi accesi nel buio delle case e ho visto uomini che spegnevano il fuoco, che distruggevano case. Li ho visti darsi la mano nel giorno e poi sollevare la stessa mano insanguinata di notte. – Già…Gli uomini: devono essere delle creature veramente stupide ed incoerenti… – E’ vero. Ma sono interessanti. Mi stupiscono: puoi vederli abbrutire per un’idiozia o risplendere di valore per grandi ideali. Li puoi vedere tradire per pochi denari come puoi scoprirli a morire per salvarsi l’un l’altro. – E tu, torni sfinita per vedere quei quattro imbranati senza capo né coda? Perché non rimani qui, dove tutto è calma e grandezza? Cosa cerchi laggiù, alle basse quote, che non hai qui? L’aquila rimase in silenzio per qualche secondo poi: – Non sei mai stato giù, vero? – No. E non ne sento la necessità. – Ma non sai come è esattamente. Sbaglio? – Beh … lo posso vedere da qui. – Da qui non vedi nulla. La terra, gli uomini, le loro piccole grandi emozioni, i prati in fiore, l’azzurro dei mari, il pianto di un bambino … tutto scompare se lo guardi da troppo lontano. – Che cosa è un prato in fiore? – Non si può spiegare a parole. Da qui è solo una macchia di colore in mezzo al verde. Una lacrima colorata dell’arcobaleno, forse. Dovresti dargli un’occhiata da vicino. – E come farò a sapere che quello che starò guardando sarà un prato in fiore? – Te lo dirà il cuore. Vai, ora. – Cosa significa? – Vai. Hai già perso troppo tempo. Detto questo, l’aquila piegò il capo sotto un’ala e si addormentò, incurante delle altezze e dei monti e delle nuvole e dell’azzurro, degli uomini e di tutto quello che aveva visto, che le affollava l’anima. Il vento, per la prima volta in vita sua, scese sulla terra.
Cominciò col seguire il corso di un fiume e ben presto arrivò ad una città: spalancò porte e finestre per meglio vedere gli uomini, sollevò tende e vestiti, spazzò strade e viuzze, accarezzò le teste dei piccoli e sciolse i veli alle donne. Ascoltò tutti i discorsi, capì la fatica dei naviganti ed il sudore dei contadini, scivolava tra le parole dolci e soffiava su quelle amare, agitò bandiere, risuonò nelle campane, infine passò in silenzio sui templi e sui cimiteri. Era stata una giornata piena ed emozionante e per riposarsi continuò a seguire il corso della corrente fino a ritrovarsi in un luogo che lo riempì di serenità: era tutto verde e cominciò a scorrere le sue lunghe dita tra gli steli dell’erba disegnandoci placide onde. Poi, per un attimo, quasi si arrestò: sul prato c’era qualcosa di colorato. Dalle quote in cui abitualmente si muoveva appariva talmente piccolo che non ci aveva mai fatto caso. Si avvicinò con curiosità e poi cominciò a girarci intorno: era un fiore. Un piccolo fiore azzurro. Bellissimo. Era perfetto, su quel prato. Non c’era dubbio: era un fiore, anche se era la prima volta che ne vedeva uno, non si poteva sbagliare. Quello era un fiore e quello doveva essere un prato fiorito. – Sei stupendo. – Disse il vento danzandogli attorno. – Grazie. Chi sei tu? – Sono il vento. Non sono di qui. Abito nel cielo. – Sei tu che mi stai facendo dondolare? – Si. Ma sto cercando di fare piano. Mi sto muovendo il più lentamente possibile. Spero di non recarti noia. – Non ti preoccupare. Anzi, è dolce. Mi piace come mi muovi. – E a me piace muoverti: sei delicato e leggero. – Stai attento a non fare troppo forte, sono fragile. – Non ti preoccupare…Tu abiti qui? – Credo di si. Sai, sono nato da poco e ancora non so bene qual è il mio compito…Tu sai qual è il tuo compito? – Non ho le idee molto chiare. Mi muovo. Sto sempre in movimento. Se non mi muovo non ci sono. Il mio esistere, il mio esserci è dato dal mio movimento. – E non ti fermi mai? Non puoi sederti un po’ vicino a me? – Non posso: te l’ho detto: se mi fermo, muoio. – Che peccato, pensavo avremmo potuto stare un po’ abbracciati. – Che significa “abbracciati?” – Significa stare fermi, aggrappati l’uno all’altro. Non lo hai mai fatto? – No. E’ bello? – Non lo so. Nemmeno io l’ho mai fatto. – Cercherò di imparare, allora. Il vento accarezzò per un po’ i petali del fiore che gli sorrideva nel caldo della primavera e poi disse: – Devo andarmene, ora: sono stanco e ho bisogno di tornare per un po’ in alto. Tornerò a trovarti presto. Fece un giro attorno al suo gambo, sfiorò con dolcezza ogni petalo, ogni millimetro di corolla e se ne andò. Il giorno seguente e gli altri ancora era ancora lì, a meravigliarsi per gli uomini e per la terra, ma soprattutto a cercare di abbracciare e stringere il suo fiore che con il tempo diventava sempre più bello. Venne l’estate ed il grano attorno cresceva alto e forte, ma il fiore si era aperto in tutta la sua gioia, ed ogni riflesso del suo colore riempiva di dolcezza il vento che nel frattempo diventava sempre più abile e lieve e il suo soffio era diventato una brezza: ogni tanto sembrava quasi riuscire a fermarsi e posare la sua mano sui petali ma era solo un istante e di nuovo cominciava a correre. E le carezze, i soffi leggeri, lo sfiorarsi continuò per tutti i mesi del caldo, per tutte le notti con le stelle ed i grilli a cantare alle lucciole tra le spighe.
Ma se ne andarono le lucciole. Ma tacquero i grilli. Scomparvero le spighe. Venne così l’autunno ed il fiore sembrava essere sempre più debole ed il vento si sentiva sempre più forte. Il vento doveva stare molto attento nel provare ad abbracciare il fiore perché questo avrebbe potuto farsi male. – Cercherò di essere più delicato che posso – sussurrò il vento – e ti starò sempre accanto. Mi stanco molto meno, ora. Un giorno il vento trovò il fiore triste e silenzioso, chissà, forse erano le nuvole scure all’orizzonte a renderlo triste, forse il grano che non c’era più… – Cosa ti succede? – chiese il vento preoccupato. – Non è nulla, pensavo. Ti ricordi di quando ci siamo incontrati? Cosa eri venuto a fare quaggiù? – Volevo vedere un prato fiorito. Ma poi ho incontrato te. E tu sei stato il mio prato fiorito. – Io sono solo un fiore. Ma non ti preoccupare: il prossimo anno qui ci saranno tanti fiori. In ognuno di quei fiori ci sarà un po’ di me e un po’ di te. Vedrai il prato fiorito. – Ma ci sarai anche tu, no?
Il fiore non rispose e quel giorno tutti e due non si dissero più nulla ed il vento accarezzò come mai era riuscito a fare ed il fiore non aprì più bocca, nemmeno quando due petali caddero piano. Ma il vento non se ne accorse. Piano, intanto, la neve cominciava a scendere. Il vento cominciò allora a correre più forte, a giocare con i fiocchi e a soffiare con più energia. Ma il vento non se ne accorse. Altri petali caddero piano. Ma il vento non se ne accorse. In un momento di gioia più grande il vento abbracciò il fiore e…ci riuscì. Sentiva il fiore vicino vicino, sentiva i petali e sentiva lo stelo, sentiva il profumo, ne sentiva i colori, il sorriso e l’amore. Poi sentì un odore più acre, più forte: era l’odore della morte. Non era più lì, quel fiore, ma era disperso, portato dal vento d’inverno su se stesso, disperato, riverso.
Il vento che voleva un abbraccio. Ma che abbracciare non sapeva.
Qualcuno giura di averlo visto gridare tra le gole della valle, urlare di rabbia sui fianchi del colle, colpire il mare e la terra. Era la pioggia ed il lampo, era artiglio di gelo, era alito d’arsura. Era un cielo impaurito. Era la notte senza la luna.
Qualcuno giura di averlo visto passare ancora d’estate, leggero, su quel prato fiorito a cercare di afferrare ciò che non può essere afferrato, a cercare di capire ciò che non può essere capito. Qualche volta piange. Qualche volta ride, divertito.
Qualcuno giura di aver visto quattro petali di fiore volare via, nel silenzio.
Volare in alto. Più in alto dell’aquila. Delle stagioni. E del vento.
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