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Con gli occhi di dentro

Posso raccontare cose che voi piloti nemmeno immaginate. Forse le avete viste, con gli occhi della presunzione, dell’arroganza, di un narcisismo senza limiti e confini, costruito con le frustrazioni che cercate di affogare nel volo, sollevandovi per qualche tempo da terra. Certo percepite no. Se le aveste percepite le ali non avrebbero preso portanza e la resistenza sarebbe stata insuperabile. Ho visto e sentito lingue e linguaggi, significati e significanti che avrebbero fatto arrossire postriboli e bordelli thailandesi e vietnamiti, che celavano ansie ed angosce costruite sulla castrazione e l’impotenza, senza futuro di remissione. Ho visto deltaplani decollare da soli per un rotore in decollo, e ne ho visto uno con un braccio attaccato ad un cavo ed il suo proprietario rotolarsi a terra perdendo l’attimo della bellezza in aria. Ho visto un pilota storpio, e senza una gamba muoversi mostruosamente verso il decollo, la liberazione, e librarsi in volo come una farfalla, leggera, senza peso, con l’anima che si protendeva avanti alla prua, su un angolo di naso oltre 135°. Ho visto una mascella inferiore appesa su un palo di cemento di una vigna, segno di fertilità, che continuava a muoversi, con quella superiore, altrove, appesa al naso, vicino agli occhi sbarrati e due ali infrante che continuavano a vibrare pensando di volare via. Ho visto schiene spezzate da piccoli spuntoni di albero in atterraggio, e un cavallo che galoppava con ali sulla groppa ed un uomo con una spalla appesa. Ho visto bimbi e donne che vegliavano morti in mezzo alle rocce. Ho visto corpi appesi ai fili delle torri elettriche lanciare scintille, sull’erba verde e profumata di primavera. Ho visto uomini boccheggiare nell’acqua, per un moschettone nascosto od una cerniera bloccata. Ho visto il mio amore come una marionetta con le braccia senza ossa, e poi lo ho rivisto, così un’altra volta ancora e, sempre e comunque con un sorriso che diceva: “che vuoi che sia”. Ho passato notti e notti cogliendone il sospiro e leggendone i sogni sempre fatti di cielo e di aria. Ho visto e sono testimone della storia di un modo di volare fatto di imbecilli, teneri e cari. Ho visto atterraggi che rimanevano vuoti e decolli improvvisati dove l’incoscienza dominava sul coraggio e la follia sulla realtà. Ho visto e ne sono testimone ed interprete, perché il volo ha sempre rappresentato, la condivisione di un amore senza limiti e confini. Ho sentito il suono di un variometro trasformarsi in grida, urla e lamento e ali bianche rincorrersi in un roccolo la cui destinazione era il nulla, fatto di alcuni metri in più o in meno. Ho visto alianti trattati come stracci, da piloti irriconoscenti di un dono che era stato distribuito a pioggia e la pioggia, si sa, bagna anche chi non lo merita. Posso raccontare di voli visti con gli occhi di lui e ancor più attendibili e chiari perché partecipati di un’altra emotività, fatta di due gambe in aria e due gambe in terra. Ho visto passarmi addosso gli ultimi anni come una brezza da pendio, una termica calda che ti accarezza, come la dolce restituzione che ti accompagna a casa d’estate. Ho visto il mio amore condividere ogni sospiro con me ed io con lui, nell’unico respiro dell’eternità, con umiltà e riconoscenza per un dono ricevuto, come un anello invisibile che non ci separerà mai. Ho visto e continuerò a vedere e volare per sempre.


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Carmen Coia

Ritorno dall’Islanda

Si passò una mano sul viso, lo sentì bagnato di sudore e l’asciugò meccanicamente con la manica della camicia. Faceva caldo, un caldo insolito, perché il giardino era sempre fresco, anche d’estate. Qualche goccia gli scivolò sulla camicia e sul collo, alzò la testa e si accorse che cominciava a piovere. Proprio in quel momento la sua attenzione fu attratta dal rumore di un aereo in atterraggio presso la vicina base aerea dove aveva prestato servizio per tanti anni: era un “AWACS” (Airborne Warning And Control System).

L’inconfondibile rombo dei motori del Boeing 707 lo portò di colpo a quel lontano 1989 quando fu assegnato per un breve periodo in Islanda per svolgere attività operativa presso la base aerea di Keflavik. Carlo – maggiore dell’Aeronautica Militare Italiana assegnato alla Nato – vi trascorse ben quindici giorni tra attività di volo e momenti di diporto che gli consentirono di visitare parte di quella fantastica isola dove tutto è strano e tutto sembra anormale anche ciò che non lo è.

Il giorno prima dell’effettiva attività di volo – otto/nove ore continuative -, preparava il piano di volo e pianificava la missione operativa nei minimi dettagli in stretto coordinamento con tutti i membri dell’equipaggio del velivolo suddiviso in due grosse branche: il “flight crew” ed il “mission crew”.

La prima branca si prendeva cura di portare il velivolo nell’area di orbita e mantenerlo ad una quota costante per tutto il tempo necessario: era costituita da due piloti, un navigatore ed un “flight engineer” (FE) – supervisore di tutta la parte tecnica del velivolo.

La seconda branca, diretta dal Tactical Director (responsabile dell’esecuzione della Missione Operativa) era suddivisa, a sua volta, in tecnici ed operativi che avevano il compito di far funzionare i sistemi radar di bordo e di utilizzarli per l’avvistamento ed il controllo del traffico aereo nell’area di competenza in coordinamento con i siti radar terrestri. L’incarico di Carlo era appunto quello di garantire l’efficace esecuzione della missione operativa.

Nei momenti di riposo tra un volo ed un altro Carlo con il suo collega Miguel – un ufficiale dell’Aeronautica Militare Portoghese – visitò le aree più accessibili dell’Islanda vicino alla loro base aerea. Era il periodo in cui in Italia i fiori vivono la loro stagione migliore, il cielo diventa sempre più azzurro e il mare invita con maggior insistenza i timidi bagnanti a tuffarsi nelle acque calme e calde. In Islanda, invece, la temperatura in maggio è tutt’altro che gradevole. Il più grande parco nazionale dell’Islanda (Skaftafell), sito vicino Reykiavik, presenta un panorama molto simile a una veduta alpina con la terra desolata e sabbiosa, è di una tristezza indescrivibile; di erba neanche a parlarne.

Mentre passeggiavano vedendo alcuni cavalli chiusi in un recinto, Carlo disse a Miguel: “Vedi come sono tutti infreddoliti e con gli occhi pieni di tristezza”.

“E’ vero” rispose Miguel, “sembrano senza vitalità. La loro espressione denota un senso di rassegnazione alla vita in una stalla sapendo che per loro non sarà mai possibile scorrazzare liberi nelle pianure piene di erba verde, fresca e dal profumo inebriante”.

Finito il periodo di rischieramento, iniziò il volo di ritorno verso la base aerea di provenienza: la missione era di solo trasferimento e non operativa, quindi doveva essere semplice e senza alcun problema.

L’imprevisto, però, a volte è in agguato. Stavano sorvolando il tratto di Oceano Atlantico compreso tra l’Islanda e la Gran Bretagna, quando cominciarono ad avvertire un forte odore di bruciato.

Subito i tecnici avviarono i previsti controlli delle apparecchiature radar accese per normale manutenzione. Intanto, Carlo diede l’ordine di indossare la maschera di ossigeno ed effettuò il previsto appello (“roll call”) per verificare che tutto il personale l’avesse indossata.

Completata positivamente tale verifica, il primo pilota (Aircraft Commander – AC) diede l’ordine ai tecnici di spegnere tutti gli apparati non necessari alla navigazione e al FE di avviare la procedura per far defluire l’odore di bruciato aprendo le valvole all’uopo preposte.

Nel giro di pochi minuti tutto ritornò normale e fu dato l’ordine dall’AC di togliere le maschere d’ossigeno essendo rientrata la situazione di emergenza.

Tutto ormai sembrava risolto ed il volo si stava avviando verso una tranquilla soluzione, quando scattò, come un fulmine a ciel sereno, il segnale di emergenza per depressurizzazione del velivolo. Tale situazione, di norma, richiede di indossare la maschera di ossigeno entro quaranta secondi per evitare situazioni di mancanza di ossigeno (anossia).

Carlo avviò, quindi, nuovamente la procedura per affrontare la nuova emergenza: tutti su ossigeno e “roll call” del personale.

“Possibile che il destino ha deciso che questo debba essere il mio ultimo volo”? pensava Carlo.

Tutti si guardavano senza riuscire a trovare la forza di parlare, anzi, lo facevano con gli occhi che mostravano di non essere ancora rassegnati ad una fine prematura.

Presi da tali funesti pensieri, la comunicazione da parte dell’AC di emergenza rientrata fece tirare un sospiro di sollievo a tutti e riportò il naturale colore su quei volti segnati da un pallore improvviso dovuto ad un inconscio senso di paura che, come una spada di Damocle, alberga nella mente di chi ben conosce i rischi derivanti dal proprio lavoro

. Cosa era successo? Il FE, per una mera dimenticanza, aveva lasciato aperte le valvole, utilizzate per far defluire l’odore bruciato della precedente emergenza, oltre il dovuto. Tanto era bastato per far scattare la nuova emergenza.

La pioggia, sempre più insistente, risvegliò Carlo che nel frattempo si era riparato sotto il gazebo godendo il profumo della terra appena bagnata e rallegrandosi alla vista delle gocce d’acqua che dissetavano i petali dei fiori rendendoli più luminosi e più puliti E mentre era ancora assorto nei suoi remoti pensieri, accarezzò con la mano il capo del nipotino più piccolo che stava giocando con un piccolo aereo simulando una situazione d’emergenza.


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Dirigibile
Raffaele Carlino

Odore di kerosene

Era lì, davanti a me, con l’aria di chi volesse interrogarmi. Un metro d’altezza, due grandi occhi neri che sprizzavano furbizia. Una mattina frizzante di fine inverno, il cielo è meraviglioso, poca gente che passeggia nel parco. Sto seduto sulla panchina, il capo chino, fra le mani stringo il basco rosso, ho ancora in dosso la tuta da lancio e le insegne del battaglione avio-trasportato. Il ragazzino tira un bel fiato, si fa coraggio e con voce insicura mi domanda: “Perché piangi?” resta qualche istante in silenzio e poi esclama: “I veri soldati non piangono!” Senza aspettare la mia risposta si gira di scatto e corre via. Dalla collina del parco si domina una bella vista della campagna Toscana, il sole è alto e scalda annunciando l’arrivo della primavera.

Le pale dell’elicottero spingono l’aria violentemente sull’erba della campagna Senese, l’odore di kerosene è forte, piacevole, seduto con il paracadute imbracato, aspetto che arrivi il mio turno d’imbarco sull’elicottero da carico CH47 Chinouk, è il mio quarto lancio, il primo con la Brigata. Sono un ufficiale della Folgore, non posso non essere un duro. Sono qui per provare a me stesso che posso vincere la paura, che posso affrontare la morte a viso aperto, ma il cuore è come un pezzo di burro tolto dal frigo, piano piano s’ammolla. Oggi potrebbe essere il mio ultimo giorno su questo pianeta, i miei ultimi preziosi minuti, eppure non noto nessuna differenza con i giorni precedenti. Oggi potrei morire, potrebbe accadermi quello che prima o poi comunque gusterò. Forse sarà un bel funerale! Importante! Tutti i militari ben inquadrati, un bel discorso solenne del Generale di Brigata, molta emozione. Tutti diranno bene di me, ora che sono morto, diranno che ero un bravo ragazzo, onesto. Si sa che basta morire per possedere tutte le doti. Vent’anni di vita oggi mi sembrano un soffio! Che ne sarà dei miei affanni? … Del mio esibizionismo? … Della mia delusione per non aver conquistato quella ragazza? … Del non aver straguadagnato dei soldi? … Dei progetti sul futuro? Che ne sarà di tutte quelle cose che mi hanno fatto stare male per non averle ottenute? Mi rendo conto che non ho fretta di andarmene, non ha importanza quanti giorni abbia vissuto, oggi è comunque troppo presto. E’ strana la vita! L’apprezzi solo quando sai di poterla perdere. Quando mancano pochi minuti alla fine confronti le tue ansie e quelle del mondo, tutte diventano piccole piccole. Ti rendi conto che il mondo sarebbe migliore se tutte le persone vivessero con la consapevolezza della precarietà dell’esistenza. Ma non c’è tempo per spiegare queste cose, il grande elicottero bipala dolcemente si appoggia sull’erba a pochi metri da noi, le turbine fanno un rumore assordante, tale che a mezzo metro di distanza bisogna urlare per parlarsi. L’aria ha un odore particolare, frizzante, in bocca sento uno strano sapore, deve essere l’adrenalina nel sangue. Sono il primo della fila, primo del primo passaggio, prendo posto sul seggiolino più vicino al portellone, tutti i parà mi sfilano davanti e prendono ognuno il proprio posto, giovani, con espressioni serie, visi silenziosi, facce italiane. Il lancio militare è diverso dagli altri, si effettua a bassa quota, mille e cento piedi, neanche quattrocento metri, in caso di malfunzionamento del paracadute è quasi impossibile aprire l’emergenza, specie ai primi lanci. Si è bardati con zainetto e fucile. Dentro l’elicottero c’è un’atmosfera forte, seria, che trasmette potenza, la potenza che deriva dall’incoscienza di sfidare la morte. La morte. L’avversario più grande e potente dell’uomo! Sfidarla dà la sensazione di essere potenti quanto lei. Ma in fondo, nella realtà, è lei a decidere il come ed il quando. Le turbine aumentano il numero di giri, l’elicottero si alza prima con la parte posteriore e poi con quella anteriore, prende quota, all’interno è impossibile parlare tanto il rumore è forte. Il portellone lascia uno spazio aperto dal quale è possibile vedere le colline del Chianti, il cherosene bruciato rende il panorama come appannato. Mi rendo conto che siamo arrivati alla quota di lancio perché l’elicottero rallenta, si stabilizza, procede a velocità costante. Il direttore di lancio sta in piedi di fronte, mi fa un cenno con la mano facendo capire che dobbiamo alzarci, il portellone lentamente si abbassa, ai lati della carlinga le luci sono rosse, una mia mano regge la fune di vincolo agganciata al cavo di acciaio, l’altra cerca un appiglio sul lato della carlinga. Il direttore di lancio ora è accucciato, tiene stretta la mia tuta da lancio, si balla molto, in cuffia gli viene annunciato che mancano sei secondi al lancio. Mezzo metro dall’uscita, emozioni al massimo, sguardo fisso sulle luci rosse, pochi istanti, poi la luce verde, una pacca sulla coscia, uno scatto nel vuoto. Testa bassa, gambe tese e unite, mani compatte sull’emergenza. Silenzio immediato, totale. Milleuno, milledue, milletre, millequattro, millecinque, sguardo a destra, sguardo a sinistra, dico tutto ok ma vado veloce, troppo veloce. Non capisco perché. Il terrore mi assale, mi pizzica la testa, la velocità aumenta vertiginosamente, non m’importa di alzare lo sguardo per capirne la causa, capisco che devo aprire l’emergenza, ma le mani non rispondono ai comandi del cervello. Il panico è il padrone della situazione. La morte, l’avversario di sempre, sta vincendo la partita. Quindici secondi, tanti ne mancano alla fine. Ultimi attimi per contemplare l’esistenza. Davanti agli occhi come in una realtà parallela il paesaggio sembra fermo a testimoniare della meraviglia della creazione, stridente confronto con la realtà umana piena di odio, di lotte inutili e meschine, ricca di miserabili tristi. La mente è attraversata da pensieri come traccianti di mitra, in un lampo salgono pensieri legati agli amici, alla famiglia. Mi rendo conto che per me è finita, proprio per me è giunto il momento della fine. Certo, fino ad oggi non ero mai morto, era sempre toccato agli altri! Cos’ho fatto di buono sulla terra? Cosa scriveranno sulla mia lapide? Che segno resterà della mia poca acqua versata in terra? Quando il sole l’avrà asciugata chi la ricorderà? Fra poco urterò la terra, un impatto violento, mai vissuto prima, Dio mio aiutami! Ti prego ascoltami! Perdonami se mi ricordo di te solo quando il terrore mi assale! Ora mi schianterò al suolo! Avrò male, molto male! Ma perché proprio a me? Dio mio salvami! Pochi secondi sono passati ma sembrano un’eternità, per chi deve morire anche un secondo vale una vita. Vedo gli alberi ed il prato sempre più vicini e non posso farci niente se non cercare di prendere quella maledetta maniglia dell’emergenza sulla pancia. Finalmente l’afferro, la stringo forte con la mano destra e con tutta la forza che ho la tiro. E’ un lampo, il pilotino con la molla scatta in avanti portandosi dietro il paracadute di emergenza che si gonfia in un attimo. Pochi istanti e sono a terra, sbatto con violenza, ma senza danni. Il fiato è ancora nei polmoni, non credo ai miei occhi, sono ancora vivo.

Grazie Dio! Grazie terra per esistere! Grazie vita per avermi fatto gustare la tua essenza! Grazie morte, avversaria leale! So che un giorno farò la tua conoscenza, ma per ora fretta non ne ho! Ed ancora di nuovo ringrazio Dio perché ora posso guardare in faccia la morte sapendo che la mia esistenza è per sempre con Lui. Avere conosciuto Dio, averlo fatto entrare nella vita di tutti i giorni mi ha reso capace di affrontare questa vita in modo semplice e lineare, con una serenità di fondo che spetta ad un figlio di Dio. La morte è l’arma, è il ricatto più potente, che il nostro avversario, Satana, possiede contro l’uomo. Ma la salvezza di Cristo mi ha permesso di scavalcare questo ostacolo. La consapevolezza che il mio spirito, la mia essenza, io come persona, trascorrerò con Dio tutta l’eternità, la profonda certezza di sapere che Dio mi è costantemente accanto e lo sarà ancor di più nei momenti difficili mi dà una forza ed un senso di beatitudine che nulla al mondo può darmi. Quando mi lanciavo col paracadute non conoscevo ancora Dio e gli sono riconoscente perché si è sempre aperto, permettendomi così di dare una svolta alla mia vita prima che fosse troppo tardi. Ma spesso sono triste perché vivo fra tante persone che ignorano che un giorno il loro paracadute potrebbe non aprirsi, senza perciò aver dato quella svolta alla propria vita, la fede in Cristo, che salva la vita avendo diritto alla vita eterna.

Al Paracadutista Vegro, caduto al lancio a 20 anni e membro del plotone che ho comandato nella 15^ cp 5^ Btg Paracadutista El Alamein della Folgore.


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Giulio Credazzi

La vite piatta

Ero nei guai! Beh … sì … questa volta ero proprio nei guai. L’aliante girava … girava … ma, invece di veder scorrere davanti al muso le case, i campi, le strade tutto ciò che normalmente sta a terra e che normalmente ruota come una giostra, quando si fa una “vite normale”a muso in giù, io vedevo scorrere davanti alla capottina l’orizzonte con i contorni delle montagne come se fossi in una virata stretta ma con l’orizzonte perfettamente “piatto” anziché inclinato e l’aliante non ne voleva sapere di “mettere giù il muso”. Il mio generoso “Libelle Standard” non mi aveva tradito, no! In quella condizione anomala per il volo ce lo avevo messo io di proposito per via … dell’Amintore!!!

Già, l’Amintore e quella mia dannata mania di volerne sapere sempre una pagina più del libro e di soddisfare sempre la mia eterna curiosità. Al bar dell’aeroporto da un po’ di tempo si discorreva con l’Amintore sulla questione di come fa la vite il Libelle, simpatico aliantino in vetroresina, io sostenevo che era normale come descritto nel manuale di volo, cioè con un po’ di pazienza dando tutto piede e cloche al centro, se la distribuzione dei pesi è corretta, si ritrova il giusto assetto di volo. Certo che con un timone di direzione piccolo non si può pretendere che esca dalla vite subito come fa il Blanik che ha un direzionale grande come le orecchie di “Dumbo”. Ma lui, l’Amintore, no! Secondo lui non esce e ci si ammazza!

Beh! Dico…si fa presto a vedere quale è il margine di sicurezza. Basta mettere della zavorra sul tronco di coda per spostare il centro di gravità e si vede se esce dalla vite. Basta che questa zavorra sia realizzata con un sacchetto di sabbia sganciabile, se l’aliante non esce dalla vite ci si libera del sacchetto e … voilà tutto torna a posto. Facile no?

Occorre fare in modo che quando vuoi liberarti della zavorra tiri una funicella che sfila il perno che trattiene il sacchetto questo cade … barra al centro tutto piede esterno e ci si rimette dalla vite.

All’Amintore l’idea piacque un sacco! Preparammo un sistema empirico, semplice ma geniale che provammo svariate volte a terra, e si dimostrò affidabile.

Venne il giorno dell’esperimento, e andai in volo con il marchingegno, mi piazzai bello tranquillo ad una quota di 1.000 m. sopra dei campi arati e puntualmente innescai la vite. Cacchio! Aveva ragione l’Amintore, l’aliante si inserì in una frenetica vite piatta ed iniziò a ruotare come una foglia secca strappata del vento autunnale. Tutti i miei sforzi di metterlo in picchiata risultarono vani. Sorpreso ma non preoccupato mi preparai a tirare la funicella come programmato. Semplice, basta tirare la … funicell … la … funicell … Caspita! Ma perché non viene??? L’ho provata decine di volte con l’Amintore! Vuoi vedere che quel Amintore mi porta sfiga? E io … che scemo che sono a dar retta ai suoi chiodi fissi! Il vorticare dell’aliante innescava strani vortici anche nella mia mente. Potevo starmene al bar davanti ad una birra a disquisire sulla filosofia del volo ed invece sono qui come un deficiente a rischiare di rompermi l’osso del collo per chi? Per … l’Amintore!

La lancetta dell’altimetro spezzò improvvisamente le mie divagazioni mentali indicandomi che la mia quota ora era di 600 metri. Il mio “investimento” in termini di altitudine si stava rapidamente corrodendo al pari delle quotazioni di Borsa che in quel tempo stava riducendo sul lastrico milioni di risparmiatori. Dovevo agire, ma come? Tutto dipendeva da quella dannata funicella! Altimetro a 500 metri! Accidenti qui non si scherza, se aspetto ancora un po’ sono per terra. La mente come in una “moviola” accelerata richiama fatti e misfatti dovuti alla vite e alla moltitudine di piloti incappati in una simile trappola. Ma ora dovevo decidere non c’era più tempo … una sola cosa potevo fare … LANCIARMI ! Porca vacca … e poi chi và a raccontare al capo che gli ho sfasciato l’aliante … magari in testa a qualcuno perché volevo fare gli esperimenti? Beh! Però … non sarà mai come morire da stupido, così oltre all’aliante perde anche il pilota, nooooooooooo! Meglio lanciarsi! 450 metri. L’aliante gira, l’orizzonte gira e non la smette di girare l’unica cosa ferma e tesa era la mia mano che tendeva la funicella fino a ferirmi. Basta … decido … SALTO. Con rapida mossa afferrai le due levette laterali del blocco della capottina e questa immediatamente schizzò via sopra la testa in un fragore di cardini strappati dalla vetroresina. Uno schiaffo di aria gelida mi colpì il viso, mi aspettai di udire la capottina colpire il piano di coda ma per fortuna l’impatto non ci fu. La mano destra cercò rapida la leva di sblocco della cintura mentre la sinistra che ancora avvolgeva la funicella si estese per raggiungere l’intelaiatura del velivolo in un ultimo disperato tentativo di aggrapparmi prima di buttarmi di sotto.

Ma che succede??? L’aliante mette giù il muso … prende velocità … Cristo riesco a riprenderlo!!! Dai … svelto! Cloche e piede. Devo riagganciare la cintura alla svelta altrimenti volo fuori davvero ora che … non serve più! Ero salvo. Con gli occhi bagnati di lacrime per effetto del vento in faccia a 130 km/h filavo con il velivolo in mano perfettamente controllato. Cosa diavolo era successo? Ho capito! Nel prepararmi al decollo con l’Amintore che mi starnazzava nelle orecchie, non controllai che la funicella passasse nella gola apposita che avevo praticato per l’occasione era così rimasta “pizzicata” nella cerniera della capottina. Ora che questa era volata via, frantumandosi chissà dove, la funicella fece il suo dovere di liberare la zavorra. Come tutti i “lieto fine” vi lascio immaginare i commenti dell’Amintore al bar, ma non ho il coraggio di raccontare la ramanzina ricevuta dal “Capo”. Comunque per due mesi mi relegò a fare voli turistici in cielo campo, per ripagare il danno arrecato e riscattare la mia reputazione.

Ps: L’avventura qui descritta non mi appartiene, ma è un libero adattamento per il puro piacere narrativo di una situazione realmente accaduta ad un famoso pilota Polacco, Stanislaw Wielgus, amatissimo da tutti noi, durante un collaudo di un aliante, e che da pochi giorni ha compiuto i suoi primi ottant’anni!

Tanti auguri Stany!!!


 

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Claudio Cavolla

Le confessioni di un italiano

E’ andata bene, c’è mancato poco, ma è andata bene!! Il mio nome poteva essere inciso su una croce di legno conficcata tra le pietre delle Alpi Svizzere, ed invece fortunatamente sono qui a scrivere queste righe a tentare di dare un contributo alla sicurezza.

No, non si tratta della prima pagina di un romanzo di guerra. Mi sono solo deciso a tirare fuori dal cassetto un vecchio appunto e descrivere quanto mi è capitato, alla luce di molti dolorosi incidenti capitati a Piloti di grande fama e di indubbia capacità; vedi Konstantino, Holighaus, Alain Delylle e tanti altri anche ai giorni nostri come il Bob Monti. Vengo al fatto.

Qualche anno fa mi capitò di passare per lavoro in una linda località Svizzera, l’aria frizzante di una soleggiata mattina di aprile metteva in risalto l’orografia che si stagliava in un cielo limpidissimo privo di nubi. Vidi che l’attività volovelistica nel vicino aeroporto era già iniziata. Quale migliore occasione per andare a dare un’occhiata! Giunto in campo, fatte le dovute presentazioni venni immediatamente invitato ad andare in volo con un pilota locale molto esperto ( proprietario di un Nimbus-3 ) che stava già preparando lo Janus del Club. Quindici minuti dopo mi godevo il traino come tranquillo passeggero del posto posteriore. Notai che il mio Pilota seguiva il traino in modo un po’ impreciso, a volte si distraeva mi parlava e quindi poi doveva riallinearsi. Poco male, è capitato anche a me con degli ospiti. Allo sgancio in prossimità dei costoni a nord del campo, iniziò la normale ricerca delle ascendenze.

Volo da 15 anni ed ho acquisito un’esperienza sufficiente da capire che quel giorno le condizioni non erano delle più generose, pur essendoci una radiazione notevole erano presenti temperature a terra piuttosto rigide e una confluenza di venti sia da nord che dal passo di un massiccio imponente, disturbavano molto le prime termiche che si generavano.

Mi rilassai e cercai di godere dello splendido panorama che scorreva davanti alla capottina. Nonostante tutti gli sforzi che il mio pilota faceva per centrare una termica, dopo un quarto d’ora era più quello che avevamo perso che non quello che si era guadagnato. Lui allora, conoscendo il posto, non ebbe dubbi ” andiamo sul passo, lì becchiamo la dinamica!” esclamò. Mi fidai perché in effetti le termiche erano molto irregolari e scarrocciate dal vento, solo che in cuor mio a quei costoni mi sarei avvicinato più serenamente con un po’ più di quota. Bah! L’esperto era lui! Cominciò a ravanare come al solito con la cloche a mo’ di bastone da polenta scarponando un pò troppo all’interno con il filo di lana mai bene al centro e vidi che, contrariamente a quello che per me è ormai diventato istinto, che con più sono basso più cerco di essere veloce, lui si manteneva mediamente tra gli 80 e i 90 Km/h. L’iniziale godimento cominciava a trasformarsi in disagio. Avvertii chiaramente irrigidirsi la muscolatura dello stomaco, per prudenza tirai le cinture o gli occhi anziché sul panorama erano sempre più fissi sull’anemometro. Il disagio aumentò allorché giunti sul passo sentii che il vento spirava in raffiche, e l’aliante volava a meno di cento metri dai sassi. D’istinto allungai per la prima volta la mano sulla barra senza interferire sulle manovre che il mio ardimentoso stava facendo.

Si iniziò un 360°, poi un secondo, sempre più stretto, per non finire in sottovento e con preoccupazione vidi la velocità costantemente bassa. Sentivo le azioni del vento sulla traiettoria dell’aliante e continuavo a vedere che l’amico non accennava minimamente a regolare la velocità in modo da poter “infilare” le raffiche con un buon margine di sicurezza. Mi vennero alla mente le lezioni di aerodinamica – gli aneddoti – gli articoli di cronaca e pensai: “… ecco, è così che ci si ammazza!”

Ed ecco che arrivò quello che temevo; a metà di una virata in “tiro”, a velocità ridotta, con il filo di lana sempre all’interno e l’aliante costantemente in derapata verso l’esterno della virata, con il muso sempre troppo alto, come passammo nella fase di vento in coda si verificò l’inevitabile. Il vento si fece padrone dell’aliante accentuando in modo brusco la derapata. Il muso guardava il cielo, salivamo si, ma come una foglia sollevata dal vento. Per la prima volta vidi con terrore la lancetta dell’anemometro oscillare e poi vibrare non sapendo se stare a 65 o 70 Km/h! Il sibilo del vento era quasi cessato, la nostra velocità era creata più dal vento che dalla forza peso dell’aliante, il filo di lana era scomposto ed avvertii chiaramente la sensazione di essere “appeso” come all’apice di un fiesler ad attendere quella sensazione di leggerezza, quasi inebriante, seguita da un risucchio in cui l’aliante comincia a sprofondare. In animo mio mai provai così distintamente la certezza di una prossima fine. Come una macchina sospinta dal vento su un lago ghiacciato con le gomme che non fanno più presa, non potevamo più fare nulla, non avevamo più vie d’uscita: qualsiasi manovra per tentare di chiudere la virata e riportare l’aliante in velocità, sia con il piede che con la barra, avrebbe portato ad una traiettoria di collisione o innescato un’inevitabile vite, a pochi metri dal costone. Aprire la virata e affondare, con il vento in coda ed i costoni a pochi metri, era ormai impossibile. Mi sentii morto. Non fu così ! Non so cosa abbia tenuto su il generoso Janus che fu in grado di completare quella disgraziata virata.

Ci allontanavamo dal costone. Di getto quasi con rabbia afferrai la barra e strappandola di mano al mio compagno buttai in una ripida affondata il candido veleggiatore. Ora sì, a dieci metri dai sassi, ma a 140 all’ora! E gli gridai “… se vuoi fare viti e tonneau, fai pure, che mi piacciono anche tanto, ma con almeno 1000 metri sotto!” Solo allora il mio compagno si rese conto del pericolo corso e silenziosamente si pose in posizione di rientro asserendo “… se le termiche sono deboli bisogna volare lenti altrimenti le perdi.” Al che risposi “meglio perdere una termica che lasciarci la pelle!” Al ritorno a terra ci congedammo; non volle neanche che contribuissi al costo del traino. Potevo morire “gratis”.

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Si può morire per inesperienza ma anche per troppa esperienza. Mi spiego; chi ha volato con molti mezzi, in molti luoghi, assume un atteggiamento di acquisita sicurezza scontata , in quanto in fondo sono cose che ha fatto centinaia di volte ed è scontato che l’aliante stia su, ci mancherebbe … ERRORE !! Quante volte abbiamo perso dei compagni misteriosamente e non sappiamo capacitarci di cosa possa essere successo lassù?  Amici, OCCHIO! Non abbassiamo mai la guardia!   Risalgo nella storia dell’aviazione con il ricordo del grande Arturo Ferrarin, che dopo aver sfidato elementi – uomini – e macchine, aver toccato con il suo traballante biplano la Cina e con lo sperimentale SIAI S-64 anche il Brasile, il 18 luglio 1941 rimase vittima di una banale distrazione: sull’aeroporto davanti a casa in volo a bassa quota per controllare la spia del carrello … entrò in vite!      


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Claudio Cavolla