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L’autobus volante

Gli piaceva sognare, sognare ad occhi aperti. Gli bastava aprire quei grandi occhi cerulei per ritrovarsi ad esplorare mondi inconsueti, di nessun altro se non suoi … suoi e basta! Era stato proprio per meglio viaggiare in quei mondi fantastici che in un caldo pomeriggio di primavera Vanni aveva deciso di metter su casa in un vecchio autobus in disuso, uno di quelli di un tempo che fu, dalla carcassa color verde oliva. Il sole picchiava duro quel giorno di maggio; l’asfalto sembrava fumare sotto ai suoi piedi stanchi e fu allora che Vanni si accorse di quel torpedone dai fari tondi simili a due occhi tristi e dalle gomme sgonfie come piedi indeboliti dal tempo impietoso. Egli si avvicinò e, con circospezione, introdusse la testolina al di là di una delle porte aperte così da poter perlustrare velocemente l’interno del mezzo. Nulla vi era dentro e la cosa sembrò sollevarlo parecchio, così salì a bordo spedito. Aveva camminato parecchio, Vanni, e proprio per questo, non appena entrato in quell’abitacolo squallido e tuttavia accogliente, si distese sui seggiolini che componevano l’ultima fila e si mise a pensare osservando la vecchia obliteratrice, particolare che gli fece ripensare al suo primo viaggio in autobus da solo, a 10 anni, per puro spirito di indipendenza. Batté le palpebre una volta, poi una seconda e, alla terza, dopo un lunghissimo sbadiglio, stanco come non mai, si addormentò profondamente.

Come per magia le porte si chiusero, i motori si accesero e le gomme, di colpo rinvigorite da un getto d’aria imponente, tirarono su quella carcassa stanca. Due colpi di clacson, uno di acceleratore e tutto fu pronto sotto lo sguardo sbigottito del ragazzo. svegliatosi da tutto quel fracasso. Vanni si stropicciò forte gli occhi, quindi udì una voce provenire nitidamente dal vano motore: “Ehm … prova! Ci scusiamo con il nostro unico passeggero per gli improvvisi cali di voce cui saremo soggetti … ma le nostre cinghie vocali potrebbero essersi danneggiate durante questi lunghi anni d’inattività, pertanto le consigliamo di prendere posto sul sedile del conducente e di tenersi forte: potremmo incappare in fastidiose turbolenze!”. “Turbolenze? Ma se in strada il sole sembra cuocere ogni cosa e di vento non c’è neppure l’ombra!” replicò Vanni d’istinto. “In strada no … ma in cielo … chi lo sa?” rispose, misterioso, l’autobus. “In cielo?”. Fu proprio in quell’istante che il bus si mosse cigolando un po’ qua e là emettendo una gran nuvola di fumo grigio. L’avvio fu molto lento ma sempre più deciso. Vanni osservava tutto con incredulità ma con sempre maggior curiosità. Decise di stare al gioco. “Dove si va?” chiese con tono di sfida. “Voglio farti vedere una cosa” gli rispose il mezzo con voce pacata e poi aggiunse: “Credo che tu non sappia tantissimo di ciò che avviene nel mondo. Sei così giovane!!”. “Può darsi, ma si può sapere dove andiamo?” tornò a chiedere Vanni con tono un po’ più preoccupato e meno spregiudicato di prima. “Non preoccuparti! Pensa solo a rilassarti: al resto penserò io!” concluse la voce. Vanni si tenne saldamente ai braccioli e chiuse forte gli occhi. Quando fece per riaprirli si sporse leggermente dal finestrino alla sua sinistra e rimase di sasso. L’autobus sembrava avvolto da un gran batuffolo di bambagia. Il ragazzo non capiva dove si trovasse ma una risposta ai suoi dubbi giunse non appena il vecchio mezzo pubblico riuscì a liberarsi da quello strato di morbida consistenza. Con tono sempre più allarmato quasi urlò sobbalzando dal sedile: “Ma quella è la Sicilia! Mi sembra di guardare un mappamondo! A che altezza siamo?” “In alto! Molto in alto ma solo mantenendoci così alti riusciremo ad accorciare notevolmente i tempi. Di strada da fare ne abbiamo ancora tanta!”. Vanni provò a non far più domande; già che c’era voleva vedere come sarebbe andata a finire quella situazione così strana. Sentì un rombo via via più imponente, fortissimo, poi un suono come di tromba da stadio “PARAPARAPPAPPARAPA’”. Si voltò nuovamente e si trovò a pochi metri da un “Jumbo” che gli parve immenso. Quasi fuse la sua fronte al vetro del finestrino e focalizzò il pilota dell’aereo che si sbracciava come un vigile urbano al centro di un incrocio. Il pilota abbassò il vetro ed urlò: “Se vi fate un attimo da parte magari noi riusciamo a passare!!” A Vanni venne da ridere perché mai avrebbe pensato ad una situazione simile. Dall’autobus la solita voce replicò: “Ma se il cielo è così immenso … !!”. “Si, è immenso”, gli rispose il pilota ad alta voce ma con garbo, “ ma, per mille cornacchie!!! Vi siete messi proprio in mezzo alla nostra rotta!!”. L’autobus, con uno scatto nervoso virò stretto e, finalmente, il “Jumbo jet” passò. Vanni continuò a seguire con lo sguardo l’enorme aereo che si allontanava e notò il braccio e la mano del pilota fuori dal finestrino a mo’ di saluto, in segno di ringraziamento. Anche il loro viaggio riprese, ma più lentamente. Da quell’osservatorio privilegiato, vide mari e monti, meravigliose tinte ed uniche sfumature di verde e di azzurro ed ancora vide foci di fiumi e picchi innevati, coste schiumose e sabbiosi deserti senza fine. Viaggiarono e viaggiarono ancora lambendo le vette più alte. Fu proprio a quel punto che Vanni si ritrovò catapultato verso la sua destra e, mentre stava per protestare per quella manovra azzardata, nuovamente verso la sua sinistra fino a ritrovarsi col sedere nel corridoio, sul duro pavimento del torpedone. “Che succede, adesso?” chiese Vanni. “Sono gli uccelli migratori! Abbiamo beccato un grosso stormo e ci siamo ritrovati proprio in mezzo a loro ma, come avrai notato, l’ho schivato brillantemente come un pugile sul ring sotto i colpi del suo avversario”. “Sì” proseguì Vanni, “ma, caro il mio pugile, ti sei accorto di quel pennuto con la zampa incastrata nel tergicristallo?”. “Oh … mamma mia!!” fu tutto quello che l’autobus riuscì a dire. La grande spazzola iniziò a muoversi alternativamente da destra a sinistra nel tentativo di consentire all’uccello di divincolarsi ma l’operazione non andò a buon fine. Vanni vide un nugolo di penne e piume sollevarsi in aria finché non scorse quel grosso uccello, un po’ stordito, riprendere il suo volo. Finalmente l’autobus si decise a rivelare: “La nostra destinazione è Kabul, caro amico, ma non aver paura: saremo prudenti!”. “Perché proprio una città così pericolosa?” chiese il ragazzo. “Perché dietro a tutto quello che hai visto in tv … beh … potrebbe nascondersi altro”. Vanni annuì fiducioso, appoggiò il capo sul vetro del finestrino e, piano piano, sbadiglio dopo sbadiglio, s’addormentò. “Guarda!!” fu l’esclamazione che lo ridestò. Vanni si stropicciò gli occhi e guardò l’orologio: era fermo! Pensò d’aver sognato ma gli bastò tornare a guardare di lato, attraverso il vetro alla sua sinistra, per rendersi conto che non era affatto immerso in alcun sogno. “Quello lì è un ospedale. Siamo arrivati! Aspetta, atterriamo!”. Il pesante mezzo, leggiadro come fosse un foglio di carta in balìa del vento, fece per girare attorno a sé stesso, poi puntò deciso verso terra. Il passeggero si tappò gli occhi con le mani, impaurito ma anche impaziente di comprendere ciò che non aveva ancora capito. Quando l’autobus toccò terra, finalmente, il ragazzo udì un forte soffio, quasi un enorme sospiro provenire dal motore mentre la voce che gli aveva tenuto compagnia durante quel viaggio dalla durata indefinita riprese a dire, con foga e convinzione: “Vedi? Dietro a quelle mura vi è solo dolore, vi è solitudine, povertà. Dietro a quelle mura vi è l’oscuro lavoro, mai raccontato, di tanta gente generosa che quotidianamente rischia la vita anteponendo la sofferenza degli ultimi, degli ammalati, degli abbandonati ma, soprattutto, ci sono centinaia di occhi come i tuoi: occhi speranzosi che avrebbero potuto creare, inventare, comporre e che, invece, non sono più capaci neppure di comprendere che anch’essi possono aspirare ad avere un domani. Vorrei che ciò ti facesse rendere conto che dietro agli imponenti proclami di giustizia e di nobili propositi raramente attuati può esserci tanta ipocrisia, il dolore mai valutato abbastanza della gente comune, c’è la sofferenza, la morte ma, soprattutto, c’è il potere ed il denaro di chi usa questa gente nascondendone al mondo intero le inumanità subite”. Poi, d’un tratto, la voce si calmò, si abbassò ed aggiunse: “Adesso, se vuoi, ripartiamo”. “No! Io rimango” fece Vanni fiero, issandosi sulle sue gambe col petto tronfio e gonfio di entusiasmo. “Rimango anch’io” replicò il vecchio bus. I fari si spensero come il motore, le porte si aprirono e da quel magico bus corse fuori un nuovo combattente, più forte che mai, deciso ad inondare d’amore e di sogni tanti altri giovani, potenziali sognatori, proprio come lui.

Un rivolo di sudore scese lungo la sua tempia sinistra fin sulla sottostante guancia e lo solleticò fino a costringerlo a riaprire gli occhi. Vanni si drizzò sul sedile, lo sguardo corrucciato e i capelli scompigliati di chi aveva dormito profondamente ed aveva sognato … un sogno che gli era parso fin troppo vero. Ancora solo, all’interno del vecchio bus, si sollevò sulle gambe e si avviò verso la porta più vicina; la oltrepassò, si voltò ancora una volta a guardare quel mezzo che lo aveva così ben ospitato e si diresse verso un bar, dall’altra parte della strada. “Buongiorno” fece Vanni entrandovi e rivolgendosi alla cassiera, “ha mica un elenco telefonico?” “Certo! Tenga!” rispose lei porgendoglielo. Deciso come non mai, il giovane lo sfogliò fino a che non trovò ciò che cercava: “Ecco! … Emergency!! 06-688151”. Copiò il numero nella rubrica del suo telefonino ed andò via, complice lo strano sogno che aveva fatto, a dedicare la propria vita agli ultimi, in un paese lontano, laddove però, è molto difficile arrivare con un vecchio autobus volante!


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Ivan Trigona

Il pilota di linea

«Signore e signori benvenuti a bordo». Quella mattina, come tutte le mattine, mi presentai. Avevo appena ultimato la procedura di decollo, lo ricordo ancora, guardai con attenzione dietro di me. «Slacciate le cinture di sicurezza, il comandante vi augura buon viaggio». Osservai la tensione proprio mentre s’attenuava dentro agli occhi, mi dava grande sicurezza sapere di poterla controllare con due semplici parole. Ripresi i comandi. Pensai al mio lavoro e alle mie responsabilità. Non potevo fare a meno dei miei dubbi. Sono un pilota di linea, porto passeggeri virtuali in giro per il mondo. Niente di male, certo, ma  tutto quello che è è finto: finto l’aereo in cui ci troviamo, finto il paesaggio che si muove attorno a noi,  finti i suoni e i colori, la notte e il giorno. Finto tutto, finte persino le casualità. E poi è tutto previsto, anche il momento esatto in cui cade una foglia, una semplice formula matematica, giusto quattro nozioni di algebra stagionale. Poco più complesso, invece, un prurito al naso: trigonometria del tatto. Il mondo attorno a noi è  un foglio a quadretti che illude la noia, solo un maledettissimo calcolo perfetto.

Sentii un brusio. Mi ritrovai con lo sguardo fisso sulla cloche. Alzai gli occhi: «Cristo!». Montagne vicinissime, pericolosamente vicine. Inevitabili. Vidi lo schianto davanti a me. Non avevo tempo per virare, forse neanche per pensare. Mossi un dito, d’istinto, cambiai uno dei tanti parametri ambientali. Clic. Le allontanai a sufficienza. Ora mi trovavo in una pianura infinita. Le montagne erano laggiù, basse, lontane quel che basta all’orizzonte, innocue. Non è successo nulla. Qui non succede – mai – nulla. Nulla di irreparabile perlomeno. Il brusio calò immediatamente, era complice. Mi rimproverai un po’ per questa paura ingiustificata. Anche se non fu del tutto rilassante, anche se – dopo – tutto è diverso… be’, ricordo che ci divertimmo un sacco per questo fuori programma del listino. Normale quindi, avevo molta simpatia per i miei  passeggeri, e a volte provavo anche compassione.  Avrei voluto dirgli che fuori c’è davvero spazio per tutti. Avrei voluto rassicurare questi occhi allegri, troppo allegri. Ma anche  questo poteva essere previsto, e lasciai perdere.

M’interrogavo sempre sul vero scopo di ogni cosa. Per esempio mi chiedevo se davvero – il fine –  è fatto per noi o se, invece, serve solo per dare lavoro a chi ci conduce sul mezzo. Pensavo a me, al mio lavoro e al mio scopo, guardavo sempre il capolinea di ogni cosa, non riuscivo ad allontanarmi dal dubbio, o meglio, mi sentivo parte integrante di questo dubbio. Proprio come mi sentii, in un primo tempo, quando allontanai le montagne come e dove  mi faceva più comodo. Poi, poco dopo, appena le raggiunsi di nuovo, e recitai.

«C’è turbolenza». Lo dissi perché andava detto, per dare qualche brivido. Azionai il sistema di simulazione di perdita di quota. Anche questa turbolenza era solo una clausola del destino, uno stupido supplemento del biglietto. E io? Io ero davvero un pilota? Forse un volgarissimo e insignificante attore. Indubbiamente una parte di me recitava un ruolo perché doveva adeguarsi al sistema. Ma tutta un’altra parte, invece, ne pativa l’umiliazione, scalciava. S’ingegnava a risolvere. Più che altro, credo, s’infastidiva. Era combattuta tra i miei doveri d’adattato e la mia reale identità. Eccomi lì, invece, versavo da bere a gente assetata di cristalli liquidi, barzelletta di me stesso, costretto a fingere stupore,  strumento di carica per fantasie spente.

Decisi di fare quel che dovevo fare. «Cambierei rotta». Per la prima volta quella soporifera giostra per bambini diventò un aereo. Virai. Virai alla ricerca di un po’ di terrore autentico. E lo trovai eccome, tra le urla, appena arrivarono le prime vibrazioni dello stallo. L’aereo in piedi nel vuoto. L’avvitamento. «Cazzocazzocazzo, questa sì che è paura!». Poi lo trovai ancora, giù, nel vortice della vite, e poi ancora nella mano di qualcuno, nel disperato tentativo di aggrapparsi a me, tra i fogli di bordo arrotolati alle forchette,  nelle tende appiattite sulle pareti, nel rumore sordo dei motori tra l’acuto del terrore, nel precipizio della centrifuga di ogni cosa.  In quella frazione di tempo – il tempo stesso – si dilatò. Ognuno di noi, finalmente, poteva ascoltare le proprie preghiere. Fu la forza dell’incertezza che, se presa sul serio, fa riflettere. Fu il tempo, che, per una volta, nessuno poteva controllare. Forse fu solo una semplice follia, ma – forse – anche solo quello che mancava.

Il viaggio finì presto. Il sistema fermò tutto in automatico, appena in tempo, poco prima dello shock emotivo. Qualcuno mi volle addirittura all’ergastolo, ma anche qui non successe nulla. Pensate, non solo non riuscirono a licenziarmi, ma rischiai anche una dolente promozione. Ora sto volando infatti. E, a dire il vero, proprio adesso avrei la forte tentazione di rifarlo. Ma – oggi come oggi – proprio non potrei più permettermelo: ora che il suicidio virtuale è stato programmato. Ora che anche questo è diventato uno svago.


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Webrezza

Il volo

Se ne stava immobile da ore. La natura pareva avesse colto la sua necessità di immobilità e di solitudine: la brezza che spirava quando era andato a sedersi su quella scogliera a strapiombo sul mare si acquietò, persino i chiassosi gabbiani parvero intuire questo suo intimo bisogno e si allontanarono in stormo verso il mare aperto dove un piccolo peschereccio issava le reti arrivando a nasconderlo completamente allo sguardo dell’uomo. Ma “lui” non stava guardando il peschereccio col suo scudo animato, non stava guardando l’azzurro del mare sottostante, ad una distanza vertiginosa; e non ne ascoltava la voce sommessa, il sussurro del frangente sullo scoglio simile ad una dolce ninna nanna. Se la madre lo avesse visto appollaiato lassù, in bilico fra la fragile roccia ed il nulla … lei non sapeva di quelle sue uscite. Quando usciva di casa per una qualche necessità e nessuna delle sue tre figlie poteva andare a badare al fratello lei sprangava le porte in maniera che lui non potesse uscire, in modo da proteggerlo da se stesso e dalla sua incoscienza del mondo e dei suoi rischi. Qualche ben pensante potrebbe obiettare che si trattava di una barbarie, ma provi pure ad andare a dirglielo a quella donna che quel figlio “demente” lo aveva tirato su da sola con tutto l’amore che una madre può dare, con tutte le attenzioni e le cure che il suo stato richiedeva, con sacrificio anche (ma mai se ne era lagnata). Quelli dei servizi sociali avevano provato ad aiutarla ma lei niente, non aveva mai accettato l’aiuto di nessuno al di fuori della sua famiglia. Da che era rimasta vedova, maledetto quel mare che aveva inghiottito il suo uomo!, aveva tirato avanti con la misera pensione che arrotondava vendendo al mercato i prodotti del suo orto e prestando alcune ore della sua giornata a servizio in casa del prevosto, un sant’uomo che avrebbe potuto anche risparmiarli quei soldi … ma aveva compassione di lei e di quel figlio innocente!! Aveva imparato, GiuseppeDiCrisquo (sputava il suo nome tutto d’un fiato per non inciampare nella sua balbuzie), “Peppino o’ tardo” come lo chiamavano gli altri quando nessuno della famiglia o il prevosto erano nei dintorni, a vivere in un mondo tutto suo che non aveva porte o finestre chiuse che potevano contenerlo: lui comunque viaggiava, correva, volava nel cielo, libero e senza barriere. Gli bastava chiudere gli occhi … Poi, casualmente, aveva scoperto un passaggio verso l’esterno: verso la cantina, alla quale si accedeva, tramite una stretta scaletta malamente illuminata, da una botola ricavata nel pavimento, quasi sotto il lavello della cucina, si apriva dall’esterno una finestrella, seminascosta dai cespugli di odoroso rosmarino. Si apriva proprio sopra un banco da lavoro, uno di quei vecchi banconi con le morse in legno, sul quale il padre eseguiva i piccoli lavori di manutenzione, ormai mezzo fradicio, sul quale era così facile salire per scavalcare la finestrella ed uscire all’aperto. Così, ogni volta che sentiva dare le mandate alle porte dopo che sua madre gli aveva rinnovato tutte le sue raccomandazioni e lo aveva salutato, GiuseppeDiCrisquo sollevava la botola, scendeva le scalette, saliva sul bancone da lavoro e scivolava fuori, nell’orto, dietro alla casa dove la madre, anche se si fosse voltata non avrebbe potuto vederlo. Faceva a corsa i pochi metri che lo introducevano nella macchia mediterranea dietro all’orto, quasi volando, eppoi via verso la scogliera. Da lì poteva volare anche senza chiudere gli occhi, semplicemente spingendo lo sguardo sul mare, oltre la linea dell’orizzonte, oltre le nuvole che spesso vi si addensavano, non prestando alcuna attenzione ai pescherecci ed ai loro scudi animati, né alla voce del mare ora rombante e cattiva, come quella sera che il mare s’era ingoiato ‘Ntonio, ora dolce e sussurrante come la voce di una mamma che canta fra i denti la sua ninnananna. Restava per delle ore lassù, appollaiato su quella scogliera dove nessuno aveva il coraggio di arrivare, tanto alto e scosceso era lo strapiombo. Ma lui osava perché conosceva il cielo e l’arte del volo, lui falco e gabbiano, lui albatro migratore … lui GiuseppeDiCrisquo volava … volava, esplorando il cielo, esplorando il mare col suo volo radente, si spingeva oltre i confini del mondo e del cielo … ad incontrare gli angeli ed oltre, forse fino al cospetto di Dio. Gli parlava di Dio, il prevosto, ogni volta che andava a trovarlo e tutte le domeniche in chiesa quando lui se ne stava a testa bassa per non incrociare gli sguardi degli altri fedeli (negli occhi della gente non era mai riuscito a vedere Dio e nemmeno uno spicchio di cielo), non parlava che di Lui Don Carmelo e ne parlava con affetto, con devozione e con convinzione, come uno che lo avesse visto molto da vicino. Ma Peppino o’ tardo sapeva che non era così, che anche Don Carmelo ne parlava per “sentito dire” e quello che descriveva non era Dio, perché non aveva mai descritto l’azzurro del cielo come lui lo vedeva, mai la rabbia o la quiete del mare sopra il quale planava … perché il prete non sapeva volare e non era falco o gabbiano, né l’albatro migrante. Se ne stava immobile da ore. D’intorno era quiete quando “lui” si alzò in piedi; scrutò nuovamente oltre l’orizzonte ascoltando la voce sommessa del frangente sullo scoglio ove gli parve di udire il richiamo degli angeli amici, forse di ‘Ntonio che lo stava chiamando dal mare come faceva al rientro dalle sue uscite prima che il mare famelico lo inghiottisse in un boccone,… chissà quale voce sentì raggiungergli il cuore. S’incurvò in avanti, GiuseppeDiCrisquo, la testa protesa, allargò le sue ali immense come d’albatro gigante e spiccò il volo dall’alta scogliera verso l’orizzonte ed oltre … volava … volava verso quel richiamo che nessuno mai saprà udire di nuovo. Scomparve, Peppino o’ tardo, ingoiato dal mare, che mai restituì il suo corpo tanto che la povera madre si creò l’illusione che gli angeli lo avessero prelevato direttamente dalla sua stanza per portarlo fino al cospetto di Dio. Ed il prevosto Don Carmelo iniziò a sognare il cielo d’un azzurro che mai aveva immaginato sovrastare un mare che sapeva cantar ninne nanne come mai nessuna madre aveva saputo fare. E nel cielo volteggiava uno strano uccello, fra il falco e il gabbiano … o un albatro gigante. Capì Don Carmelo, … finalmente capì i colori di Dio.


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Walt

Nubila Caeli

Aeneadum genetrix, hominum divumque voluptas, alma Venus, caeli subter labentia signa quae mare navigerum, quae terras frugiferentis concelebras, per te quoniam genus omne animantum concipitur visitque exortum lumina solis: te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli

LUCREZIO: De Rerum Natura, invocazione a Venere (incipit)

I

E’ tutta, come sempre, una questione d’amore. Mi avvicino all’hangar con le chiavi ed il telecomando. Apro la porticina e accendo le luci. D’improvviso, nella fuga prospettica del capannone, appaiono nell’incerta illuminazione gli aerei. Essi più che immobili, appaiono come sospesi in una diversa dimensione e mi fissano traboccanti di un’inespressa energia. Tra impennaggi e carlinghe intravedo verso il fondo il mio aereo dalle bande verdi e grigie, so che mi sta aspettando. Lo raggiungo, come ogni volta lo guardo affascinato sfiorando con la mano la superficie di alluminio verniciato delle sue ali, è tutta, come sempre, una questione d’amore. Spalancando i portoni scorrevoli una valanga di luce invade l’hangar, con le mani strette sulle radici delle pale dell’elica trascino senza fatica il Portoghese Volante nel prato. “Portoghese Volante”: così chiamo il mio ultraleggero tre assi di progetto portoghese. Incomincia la ritualità dei controlli esterni, mantra necessario per involarsi. Cerco di concentrarmi per riempire di significati concreti quella sequenza di operazioni antiche a me trasmesse dall’istruttore e a lui pervenute attraverso una lunga genealogia di bravi volatori. Controllo le copiglie, saggio la tensione dei cavi di comando, verifico il serraggio dei bulloni ed il libero movimento delle superfici mobili. Tutto pare in ordine, anche la pressione dei pneumatici, come lo stato dell’elica: è arrivato il momento di salire. Seduto a sinistra, il posto del pilota, si fa più forte l’emozione, giro la chiavetta del master, la prima lucina già si accende sul cruscotto, tiro su gli interruttori dei magneti, urlo, al nulla pieno della luce del mattino, ELICA! Ed accendo. L’aereo sussulta e si mette in moto. Ora inizia un altro rito, un’altra sequenza necessaria per appartenere, in una frazione di vita, al cielo. Inserisco l’avionica, accendo la radio, controllo il livello della benzina, gli strumenti di bordo e regolo l’altimetro. Vedo i vigneti attraverso il disco iridato dell’elica, non volo ancora ma già da ora non appartengo più alla terra. Spingo piano la manetta, incomincio a muovermi sull’erba verde del prato destinazione punto attesa UNOZERO. La pista sfila lentamente alla mia destra mentre va in temperatura il cuore metallico del motore. All’estremo della pista freno, mi fermo in diagonale per gli ultimi controlli, l’ultimo mantra prima del grande balzo. Spingo a quattromila giri il motore e controllo il suo pulsare nell’alternanza dell’inserimento dei magneti: tutto a posto. Riduco il motore al minimo: milleseicentocinquanta giri, e quello gira ancora rotondo: tutto a posto. Eseguo, come previsto, la chiamata radio per avvertire l’etere cosmico che l’INDIAALFA … va in decollo immediato per la UNOZERO, nessuno risponde. TUTTO A POSTO! Sulla pista manetta tutta avanti, l’aereo vibra e con un guizzo tende ad imbardare a sinistra ma intanto la macchina corre sempre più veloce. Ad ottanta chilometri l’ora, fatico a tenere l’aereo nella direzione della pista, lo sento leggero attraverso i comandi, è arrivato il momento di alzarsi. Rotazione. Appena tiro la cloche verso di me il verde della pista, gli hangar e la manica a vento sprofondano ed il muso del Portoghese Volante punta senza incertezze verso l’azzurro del cielo, screziato dal bianco delle nuvole.

II

L’ombra dell’aereo, prima a questo unita, appare ora alla sinistra come grigia traccia frastagliata che fugge alla mia stessa velocità su prati e vigneti delle colline. Intanto il Portoghese Volante arranca alla massima potenza con un rombare vigoroso verso la quota di crociera, mi concentro nel regolare la posizione della cloche per mantenere il più possibile costanti e nei loro corretti valori assetto e velocità di salita.

Se al decollo ti pianta motore Pensa alla mamma ed al primo amore …

Così cantavano nel secolo scorso gli allievi piloti della Regia Aeronautica, ma ancora una volta il motore austriaco esegue il suo dovere a puntino. Dopo pochi minuti raggiungo la quota di duemila piedi. E’ora di livellare: abbasso il muso, riduco la potenza e ritiro i flap. Quattro dita sotto l’orizzonte: questa è la regola aurea per dare il giusto assetto all’aereo in crociera traguardandone il suo muso sotto le incerte creste degli Appennini lontani. Il paesaggio collinare sotto di me ha assunto l’aspetto di una concava immensità verde e bruna. Paesi, cascine boschi e strade, noti fin dalla prima giovinezza, assumono al tempo stesso un aspetto diverso e famigliare. E’ come vedere luoghi noti attraverso la lente stravolgente del sogno. Nuove ed insospettabili relazioni tra luogo e luogo, ignote da una visuale terrestre, risultano invece evidenti dal cielo come le sequenze dei villaggi sulle dorsali collinari. Sto volando, appartengo al cielo, il senso di libertà è temperato dalla consapevolezza di dover condurre in totale responsabilità e completa sicurezza il mezzo volante nell’oceano d’aria. Prima virata verso levante, la semiala a sinistra sprofonda, mentre l’altra si alza nel cielo, la manovra è corretta con la pallina del virosbandometro fissa in centro, l’aereo corre sicuro come se virasse su binari invisibili. Ora dirigo verso il primo paese appollaiato su di un’alta collina, il villaggio scivola sotto di me con la punta del campanile e i merli della torre che paiono sfiorarmi a centosessanta chilometri l’ora. Mi sono prefisso, con questo volo, di raggiungere la costa Ligure: taglierò la Langa con una rotta sud-ovest fino a portarmi sull’intorno della città di Ceva, da qui con altra rotta questa volta di sud-est guadagnerò il Mar Ligure all’altezza di Noli. Dopo aver attraversato quella linea immaginaria che congiunge il monte Settepani con le sue foreste verde scuro al lago di Osiglia dalle acque blu cupo, incontrerò quell’azzurro più chiaro del mare. Arrivato sulla costa cercherò allora, tra cielo ed acqua, quella linea dell’orizzonte probabilmente indefinita e forse già perduta nella lontana foschia. Per il ritorno, nessun problema: si risale la costa ligure verso Levante, a Savona Vado, si continua con una virata tranquilla sulle due torri della centrale ENEL, direzione Cairo Montenotte. Da qui individuerò facilmente, sui quadranti del nord, la mia montagna: il Bricco Puschera con il suo caratteristico bosco tagliato di netto che corona la sua sommità. Da questo monte è facile individuare le colline che circondano il mio campo volo ed arrivare a casa. Bricco Puschera, ogni volta che m’imbatto in questa maggior elevazione astigiana così chiaramente, almeno da me, individuabile tra le cime appenniniche, mi tornano in mente le parole di Alessandro Manzoni quando descrive nei Promessi Sposi il suo … Resegone dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune …

 

III

L’aria è immobile come un cristallo, l’aereo si muove senza incontrare per ora turbolenze. I possenti bastioni della Langa vengono incontro veloci, abbandono quindi il volo livellato per dare più assetto e guadagnare quota per mantenere un franco d’altezza minima sulle sommità. Sorvolo boschi e vigneti, passano sotto di me una sfilza di paesi con le loro torri, chiese e castelli. A tratti compare, a volte più piccola, a volte più più grande secondo il gioco dell’altezza, l’ombra del Portoghese Volante: incerta e fuggente compagna di viaggio. Ho sempre avuto paura delle altezze, forse non si trattava propriamente di vertigini, ma l’affacciarmi da un balcone di un alto palazzo come il salire su di una torre campanaria mi ha sempre dato un forte senso di profondo disagio se non proprio di terrore. Il fatto di non provare tale sensazione nel volare sia come passeggero ma soprattutto come avventizio pilota dell’aviazione leggera, mi aveva inizialmente sorpreso. Se comunque è forte la sensazione che dà il volo, con tutti i sensi tesi a percepire il più possibile le accelerazioni, i rumori e i palpiti dell’aereo per controllarne l’assetto e lo stato del volo, d’altro canto il terreno, il paesaggio mi appaiono per la maggiore come uno sfondo, una quinta necessaria per il volo ma da me emotivamente separata; questo vale anche quando una precisa stima della distanza da terra diventa fondamentale per la sicurezza come durante gli atterraggi. Talvolta però la mia attenzione si concentra, chissà perché, su di un particolare qualsiasi del terreno: non so una macchina oppure un cartellone pubblicitario. Allora il vedere tali oggetti famigliari così minuscoli mi fa immediatamente percepire il senso reale dell’altezza a cui sto volando ed il baratro di centinaia di metri che separano me stesso, chiuso nell’abitacolo di alluminio e plexiglas, ed il terreno. Per superare il senso d’inquietudine che mi piglia mi volto indietro e attraverso i vetri posteriori della cabina fisso gli impennaggi di coda: il tutto apparirà una cosa un poco originale, ma li vedo così possenti, alti e sicuri nel loro lavoro di stabilizzare il volo che mi tranquillizzano, quasi mi dicessero: vai avanti tranquillo, ci siamo noi! La radio muta a terra, grazie all’altezza che favorisce la propagazione delle onde cortissime, ora raccoglie un’ininterrotta teoria di comunicazioni da altri piloti in volo come me. Attraverso le cuffie ricevo, in cadenza lombarda, richieste di informazioni per l’atterraggio a Cogliate le quali si mescolano a messaggi di volo da motoalianti in accento savonese: in ogni caso tutta questa ridda di voci, in puro idioma aeronautico, fatta di sigle, di numeri, di ALFAFOX e QUENNEACCA invece di infastidirmi mi danno un senso di compagnia in questo mio vagabondare solitario sul nordovest italiano.

 

IV

Intanto il mio volo continua tagliando le dorsali delle Langhe in diagonale. Alla mia sinistra, distante forse un centinaio di metri e quasi alla mia altezza, si materializza all’improvviso la forma nera di un rapace, dico “rapace” perché non so definirlo meglio: chissà forse è un falco o una poiana. Planava tranquillo a centinaia di metri dal suolo, quando si accorge di me, infastidito sicuramente dalla presenza rumorosa del mio aereo in un attimo chiude le ali e va giù a capofitto. Proprio così! Non fa altro che chiudere le sue lunghe ali e con questo gesto elegante scompare alla mia vista. Affascinato lo cerco verso il basso e mi pare di vederlo ancora: ma no! Quello che vedo ora è ancora l’ombra lontanissima del Portoghese Volante che, instancabile, m’insegue sul terreno. Il tempo sta cambiando rapidamente: mi accorgo dal fumo di qualche falò che arriva un vento dagli Appennini. Non è lo scarroccio che mi preoccupa ma il fatto che con il vento arrivano dal mare nuvoloni grigi e stratificati. Devono essere, se non ricordo male, strati e stratocumuli: nuvole di per sé non particolarmente pericolose se non per il fatto che la loro base è molto bassa. Non sono ormai lontano dalla fine del tratto di rotta sulle Langhe. Volo a circa tremilacinquecento piedi di quota: non ci sono che cinquecento piedi di separazione rispetto all’ultima sommità collinare che mi separa dalla valle Tanaro, ma nello stesso momento un promontorio nuvoloso si addensa repentinamente avvicinandosi con il suo orlo inferiore alla dorsale. Non mi resta che ridurre motore e quota ed infilarmi nello stretto passaggio tra nuvola e cresta. Al passaggio, dal mio punto di vista, la nuvola assume allo stesso tempo un aspetto bello e terribile: a poca distanza da essa la sua base prende l’aspetto e la consistenza del liquido. Mi pare di volare sotto un lago rovesciato, un lago di piombo fuso. E’ tutto un attimo, supero l’ultima cima di Langa e si spalanca sotto di me la valle di Ceva, nuovamente inondata dal sole che appare tra le formazioni nuvolose. E’ ora di ridare motore e compiere una leggera virata a sinistra per mettere la prua verso la valle di Bagnasco. Le condizioni meteorologiche vanno però continuamente peggiorando non solo per i rotori innescati dal vento del mare che adesso si fanno sentire fastidiosi a ridosso dei rilievi, ma dal compattarsi del fronte nuvoloso che avanza inesorabilmente da sud. Volo ancora forse per meno di due minuti e vedo il profilo dei primi Appennini che scompare nel grigio delle nubi: la via del mare è chiusa non posso andare più oltre. Allora lunga virata di centottanta gradi a destra, sfiorando i contrafforti delle montagne, con la corona della bussola che, rotando su se stessa, segue con qualche incertezza il cambio di prospettiva. Se l’attraversamento delle montagne mi è vietato, non tanto meglio pare il riprendere la rotta delle colline da dove sono arrivato. Sto quasi decidendo di raggiungere il mio approdo facendo un largo giro sull’alta pianura piemontese, quando vedo un passaggio più a nord ancora libero tra una sella che s’incunea nel profilo delle Langhe ed il bordo inferiore grigio scuro delle nuvole. Vado di manetta ed attraverso questa finestra del cielo con il Portoghese Volante che romba deciso. Ora sto volando verso il campo seguendo l’asse di una valle in direzione nord-est. Volo basso perchè il cielo è basso, ma la visibilità almeno davanti a me è quasi perfetta. I paesi sullo spartiacque che prima sorvolavo ora mi sfilano fianco a me quasi alla mia altezza. Volo in un alternarsi fantastico d’improvvise oscurità sotto le nubi e cascate di sole che s’inseguono con l’attraversare il gioco delle linee d’ombra e di luce del cielo. Le striature delle gocce di pioggia che raccolgo sul parabrezza brillano poi gioiose alla luce del cielo quando ridiventa sereno. Ecco all’orizzonte intravedo le mie colline: i punti di riferimento che indicano il campo volo. Ora le ultime virate, le sequenze codificate per la procedura d’atterraggio conclusiva.

 

V

Sono in finale, ovvero sto percorrendo l’ultimo tratto di volo con il mio aereo: su quel segmento di retta, su quella traiettoria che mi porterà sul campo. Il motore al minimo ronfa tranquillo a duemila giri. Con i flap tutti inseriti scendo con la velocità al minimo; gli impennaggi di coda mi rassicurano che anche ora tutto va bene! Sono sul campo, tiro verso di me la cloche. Ancora una volta ecco la magia dell’atterraggio, per qualche secondo il Portoghese Volante sembra sospeso nell’aria, poi con le ruote posteriori sfioro l’erba della pista. In quel momento, solo in quel preciso istante l’aereo e la sua ombra si ricongiungono nel segno di una ritrovata e ricomposta unità.

 


 

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Paolo Vaccaneo

16 maggio 2008 – Dismissione KC707A

L’odore del mare … eh, sì, l’odore del mare, e il grande cielo senza ostacoli sopra la testa, e la brezza, e il verde, e l’odore di cherosene.

Bentornato a Pratica di Mare. Cuore che batte, nel profondo. Il G91 all’ingresso, gli alloggi Ufficiali, il Circolo. Pratica di Mare: la mia casa; la mia casa per 12 anni!!!!

La mia compagna rispetta il mio silenzio, io guardo, penso, ricordo.

Ricordi che emergono dal profondo della psiche richiamati dalla vista. Eventi, facce, avventure, storie. Tasselli di quel puzzle che è la vita di ognuno di noi. L’invito a venire a Pratica in occasione della dismissione del tanker è del Gruppo che ho comandato, 15 comandanti fa – ho contato le targhette!! Prima di uscire ho indossato la cravatta blu del Gruppo, i copribottoni dorati, un po’ “diversi” ma col Cavaliere, ho indossato lo stemmino dell’8° sul bavero della giacca e, infine, imponente nelle dimensioni anche come spilletta, sotto il gruppo ho appuntato il B707.

Sono uscito da casa felice e curioso di tornare, di camminare di nuovo su quei tasselli che hanno composto un importante pezzo della mia vita: il comando dell’8° Gruppo e il successivo comando del Nucleo Addestramento Tanker, l’ultimo incarico operativo.

Così oggi sono qui, facce conosciute che hanno subito, come me, la sferza del tempo. Linee nuove sui visi, capelli che hanno cambiato colore oppure che han deciso di abbandonare il titolare, ma negli occhi quella luce di forza e di esperienza che accompagna lo scorrere della vita e ci rende maturi e belli dentro.

Dopo gli abbracci, i riconoscimenti, e gli sguardi alle fotografie … andiamo sul piazzale.

Tocca a Sergio fare l’ultimo volo. E’ il più anziano (lui ci tiene a sottolineare che non è l’età).

Il vecchio tanker avanza verso il punto attesa, ed io solo a guardarlo vengo proiettato nella dimensione temporale. E’ una sensazione stranissima, come se il tempo non ci fosse più: torno ai comandi, quello che mi ferma il respiro è il ricordo del decollo. Un ricordo diverso da qualsiasi altro aeroplano che ho volato, sono seduto ai comandi e rivivo …

E’ un mastodonte, avanza lentissimo verso il punto attesa … si muove come se fosse conscio delle sue capacità, che non è accelerare rapidamente e scomparire nel cielo, che non è manovrare leggero allietando chi lo guarda, ma è stare tanto tempo in aria. Il suo compito è attraversare lo spazio, andare lontano, portando dentro sè il suo carico. Ma non è semplicemente un volo di lungo raggio …. Non è semplicemente mettere 70 tonnellate di benzina e partire.

E’ la consapevolezza che attraverserai gli stati, i mari, che sotto di te scorreranno i fronti meteorologici, e che quando atterrerai sarai in un mondo diverso. La consapevolezza che non porti solo un carico o le persone, ma altri aeroplani verranno con te – affidati a te, dipenderanno da te, li osserverai nei monitor di bordo, ascolterai le loro voci, li incoraggerai nel momento del contatto. Rifornimento in volo: un nearmiss controllato … altri ricordi …

Io sono stato poco tempo sul tanker, un paio d’anni, di velivoli ce ne erano solo due allora, ma il ricordo dell’inizio è talmente gratificante che rimango un po’ attonito mentre il “vecchio” continua il suo rullaggio.

Mi tornano in mente i fogli in Excel per i primi calcoli sul rifornimento in volo, la prima trasvolata a Lajes con Bruce in ala. Qualsiasi cosa era una novità, ogni momento era qualcosa di nuovo … Oggi celebro dentro di me tutte queste emozioni.

E’ il momento del decollo … Sergio con innata maestria lo porta verso di noi, il saluto del gigante, quanto rumore, al limite del sopportabile ….

Una ultima virata, si staglia nel cielo, le grandi ali a freccia, i 4 motori, enorme gabbiano seguito da una scia nera … Socchiudo gli occhi, lascio che l’immagine si imprima nella memoria, respiro a fondo questa brezza di mare.

I ricordi, quelli che nutrono le emozioni vanno e vengono, onde potenti che si infrangono sul richiamo alla realtà.

Una realtà che ricorda che è ora di tornare alla quotidianità e di rivolgersi al futuro, incapace di aspettare e che richiede tutta la nuova attenzione.

Grazie 8° Gruppo, grazie 14° Stormo, grazie Pratica di Mare.


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Hangar con Biplano e Honda - Nate Stevens
Paolo Vittozzi