Manaus, 8 novembre 1960
Sono le undici e venti del mattino, e a quest’ora il sole picchia forte, quaggiù.
La lamiera del vecchio Dakota si sta già surriscaldando, ma se non altro la sua ombra mi protegge gli occhi dal riverbero del sole. Con un cielo così terso non ci sono Polaroid che tengano, ve lo dico io.
Noris mi tira per il gomito, e mi indica il furgone Ford che si sta avvicinando, facendo la gimcana tra i Pipers e i Cessna, là nel recinto dell’Aeroclub.
Lo faccio, distrattamente, poi consulto il mio cronometro da polso, raschio la gola, e sgancio uno sputo che si infrange sull’asfalto scrostato della pista esplodendo in una chiazza bianca come la bomba di un B-52.
Anche questo aeroporto è uno sputo, il mio aereo è una malandata carretta che non potrebbe correre neppure in autostrada. E la compagnia per cui lavoro, la gloriosa Condor Trans-Am, dev’essere ridotta ben male, se il comandante (che sono io) prima di ogni volo deve aspettare in cima alla scaletta i passeggeri con un taccuino in mano, pronto a spuntare la lista d’imbarco.
Il Ford adesso è proprio sotto di noi. Sento Felipe tirare il freno a mano, gli pneumatici slittano stridendo, lasciando sul terreno quel poco di gomma che c’è rimasta ancora attaccata. Un’inchiodata, uno scossone violento seguito dalle indignate proteste dei nostri pregiati clienti; d’altronde, che io sappia, tirare il freno a mano è l’unico modo per fermare in uno spazio ragionevole quella sottospecie di furgone, se vogliamo escludere un colpo di mortaio ben assestato. Intanto gli operai che hanno caricato la stiva se ne rimangono seduti nella loro jeep senza decidersi ad andarsene. Non me ne stupisco: da là sotto le cosce di Noris devono essere un gran bello spettacolo, e se uno ha la vista buona…
Conto le persone che scendono dal furgone, mentre Felipe tira giù valigie e borsoni dal tetto. Otto, nove, poi, quando credo che siano finite, saltano fuori due marmocchi così piccoli che ti stupisci a vederli camminare già da soli. Felipe intanto si sta assicurando che la scaletta sia agganciata bene, anche perché, se qualcuno dei passeggeri cadesse giù, dopo toccherebbe a lui pulire per terra. E’ un bravo ragazzo Jivaro che darebbe un braccio per tornare dalla sua gente. Solo che la sua gente non c’è più: una banda di garimperos ubriachi di cachassa, un paio d’anni fa, per togliersi di dosso l’umidità della notte, non trovò di meglio che dar fuoco al villaggio della sua tribù.
Dopo aver scannato tutti quanti gli indios, s’intende.
Anche prima di quella brutta faccenda non è che parlasse molto, ma da allora in poi non gli ho più sentito pronunciare una parola che sia una. Tante volte lo scopro a guardarmi di traverso, e chissà perché subito mi sento la pelle di cappone. Eppure io sono tra quelli che gli stanno simpatici: bah!, si vede che è il colore della mia pelle a non essere più di suo completo gradimento.
E in questo posso anche capirlo.
– Benvenuti a bordo. –
cinguetta Noris, e intanto il primo tizio, un biondo barbuto in vestito coloniale che sembra appena uscito da un film di Tarzan, passa in mezzo a noi.
– Le mie kasse zono già state karicate? –
chiede tirando in su i suoi occhialetti rotondi cerchiati d’oro. Con la sinistra alzo il berretto in segno di saluto, mentre l’indice e il pollice della destra si uniscono in un cerchio: tutto a posto, tutto sotto controllo, e intanto penso che l’unica cosa che gli manca per essere perfetto è un bel retino da farfalle.
I due mocciosi si sono arrampicati intrufolandosi tra le gambe degli altri passeggeri, inseguiti invano da una ragazza con i capelli rossi come i loro, dalla pelle assolutamente candida, e due tette da urlo che sobbalzano pericolosamente a ogni gradino della scaletta. Quando il terzetto arriva in cima, scomparendo nella penombra della carlinga, Noris si volta verso l’interno, e con un movimento rapido blocca i bambini afferrandoli per i colletti delle camicie; ma per farlo deve piegarsi in due, offrendo ai tre missionari che salgono faticosamente verso di noi una veduta mozzafiato della parte migliore di sé.
Devono essere proprio dei sant’uomini, o soffrire tutti di cataratta, visto che non fanno una piega. Il più giovane dei tre (si fa per dire) fruga nella tasca della tonaca scura, e mi porge le carte d’imbarco, stropicciate e incipriate di tabacco giallo da fiuto.
Le due coppie arrivano per ultime. Persone di mezza età, che più che sposi sembrano fratelli, somiglianti come sono nei fieri lineamenti amerindi, nella pelle brunita dal sole, indurita e rugosa come il cuoio di un vecchio stivale.
“ Abbronzatura da contadini. “
annoto da qualche parte del cervello. Quando mi sono vicini avverto distintamente il profumo di frittelle e salse speziate di cui sono intrisi i loro vestiti. Quando guidavo la corriera, in Italia, gli uomini puzzavano di sigaro, e le donne di cipolla e pomodoro.
Seduto nella cabina di pilotaggio mi sento decisamente più a mio agio. Sbatto via la carta di navigazione, ormai la rotta la conosco a memoria, poi con tutto quello scotch appiccicato per tenerla insieme non ci si capisce quasi più nulla. Mentre cominciamo a rullare, faccio un rapido conto: il tedesco, le due coppie, i preti e la ragazza coi bambini … poi ci siamo io e Noris. In tredici, porca vacca, siamo in tredici! E’ la seconda volta che accade in tre anni, e quando è successo l’altra volta, all’atterraggio il carrello s’è aperto male, e abbiamo dovuto riverniciare la pancia metallica di questa vecchia carretta, e la Madonna della chiesa della Santa Vergine di Manaus per tutto il mese successivo s’è guadagnata la sua brava candela. E un po’ di cera la faccio colare anche adesso, quando me ne ricordo.
Appesantito com’è da tutta quella roba che stamattina gli hanno ficcato nella stiva, il vecchio “Garrincha” sembra non volerne sapere di alzare dalla pista il suo culo di latta.
(l’idea di cambiare nome all’aereo venne a Paulo, il figlio del padrone, per celebrare la conquista da parte della Selecao della prima Coppa Rimet, in Svezia)
Mi viene in mente che solo per caricare bagagli e impicci del mangiacrauti, c’è voluta quasi un’ora, stamattina: chissà cosa cavolo si porterà dietro, che Dio lo strafulmini!
Non c’è più manetta da dare, e ancora la cloche non manifesta sintomi d’erezione, e quando ormai credo di andarmi a infilare nella rete di recinzione del campo, hop! il vecchio puledro si decide a spiccare il salto, superando l’ostacolo di non più di un paio di spanne.
Mi asciugo sul collo quel sudore che solo la strizza riesce a spremerti così ghiacciato, poi agguanto il microfono e, come se niente fosse, con la voce più calma di questo mondo, avviso i passeggeri che il decollo è avvenuto regolarmente, che non sono previste perturbazioni, e che, viaggiando a una velocità di crociera di circa 170 nodi, saremo a Belèm alle …
L’odore che si diffonde nella cabina mi va dritto al cervello: è il caffè che sta preparando Noris,
(l’unico lusso concesso ai passeggeri della Condor Trans-Am) e vi assicuro che l’espresso è in assoluto la seconda specialità del suo repertorio. Una delizia, niente da invidiare a quello che la mattina, giù in Italia, tanti anni fa, preparava per tutti zia Assunta. Un tozzo di pane e mortadella in tasca e via, tutti a lavorare!, anche se a quell’epoca invece è a scuola, che sarei dovuto andare.
Tempi grami, anche se ogni volta che ci penso mi si annodano le viscere sotto l’azione di una specie di incomprensibile nostalgia.
Chi di voi ha un po’ di dimestichezza con queste faccende si starà chiedendo già da un po’ come mai non vi ho ancora parlato del secondo pilota. Beh, la verità è che da quando è morto il vecchio Roberto, con quello che costa il personale, il capo non ha voluto saperne di assumerne un altro: così ha sganciato una mancia a non so quale maggiore dell’aeronautica e adesso risulta che Noris è titolare di un brevetto di volo coi fiocchi. Peccato che lei non sappia guidare neanche una bicicletta, ma l’importante è che le carte siano a posto, e come vi ho già detto per il resto è una ragazza di grandi risorse …
Mando giù il nettare bollente (per me c’è una tazzina di porcellana, non uno di quei schifosi bicchieri di carta), sono o non sono il capitano, eccheccazzo! Dopo, inserisco il pilota automatico. E’ una specie di rito, chiamatelo un tic, ma a questo punto mollo sempre tutto e vado a farmi una ricca pisciata. Sono lì dentro con l’affare in mano, non so se mi spiego, quando Garrincha ti va a beccare uno delle più fottute discendenze in cui mi sia mai capitato di inciampare. Quelle che i borghesi chiamano “vuoti d’aria”, tanto per intenderci. Per fortuna siamo già parecchio in alto, perché quando cominciamo a scendere come un sasso sembra proprio che non debba più finire. Il danno minore è che mi bagno i calzoni, quello più serio che con una forte capocciata sfascio lo specchio, e una scheggia di vetro mi si infila proprio a due millimetri dall’occhio. Fuori dal gabinetto sento volare di tutto: borse da viaggio, macchine fotografiche, donne, preti e bambini; per non parlare del carico nella stiva, credo che ci sia stato un gran frullato, lì dentro. E come strillano, sembra stare al Maracanà quando l’arbitro fischia un rigore contro il Botafogo. Poi, se Dio vuole, finalmente tutto finisce, e Garrincha si rimette in linea. Noris ha un ginocchio viola, ma si sta già dando da fare con bende e cerotti. Benedetta ragazza, è proprio una brava garota. Quando mi sarò stancato di passare il mio stipendio alle puttane di Mama Rosa non è del tutto escluso che le chieda di sposarmi.
Uno dei missionari, quello che sniffa tabacco, s’è fatto un bello sfregio in mezzo alla fronte. Gli altri due gli stanno intorno, uno cerca di fermare l’emorragia con una pezza bagnata, il più anziano con ago e filo cerca di ricucire alla meglio una manica sgarrata.
Fino a qui tutto sotto controllo.
I bambini giocano acquattati sul pavimento del passaggio tra i sedili, completamente indifferenti alle proteste di Noris, costretta a scavalcarli ogni volta che passa. La rossa più di tanto non può impallidire, c’è un limite a tutto, no? Allora se ne sta lì a sfogliare una rivista di moda, tanto per darsi un contegno, senza accorgersi neppure che ce l’ ha in mano capovolta.
Le due coppie di contadini devono essere abituate a gestire problemi ben più gravi di un salto in basso: gli uomini si sono accesi due monumentali sigari, e spippettano con la solennità di due sakem indiani: il fumo non riesce a nascondere il livido bluastro e gonfio in cui affonda l’occhio di uno di loro.
Quello che sta peggio di tutti è il tedesco. In faccia non ha segni particolari, il biondo, ma lo vedo imbambolato al suo posto, con gli occhiali spezzati in grembo, e lo sguardo appannato fisso sui grandi misteri della vita. Solo quando gli passo accanto, ha un sussulto. Mi sento artigliare il gomito: è una cosa che odio.
– Defo kontrollare bagaglio, prego! –
Gli tiro via la mano. Con uno spintone lo respingo contro lo schienale.
– Non se ne parla neppure: la stiva non si apre fino a quando non siamo arrivati! –
e proseguo dritto. Ho ben altro da fare, adesso.
– Tu non capire, herr kommandant: si tratta di una ferifika azzolutamente indispensabile … –
Arrivato in cabina sfilo dallo zigomo la scheggia di specchio e siedo al quadro comandi.
– Per favore, Noris, fai mandar giù al crucco un paio di pasticche di Valium, e se prova a muoversi dal suo posto assestagli un pugno sul naso –
ordino, mentre una per una verifico tutte le spie di quell’albero di Natale. Se sapessi quali sono le mani del buon Garrincha, gliene stringerei una, per congratularmi: almeno a un primo e sommario esame sembra essere uscito del tutto indenne dal gran ballo di poco fa. Mica male, per un vecchietto come lui.
Mentre il naso comincia gonfiarsi di sangue pesto e dolore, sento Noris, alle mie spalle, fare ingresso in cabina. Il profumo amaro che mi avvolge è una squisita miscela di bergamotto e di essenza di femmina, e quando sento le punte dei suoi capezzoli pungermi attraverso il cotone della camicia
– Passami una paglia. –
riesco appena ad articolare, ma è ben altro quello che vorrei chiederle.
– C’è ancora un po’ di casino, là dietro … –
mi alita sul collo, e subito, là in basso, nel mio profondo sud, la situazione mi si fa estremamente critica.
– … ma nessun ferito grave, credo. –
e mentre le chiedo come se la passi il mangia-kartoffen, m’infila la mano nella tasca destra dei pantaloni per arraffare il pacchetto delle Pall Mall.
– “Stanghette d’oro” dev’essere rimasto rimbecillito dal colpo. –
mi relaziona, sussurrandolo come se fosse una dichiarazione d’amore.
– Prima era agitato, continuava a urlare come un ossesso perché l’aiutassi ad alzarsi, e l’accompagnassi a fare una ricognizione nella stiva. Poi si vede che le pillole e la botta hanno fatto effetto insieme … Avresti dovuto vederlo: si è fermato a metà di una frase, gli si sono abbassate le palpebre ed è ricaduto sullo schienale del sedile afflosciandosi come un sacco vuoto. Adesso dorme come una creatura. –
Infila di nuovo la mano, spingendola più in fondo, lentamente, finché non trova i fiammiferi. Credetemi, è un vero supplizio.
– Noris, accendimi questa cazzo di sigaretta e torna di là, che è meglio! –
abbaio alla fine, e mentre lei se ne va imbronciata, per distrarmi abbasso lo sguardo sulla più grande moquette del mondo srotolata proprio sotto di noi. Nel bel mezzo di quel tripudio di verde, di tanto in tanto, per ricordare a tutti d’essere sempre lui “Sua Maestà”, il Rio delle Amazzoni manda su riflessi dorati intensi come lampi di flash. E, a proposito di fotografie, dal settore passeggeri parte il primo clic, un altro, un altro ancora, scatti secchi che si rincorrono per mezzo minuto come il ticchettio di una macchina da scrivere sotto le dita d’una segretaria d’azienda. Poi una battuta incomprensibile seguita dall’eco di una sonora risata collettiva. Buon per loro, vuol dire che la paura è passata.
Per un’ora buona andiamo avanti senza problemi. Così tranquilli che un paio di volte mi trovo con la faccia incastrata nella cloche, e mi sveglia soltanto il dolore boia che dal naso mi trapana la cervice. Accanto a me Noris se la dorme di grossa, stravaccata sul sedile del secondo pilota. E dire che le avevo chiesto di aiutarmi a rimanere sveglio: mica facile lavorare, quando sei stato su la notte intera a sambare al Mocambo.
Quando riapre finalmente gli occhi, il mio “pilota in seconda”, è fradicia di sudore. Non voglio dire che questo sia necessariamente un guaio: il cotone bagnato tende ad appiccicarsi alla pelle, e a diventare trasparente, lo sanno anche i bambini.
Beh, per farla corta: nei cassetti della sua camera da letto Noris ha un’intera collezione di reggiseni.
(e non chiedetemi come faccio a saperlo)
Lei dice di adorarli, e che ne indosserebbe uno diverso ogni volta che esce di casa … se non fosse per colpa di quella fastidiosissima allergia che le provocano sulla pelle del seno!
È esattamente per questo che da diversi anni non utilizza più quel genere di indumento.
Così avrei tanto bisogno di una doccia fredda, credetemi sulla parola. Invece qui dentro fa un caldo feroce. Una bella scrollata del capo per snebbiarmi la mente dai cattivi pensieri.
– Noris, senti che afa! I passeggeri staranno soffocando, puoi scommetterci. Sarebbe il caso di servire una bibita fresca, non credi? –
Lei mi guarda ancora semiaddormentata. Spinge le braccia indietro e il torace in avanti, e si stira languidamente. Sento distintamente lo scricchiolio dei primi bottoni della camicetta sotto tensione. Una semplice doccia adesso non servirebbe più. Molto meglio una caraffa di valeriana.
La fermo mentre sta per uscire in corridoio. Appena in tempo.
– Metti su il giacchino, cara, se non vogliamo rischiare che qualcuno di là si becchi un infarto. –
Un’alzata di spalle, con la boccuccia imbronciata. Si sistema due riccioli che gli sono rimasti incollati alla fronte, si liscia la gonna, infila il giubbino blu con il condor d’oro all’occhiello e và.
A “ore 12”, proprio davanti al muso di Garrincha, intanto è comparso un cumulo di nuvolaglia nera, che mentre ci avviciniamo continua a gonfiarsi minacciosamente: è il fiato umido della foresta e del grande fiume che si appresta a tornare giù, com’è abituato a fare quasi tutti i giorni dalla notte dei tempi.
Ci sarà parecchio da ballare, lì dentro, e mancano ancora due ore per arrivare a Belèm.
Dalla foga con cui spalanca la porta della cabina, ci sarebbe da pensare che, anziché aprirla, probabilmente Noris intendeva passarci attraverso. Un gran botto, che mi fa voltare di colpo: se ne sta in piedi tra frammenti di bottiglie e una pozza frizzante di aranciata e pepsi, con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata in un urlo che non le riesce di cavare fuori dalla gola.
Mi alzo a mia volta, cosa volete che faccia? Le strappo di mano il vassoio; ormai è vuoto, ma devo allargarle le dita una a una, per portarglielo via, e ci vuole tutta la mia forza.
– Che ti è successo? –
le chiedo subito dopo, prendendola per le spalle e scuotendola forte di qua e di là. Niente. Prima di convincermi definitivamente che è partita di testa, c’è un ultimo tentativo da fare: le rifilo due schiaffi che farebbero girare la testa a un cavallo, e lei si rimette in moto d’incanto, come la puntina di un grammofono bloccata nei solchi di un vecchio “78 giri”.
– Di là … –
mormora, indicando dietro le sue spalle. Non ha neppure il coraggio di voltarsi indietro. Grosse lacrime cominciano a scenderle lungo le guance, ma non sta piangendo: è troppo atterrita per farlo. Sento la schiena attraversata da una corrente gelida a 220 volts, e la scoperta di come la mia colonna vertebrale funzioni da conduttore meglio di un filo di rame non riesce a esaltarmi più di tanto.
– Cos’è successo? Parla! –
e probabilmente nel tono di voce e nello sguardo che le sparo addosso Noris coglie qualcosa che la convince di quanto sia meglio rispondermi subito. Si passa la mano sulle gote ancora paonazze.
– Scorpioni, ragni, e non so cos’altro. Vieni a vedere. –
Parla col tono animato della voce telefonica del segnale orario.
Mi fanno schifo gli insetti. Ma la responsabilità di tutto è mia, quassù in alto. Le passo davanti e, scavalcando i cocci di vetro, esco in corridoio.
In prima fila, a sinistra, il tedesco ronfa rumorosamente. Beato lui.
Dietro due poltroncine vuote, poi le mature coppie di sposi. Gli uomini hanno allentato i nodi delle cravatte, e slacciato le stringhe delle scarpe. Le donne si sventolano con i ventagli multicolori ornati di pizzo. E intanto, tutti e quattro, bevono vino e mangiano pane e formaggio.
I preti sono disseminati nella fila di sinistra. Uno legge il breviario, un altro scrive qualcosa, il terzo, quello ferito alla testa, si è addormentato mentre sgranava il Rosario, che infatti gli è rimasto intrecciato alle dita.
Avanzo ancora. Dietro di me posso quasi sentire battere i denti di Noris, che mi segue passo passo, aggrappata alla cintura dei miei pantaloni. La sento irrigidirsi, appunto lo sguardo, ma non vedo altro, in fondo, che la ragazza dai capelli rossi che dorme con la mascherina nera sugli occhi, e ancora più in là, davanti alla porticina del bagnetto di bordo, nel piccolo slargo che divide i sedili dei passeggeri dalla stiva, i due mocciosi che giocano ridacchiando rumorosamente.
Mi volto verso Noris. In questo momento non mi ispira sesso, neanche un po’: il suo sguardo è quello che doveva avere la settima moglie di Barbablù dopo avere messo il naso nella stanza proibita.
Insomma, si è di nuovo inceppata, al punto che le si contraggono i muscoli facciali nello sforzo supremo di dirmi:
– Gu-guarda be-bene, V-Vincenzo. –
(è il mio nome, ma quando lo pronuncia lei, nel suo portoghese deliziosamente contaminato dal dialetto di Bahia, in un primo momento penso sempre che stia parlando con un altro)
Comunque accetto l’invito, faccio altri quattro passi in avanti trascinandomela dietro
(“ da come sta puntando i piedi c’è pericolo che da un momento all’altro si aggrappi ai sedili”)
e guardo bene.
La mascherina nera sul viso della rossa si muove, e ha le zampe.
Un magnifico esemplare di vedova nera, non c’è che dire.
La donna invece non si muove: più morta di così non si può, direi. I bambini non devono essersi accorti di nulla, visto che continuano a far confusione come se niente fosse. Hanno in mano dei giornali arrotolati, e con quelli spostano qualcosa sul pavimento.
Sono tre, sono pelose, devono essere le sorelle maggiori di quella che si è fatta la loro mamma. Mollo Noris e faccio un salto in avanti. Stringo due braccine esili e tiro su con uno strappo, senza badare se procuro dolore: i nuovi giocattoli farebbero certo peggio di me. Li deposito sul sedile più vicino, poi tiro un po’ di calci a quelle schifezze nere, ma sono più svelte di me, si dividono e si disperdono con la perfetta coordinazione di una banda di ladri all’arrivo della polizia. Butto un occhio alla porta dissestata della stiva: è da lì che esce la processione, e a giudicare da quanti sono i partecipanti oggi deve essere la ricorrenza del Santo Patrono.
L’urlo di Noris è come la sirena di mezzogiorno nella fabbrica di scarpe che c’è sotto casa mia. All’improvviso sono tutti svegli, tutti in piedi a chiedere cosa stia succedendo ancora: ci manca poco che anche la rossa si alzi e chieda cos’è tutto questo bordello, ma per i miracoli ci stiamo ancora attrezzando.
All’improvviso la situazione precipita. Come dalle bocche dell’inferno, da sotto i sedili sciamano fuori decine, centinaia di insetti schifosi, la maggior parte ragni, ma anche scorpioni, scarafaggi supercorazzati e chissaddìo cos’altro.
Non ho ancora realizzato bene lo scenario, che il tedesco comincia a urlare:
– Afefo detto io! Zi zono rotti i kontenitori dei kampioni! –
Bastardo, se avessi in mano una pistola gli farei saltare via la testa. Un brontolio cupo, un lampo accecante, scroscio d’acqua sulla fusoliera, il fragore assordante di un tuono, e Garrincha che s’inclina di lato e comincia a ballare la bossanova. Rogna fottuta, alla faccia delle previsioni meteorologiche!, siamo già sotto la doccia.
– Noris, prova con l’estintore! –
urlo, mentre corro verso la cabina per riprendere i comandi. Il rumore dei miei passi oscilla tra uno splat (quando affondo la suola o il tacco in uno di quei ragni grassi come topi) e un crac (quando invece frantumo il guscio di una blatta). Proprio a metà corridoio faccio l’errore di alzare lo sguardo: non è piacevole accorgersi che il soffitto, da grigio che era, è diventato un confuso brulicare nero.
“ Ma quanti campioni aveva raccolto, quel mentecatto? “
Ho voglia di vomitare, mi sento prudere e pungere sotto i vestiti, ma per fortuna è soltanto suggestione. Prima di richiudermi la porta alle spalle, do ancora un occhiata a quello che sta succedendo in carlinga. Noris sta innaffiando di schiuma pavimento e poltroncine: vorrei sbagliarmi, ma mi sembra che stia ridendo come una pazza. I quattro contadini utilizzano riviste e giornali per menare colpi a destra e a manca: sono infaticabili, metodici, sembra che stiano battendo il grano dei loro campi. Il tedesco se ne sta in piedi, immobile come una statua di sale. E piange in silenzio. Due dei preti sono distesi per terra, e non è facile riconoscerne i lineamenti, nascosti come sono sotto quel tappeto di piccoli mostri. Il terzo, il più giovane, saltella come un disperato. E’ davvero ridicolo, ma d’un tratto capisco perché faccia così: mi vengono in mente i suoi piedi nudi, protetti soltanto dai sandali di cuoio.
Faccio ancora in tempo a individuare i due piccoli, cui l’istinto di conservazione ha suggerito di avvolgersi completamente in un plaid: speriamo che non lascino nessuno spazio scoperto.
Afferro la cloche, cercando di ricondurre alla ragione Garrincha. Gli acquazzoni sono all’ordine del giorno quaggiù, siamo d’accordo, ma a quanto pare oggi siamo capitati in una delle più rognose tempeste tropicali degli ultimi vent’anni, e la situazione va via-via peggiorando.
Il rumore dell’uragano soffoca i rumori e le grida della battaglia che si sta svolgendo al di là della porta. Ma non del tutto, purtroppo.
Fuori non riesco a vedere più niente. Abbasso la levetta del baracchino di bordo.
– Belèm, qui CDR 811. Mi sentite? –
Mi risponde una salva di disturbi-radio e pernacchie elettrostatiche. Vado avanti lo stesso, tentar non nuoce.
– Siamo capitati in una grossa turbolenza, Belèm. E … abbiamo un problemino a bordo. –
Figurati.
Sembra che dentro il cruscotto abbia fatto il nido uno sciame di vespe incazzate. Meglio spengere. Anche perché, nel bel mezzo della tempesta, si apre incredibilmente uno spazio sgombero di nubi e di correnti. Saranno vere quelle stronzate sull’occhio del ciclone?
Provo a reinnestare l’autopilota: voglio rendermi conto di come vanno le cose là dietro.
Mi si presenta una scena allucinante: frotte di insetti immondi hanno conquistato ormai ogni spazio libero, piovono addosso ai passeggeri dal tetto della carlinga come fiocchi di neve nera; completamente imbiancata di schiuma antincendio, Noris usa la bombola ormai scarica come una mazza, e intanto continua a ridere sguaiatamente.
Del crucco non si riconoscono più i capelli biondi. E neppure la barba. E’ ancora in piedi, ma dev’essere andato già da un pezzo: non si respira bene con la bocca piena di quei cosi. Il prete ha finito di saltare, adesso è ripiegato come una vecchia palandrana sulla spalliera della sua poltrona. Dei quattro contadini soltanto due stanno ancora lottando: uno pista sul pavimento gli stivali neanche fosse nel catino dell’uva dopo la vendemmia, la donna cerca con le mani di liberare dall’orrenda invasione il viso del marito morto. Anche se ha infilato i lunghi guanti di seta bianca tenuti in serbo per il Casinò di Belèm, non credo che resisterà a lungo.
Noris è chiaramente esausta. Penso con raccapriccio alle sue scarpe scollate. Mando al diavolo il buon senso e corro da lei, la sollevo tra le braccia, e mentre lo faccio vedo soccombere gli ultimi combattenti. Come una furia torno indietro, rischiando di scivolare sulla schiuma che rende viscido il corridoio.
“ Per fare prima ho lasciato la cabina aperta, ma forse è stato un errore! “
penso con raccapriccio, mentre frettolosamente mi richiudo la porta alle spalle. Noris mi sviene mentre l’adagio sul sedile del pilota in seconda. Intanto la tregua è finita, la tempesta imperversa più furiosa di prima e la carcassa del povero Garrincha ricomincia a scricchiolare come se il diavolo in persona ci stesse provando sopra il suo schiaccianoci gigante.
Insomma, pare che sia richiesto immediatamente un mio intervento, ma devo prima controllare qualcosa. Sembra tutto a posto, poi lo vedo, il bastardo: il più grosso e repellente ragno che mai mi sia capitato d’incontrare mi aspetta comodamente appostato proprio sul mio sedile.
Spappolarlo con un gran fendente della chiave inglese è il momento clou della giornata. Un vero spasso. Pulisco quella merda con la mappa, rendendomi conto che forse è venuto davvero il momento di chiederne una nuova. Mi siedo e guardo fuori, verso la sottile linea luminosa apparsa laggiù in fondo. Ancora venti minuti e usciamo definitivamente dalla bufera: ci sono un cielo color indaco e un magnifico sole ad attenderci.
– CDR 811, rispondete! –
gracchia la radio. Vorrei baciarla.
– Qui Belèm. Allora, si può sapere o no cosa sta succedendo lassù? –
E mentre spiego che sarà meglio farmi trovare sulla pista una bomboletta di insetticida molto, molto grossa, Noris finalmente si sveglia.
Sbatte gli occhioni impiastrati di trucco sciolto. Il gemito doloroso di chi si ridesti dopo aver vissuto nel sonno un incubo terrificante persino a raccontarsi.
– I BAMBINI! –
grida, e fa per alzarsi. Le stringo il polso, tirandola giù.
– Sono morti. Morti, lo capisci? Cosa vuoi fare? Seguirli all’inferno anche tu? –
– Si erano protetti con le coperte. Potrebbero ancora … –
e mentre sto per interromperla, invitandola a non dire altre minchiate, una vocina attutita, appena percettibile, chiama:
– Mamma! –
Si libera facilmente dalla mia presa, lasciandomi di sasso per la sua inattesa energia. Fruga nello scomparto sopra alla sua poltrona, tirandone fuori una tuta di plastica.
– Dammi le tue calze e le tue scarpe, e soprattutto non azzardarti a fermarmi. Perché se solo ci provi ti ammazzo. –
Faccio quello che dice, naturalmente, ma non distolgo gli occhi, mentre si sfila quello che ha indosso. Quando è pronta si china su di me, schiaccia le sue labbra sulle mie e mi bacia come non ha mai fatto prima.
– Ti ho sempre amato. –
sussurra, poi infila un paio di guanti di gomma, apre di scatto la porta e se n’esce, richiudendosela diligentemente alle spalle.
– Parla la torre di controllo. CDR 811, abbiamo preparato quello che ci avete richiesto. Clear to land! –
Fancùlo, un altro pischello che ha visto troppi film americani. Fammi spazio, sto arrivando, bamboccio!
E mentre controllo l’altimetro e comincio a togliere potenza ai motori, un urlo acutissimo di donna mi polverizza il sangue nelle vene.
° ° ° °
Lagonegro, 1 febbraio 1994
Avevo poco più trent’anni quando, accaddero quei fatti. Ora ne ho quasi sessantacinque. Queste poche parole le sto dettando al registratore, perché da molto tempo le mani mi tremano al punto da non poter neppure reggere una penna biro.
Non fu certo il più morbido atterraggio della mia luminosa carriera, inutile raccontarvi balle, ma alla fine riuscii comunque a posare le zampe del vecchio Garrincha sull’asfalto dell’aeroporto. Ancor oggi non so come feci, viste le condizioni pietose in cui ero venuto a trovarmi dopo la morte di Noris: anche perché, ve lo confesso, almeno un paio di volte dovetti vincere la tentazione fortissima di schiantarmi al suolo portando con me quelle immonde bestiacce.
Non si erano ancora fermate le eliche che già salivano a bordo gli uomini della disinfestazione con i loro scafandri da palombari, e posso assicurarvi che in seguito mai profumo mi risultò più gradevole di quel DDT vaporizzato senza risparmio.
Non sono più salito su un aereo, e questo non dovreste avere difficoltà a capirlo. Per tornare in Italia preferii sobbarcarmi un mese di navigazione oceanica, ma non mi pesò più di tanto. Da allora non sono più riuscito a dormire più di tre ore per notte, almeno fino a quando ho scoperto gli effetti soporiferi del vino rosso della mia terra di origine.
Molto meglio persino della capirinha, sapete?
Ma ci si abitua anche ai sonniferi più efficaci, e quando succede non ti rimane altro che aumentare la dose.
Forse ho esagerato, però. I medici dicono che il mio fegato ormai è ridotto a una schifezza, e che non ci sono speranze di salvare la pelle.
Ma non è questo l’aspetto peggiore.
In camera da letto ho sostituito al materasso uno di quei sacchi a pelo a chiusura ermetica, ce li avete presenti? Perché, quando calano le prime ombre della notte, piccole macchie nere cominciano a passeggiare sui pavimenti dell’appartamento, lungo i muri, e persino sui soffitti; e continuano a farlo, anche se tengo accese tutte le lampade di casa.
Ho stipato i ripiani di legno dello sgabuzzino d’ogni tipo e marca di insetticida in commercio, una vera e propria collezione, e ne spruzzo continuamente in ogni stanza, in ogni angolo, anche se finora non è servito a niente.
Adesso però credo di aver trovato la soluzione giusta. Stamattina il medico, fissandomi con un’espressione strana, mi ha detto che quelle piccole belve escono da dentro di me, perché a furia di circolare nelle mie vene, tutto quell’alcool ha finito per attaccare anche il cervello.
Boh! Una malattia con un nome latino, “Delirium Tremens”, ha detto. L’importante però è che dopo tante ricerche finalmente io abbia trovato la tana dei piccoli mostri.
Mescolo con il cucchiaino da caffè nel bicchiere la polvere bianca che è venuta fuori dal flacone di metallo verde con il simpatico disegno di uno scarafaggio stecchito a pancia in su. E un quadratino giallo con teschio e tibie, giù in basso.
Presto si scioglie nel vino, rosso, naturalmente. Alzo il calice e brindo a una donna che non vedo ormai da troppo tempo.
Vuoi saperlo, Noris?
Anch’io ti ho sempre amato.
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