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Calanchi

Dal diario del colonnello pilota Mario Gertz

Mercoledì, 29 luglio 1924, ore 12.37

L’aeromobile V90 siglato I-GH76, al cui comando mi trovavo personalmente, è precipitato in un luogo imprecisato della zona dei Calanchi. Il piano di volo prevedeva il decollo da Merty, il sorvolo dei Calanchi, e infine l’atterraggio a destinazione dopo sei ore. Eravamo diretti a Frybur. I danni al velivolo sono ingenti. L’elica quadripala è ripiegata su se stessa in due punti. Il tettuccio è completamente distrutto. Il carrello è fuori uso. La radio di bordo non dà segni di vita. La fusoliera appare sostanzialmente integra ma l’ala destra non è più in sito. Mentre l’ala sinistra è squarciata e risulta tranciata a metà. Quanto alla mia persona, a parte una lieve ferita alla gamba destra, sto bene. Posso muovermi e camminare. Il tenente Gertz appare priva di ferite importanti. Ha il volto insanguinato a causa di una lacerazione esposta alla fronte. Nell’incidente la ragazza ha perso i sensi ed è rimasta svenuta per alcune ore. Quando è tornata in sé ha dato segni di amnesia retrograda e di confusione mentale. La zona dell’impatto è impervia. Il territorio è spettrale. Lo scenario è simile a quello di un deserto ed è privo di ogni forma di vita. Non si scorge neppure un filo d’erba. Il velivolo giace in una strettissima gola circondata da cime alte e acuminate come guglie monumentali. Le creste dei calanchi, dell’altezza di parecchie centinaia di metri, appaiono sottili come lame di rasoio. Non so come ci si possa muovere in questo inferno inospitale di roccia viva, le pareti di basalto sono lisce e nere come specchi. Non disponiamo di viveri e l’acqua recuperata dal bagagliaio dell’aeromobile è contenuta in un’unica bottiglia termica di appena un litro. Al momento non riesco a fare nessuna ragionevole ipotesi sulle possibili cause dell’incidente. La bussola magnetica, poco prima dell’impatto, indicava una prua di 275°. L’equipaggio è formato dal sottoscritto, colonnello pilota Mario Gertz, e dal tenente navigatore Hulja Gertz, mia figlia. Siamo addestrati alla sopravvivenza. Sto riflettendo per valutare la situazione. Che Dio ci aiuti!

Colonnello pilota Mario Gertz


Le squadre di soccorso, giunte dopo diciassette giorni sul luogo dell’incidente, trovarono i due corpi abbracciati. Il colonnello stringeva ancora tra le mani l’unica bottiglia termica in loro possesso, ormai vuota. Nel tentativo estremo di offrire, con quelle ultime gocce d’acqua, la vita alla sua Hulja.  


#proprietà letteraria riservata#


Mario Trovarelli

Un aeroplano per amico


Era il pomeriggio del 4 luglio. Il tempo si faceva sempre più grigio mentre mi recavo in aeroporto. Dal finestrino aperto del mio maggiolino annusavo il profumo intimo e inquietante del temporale che si stava preparando.

Ero felice.

E’ incredibile come le strade di periferia, in vista di un acquazzone estivo, si affollino e prendano vita. Le persone si danno da fare alacremente per riporre al sicuro le sedie e i tavolini sparsi nei giardini. Le porte basculanti degli scantinati, le serrande delle rimesse, e le grosse ante dei garages delle villette di campagna si spalancano impietosamente per accogliere gli oggetti da riporre in fretta all’asciutto. E i passanti approfittano per violare, con occhiate indiscrete, le intimità custodite in quei locali, quelle che usualmente restano celate agli occhi degli estranei. Tutti sono indaffarati nel chiudere ombrelloni, mettere cose al riparo, richiamare i bambini dalla strada.

Quel giorno l’aria era ricca di profumi antichi dell’asfalto fresco e dell’erba appena tagliata, mentre guidavo piacevolmente verso la base. Attraversai lentamente la ferrovia. Nel frattempo le nuvole si erano fatte ancora più scure e cariche di presagi. Feci un respiro profondo per assaporare l’aria, e un brivido stimolante mi attraversò la schiena. Era come se stesse per accadere qualcosa di nuovo.

Le prime gocce caddero subito dopo il mio arrivo in aeroporto. Ebbi appena il tempo di parcheggiare la macchina che ricevetti l’ordine di prepararmi immediatamente per il volo.

La missione prevedeva l’ispezione del livello del Piave e dello stato degli argini. Mi fu assegnato il tratto di fiume che dal Montello scende giù, fino alla foce. Mi dissero che era stata segnalata un’enorme onda di piena proveniente dalle montagne. Si temevano eventi ambientali catastrofici. Avrei dovuto volare sul Piave e riferire via radio le notizie alla base. Dai miei rapporti dipendeva l’attivazione di eventuali soccorsi.

Dopo aver ricevuto gli ordini per la missione mi recai nello spogliatoio, indossai la tuta di volo, caricai il paracadute sulle spalle e in meno di dieci minuti ero pronto al decollo. Il vento soffiava forte da est, perciò la corsa di rullaggio fu assai breve.

Per evitare di salire troppo in fretta portai i flaps a zero subito dopo la rotazione. Volevo rimanere basso il più a lungo possibile per sorvolare la soglia di fine pista ad una quota non troppo elevata. La mia casa, infatti, si trovava subito fuori dall’aeroporto, sul prolungamento dell’asse pista. Ed era consuetudine che ad ogni decollo effettuassi un passaggio a bassa quota sulla sua verticale.

Smanettavo sul motore per attirare l’attenzione della mia Tanja. Lei di solito usciva sul balcone e mi salutava. Io ricambiavo il saluto oscillando dolcemente le ali per proseguire poi felicemente verso la missione. Quando la vedevo sul poggiolo il volo diventava più dolce. Era come se la portassi con me. Le parlavo ad alta voce come se mi fosse seduta accanto in cabina di pilotaggio.

Quel giorno non riuscii a vederla. Forse ero passato troppo alto sulla casa e il vento aveva spazzato via il rombo del motore che disperatamente avevo cercato di attivare per richiamare l’attenzione di mia moglie.

Avevo ridotto la velocità al limite dello stallo. Mi ero quasi fermato sulla verticale della mia casa in attesa di lei, lo ricordo molto bene. Ma ero altissimo. Avevo esteso nuovamente i flaps per consentirmi di ridurre la velocità al minimo senza precipitare come un ferro da stiro. Ma questa manovra mi aveva fatto salire più in fretta a causa del forte vento frontale. Mi era venuta voglia di scivolare d’ala per perdere rapidamente un po’ di quota. Ma era pericoloso, e poi comunque avrei perso la posizione. Perciò non lo feci. Con disappunto ritrassi i flaps e accelerai.

Giunsi sul Piave e cominciai l’ispezione. Il fiume era già grosso. L’argine occidentale era quasi completamente sommerso.

Salii a duemila piedi per avere un campo d’osservazione più ampio. Subito dopo chiamai la torre di Treviso per fare il mio primo rapporto sommario. Poi scesi a bassa quota sull’argine e cominciai a seguire il corso del fiume verso sud. Il volo a bassissima quota è prerogativa specifica dei piloti dell’Esercito. Siamo addestrati a seguire l’andamento del suolo perché il nostro lavoro consiste essenzialmente nel fornire un supporto a coloro che operano sul terreno.

Mi sembrò di tuffarmi dentro l’acqua tumultuosa e torbida del Piave. Ma in quella direzione le cose andavano progressivamente meglio. La vera onda di piena, quella segnalata sulle montagne, non era ancora giunta a quell’altezza. Perciò feci un secondo rapporto e decisi di virare verso nord per risalire il fiume fino al Montello.

Intrapresi la virata verso destra. Ma quando fui in grado di guardare verso nord venni sorpreso da una visione terrifica. Un muro altissimo d’acqua stava scendendo rapidamente a valle straripando impetuosamente oltre gli argini del fiume e inondando violentemente i territori circostanti.

L’onda mi veniva incontro con una velocità incredibile mentre mi trovavo a bassissima quota. Non più di duecento piedi. Mi parve che l’acqua avesse un’altezza smisuratamente più elevata rispetto alla mia quota di volo.

Restai paralizzato per un istante.

Mi sembrò che una montagna viva mi stesse correndo incontro per sommergermi inesorabilmente. Risposi istintivamente cabrando con uno strappo violento sulla cloche. Tirai la barra alla pancia e il muso si sollevò velocemente. L’aereo cominciò a vibrare. Ero entrato in stallo. L’ala sinistra si abbassò pericolosamente. Ebbi appena il tempo di rendermi conto di essere sull’orlo di cadere in vite.

Gettai un occhiata all’anemometro. Velocità zero!

Riluttante restituii un po’ di cloche avanzando contemporaneamente la manetta del motore fino a fondo corsa. Portai i flaps alla massima estensione. La velocità riprese a salire.

Inserii la leva di riscaldamento dell’aria al carburatore e quella dell’arricchimento miscela. Sostenni il muso ma cercai anche di evitare di stallare nuovamente. Volevo… dovevo salire in fretta senza entrare in vite. Altrimenti sarebbe stata la fine.

Pregai la Vergine.

Invocai la mamma.

Ero un ufficiale pilota osservatore dell’Aviazione dell’Esercito. Ma ero anche un ragazzo. Avevo da poco compiuto ventitre anni.

I piloti dell’Esercito sono perfettamente addestrati a volare alle basse velocità. La guida di colonne motorizzate, l’aggiustamento del tiro d’artiglieria… i piloti osservatori hanno tutto quello che serve per cavarsela in ogni condizione. Per di più io mi trovavo ai comandi di un amico forte e sicuro, il mio Cessna L19E. Lui non mi aveva tradito mai.

Era un moderno e robusto monomotore a pistoni. Un velivolo interamente metallico ad ala alta progettato appositamente per l’osservazione aerea.

Dovevo salire senza stallare. Stimai la distanza dell’onda in un migliaio di metri. In rapidissimo avvicinamento.

Sapevo restare a galla nell’aria, appeso al motore, facendo del mio meglio per guadagnare un po’ di quota. L’avevo imparato atterrando su campi corti ostacolati da alte barriere sulla soglia.

Guardai l’altimetro. Feci un giro di controlli incrociati degli strumenti di bordo e contemporaneamente tentai di tenere sotto controllo la grande muraglia. Ma non la vidi più.

Un istante dopo mi trovai a volare quasi sul pelo dell’acqua. Credetti d’aver perso quota a causa di uno stallo improvviso. Guardai nuovamente l’altimetro. Ma non riuscii a leggerlo perché venni investito da una turbolenza forte e improvvisa.

Cercai di raccapezzarmi. E capii. L’onda d’urto della montagna d’acqua, in rapida discesa, aveva prodotto un moto convettivo. Così le mie ali erano state sospinte verso l’alto. Ero salvo! Il muro d’acqua si muoveva tanto velocemente da non rendermi conto che fosse passato. Perciò il livello del fiume era salito di molti metri.

Percepii nuovamente il controllo del velivolo: quota mille piedi, velocità centodieci miglia per ora, la barra di comando ben stretta nella mano destra, la manetta del motore nella sinistra. Guardai il cruscotto. Accarezzai con gli occhi il muso dell’aereo. Gettai un’occhiata sulle ali del mio fido compagno. E ritrovai la mia tranquillità.

Mi predisposi a proseguire la mia missione. Il pericolo era passato.

Cercai il microfono per lanciare il rapporto alla torre. Ma lo scenario al suolo mi colpì così tanto che non riuscii a parlare.

L’acqua dilagava dappertutto sollevando strati di asfalto dal manto stradale. Vidi lunghi tratti di binari ferroviari divelti e sollevati come fuscelli. Alberi sradicati. Grossi animali gonfi trascinati dal tumulto impetuoso.

L’apocalisse in pochi istanti.

Più in là c’erano delle case. Mi diressi sopra di loro. Alcune persone erano salite sui tetti e mi segnalavano la loro presenza. Con disperazione. In pochi istanti l’acqua aveva invaso tutto il territorio a occidente del fiume. E continuava a salire. Tutto il mondo visibile dalla mia quota di volo appariva invaso dall’acqua.

Raggiunsi le case. L’acqua le aveva sommerse fino al secondo piano. Su tutti i tetti c’erano delle persone che cercavano di attirare la mia attenzione.

Verificai il meccanismo di sgancio dei carichi alari per accertarmi di poter effettuare un eventuale rifornimento di generi di soccorso agli alluvionati. Mi abbassai fino quasi a sfiorare i tetti. Desideravo tranquillizzare quelle persone terrorizzate e disperate. Su ogni casa oscillavo le ali in segno di “ricevuto” e di solidarietà.

Feci il mio concitato rapporto alla torre di controllo. E ricevetti l’ordine di rientrare.

L’atterraggio fu particolarmente difficile a causa del vento fortissimo.

Su ordine del comandante del reparto scrissi un rapportino sull’atterraggio. “Lunedì 4 luglio 1966, ore 19.30.

Il tenente pilota-osservatore dell’Aviazione dell’Esercito Mario Trovarelli è atterrato sulla pista erbosa dell’aeroporto San Giuseppe di Treviso ai comandi del proprio Cessna L19E EI 28. Sia l’aeromobile che il pilota sono incolumi.”

Dopo due anni da quell’avvenimento lasciai l’Aviazione dell’Esercito per continuare a volare come pilota civile di linea. Ho volato fino al 1980. Da allora mi occupo di terapia dell’angoscia. Sono diventato uno psicoterapeuta. Ma ho continuato a sognare il volo ogni notte.

Oggi è sabato. Sono trascorsi vent’anni da quando ho smesso di volare, ma sento un forte desiderio di tornare a solcare il vento. Perciò, in compagnia della mia primogenita, mi sono recato su un campo di volo in Friuli. Ho percepito un’inspiegabile attrazione per quel cielo che ho sognato mille volte in tutti questi anni.

L’hangar è pieno di velivoli. Li osservo con nostalgia. Sfioro con trepidazione i loro motori. Guardo gli strumenti di bordo.

Sono pervaso da una dolce commozione nel ritrovare me stesso tra quelle ali e quelle fusoliere. Mi aggiro qua e là. Poi la mia attenzione viene attirata da un aeroplano ad ala alta, dall’aria amica. Lo guardo con incredula curiosità. Ha i colori mimetici che mi sono familiari.

Col cuore in gola mi avvicino lentamente a lui chinandomi per osservarne attentamente la carlinga, in cerca di una traccia. Sotto la nuova sigla s’intravede la coccarda tricolore e la scritta “EI 28”.

La mia emozione, al pari di quella terribile onda alluvionale del lontano ‘66, esplode inarrestabile.

Mia figlia sta effettuando un giro turistico intorno al campo. E noi due siamo qui. Io e il mio aeroplano. Uno di fronte all’altro, come due vecchi amici che si ritrovano casualmente dopo tanto tempo.

Gli americani lo chiamano Bird Dog. Non a caso. E’ come se mi stesse facendo le feste scodinzolando. E io allora lo abbraccio e lo tengo stretto a lungo. Lo abbraccio e lo accarezzo il mio vecchio, fido, stupendo amico. Come se si trattasse di un essere vivente.

Compagno di mille avventure. Testimone e custode del mio entusiasmo di giovane pilota.

Mia figlia, rientrata dal volo, mi riporta alla realtà. “Papà… l’hai ritrovato finalmente. Ho sentito dire che presto sarà demolito.”


Ai piloti dell’Aviazione dell’Esercito




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Mario Trovarelli

Il volo delle pojane

Il livello del carburante è basso e diminuisce a vista d’occhio. Ma non è possibile atterrare su questo suolo terribilmente impervio. Non riesco a trovare neppure una piccola striscia di terreno adatta ad un atterraggio in sicurezza. Ma la notte, per fortuna, è illuminata da un’argentea luna piena. Continuo ad aggirarmi col mio velivolo tra le alture che delimitano questa piccola valle perché le nuvole basse m’impediscono di trovare una via d’uscita verso la pianura. Comincio ad aver paura. E’ stato facile raggiungere la valle, ma poi è calata improvvisamente la notte e le nuvole sono scese ad occultare i passi. E così sono rimasto imprigionato in questa gabbia di monti e di nubi. Ho carburante per un ora, ma se non sarò fuori dalla gola entro quaranta minuti, non riuscirò a raggiungere la pista in pianura, e sarò costretto ad effettuare un atterraggio d’emergenza tra questi dirupi scoscesi. Sono un pilota esperto. Ho volato su aeroplani diversi accumulando un’esperienza di migliaia di ore di volo. Ma rischio di morire qui dentro. In questa meravigliosa trappola della natura, ai comandi del mio piccolo velivolo ultraleggero. Si dice che si snodi un film, con le immagini più significative della propria vita, nella mente di chi sta per morire. Chissà se è giunta la mia ora tra queste cime e resterò vittima del mio errore da allievo pilota! Dal momento in cui ho preso coscienza del pericolo di vita un’immagine persistente e nitida mi torna alla memoria: la quercia sulla collina. Era bella la mia collina. Uscivo poco prima del crepuscolo per raggiungerla. Da lassù potevo dominare tutta la valle. Sapevo che a quell’ora la quiete della campagna invitava al raccoglimento, mentre la campana rintoccava il vespero per rammentare alla gente che il giorno stava per finire nel nome di Maria. Cercavo un posto sulla sommità del colletto per accoccolarmi ai piedi della quercia. E col cuore in pace mi stupivo di quell’incanto. Ogni volta come la prima volta. Restavo a lungo in ascolto di quel silenzio magico e solenne che di lì a poco sarebbe stato interrotto dal fruscio delicato e misterioso delle ali delle pojane. Gli uccelli lasciavano i nidi e i loro piccoli, nei pressi del fiume, per raccogliersi sul cielo della collinetta. E volavano in perfetta formazione, felici di eseguire manovre d’alta acrobazia. Al riparo dalle doppiette fameliche dei cacciatori di campagna. Io li aspettavo in silenzio. In genere avvistavo un grosso esemplare in esplorazione. Poi, un poco alla volta, si formava il grande cuneo che ordinatamente effettuava mille evoluzioni sul cielo dell’altura. Le pojane non amano essere osservate. Sono umili e timide. Non desiderano esibire le loro abilità, perché volano per cacciare. E’ il loro modo di sopravvivere. Perciò me ne stavo rannicchiato sotto la quercia. E imparavo a volare. Mio padre era un pilota da caccia. Fu abbattuto nel cielo delle prealpi carniche nel corso di un combattimento. Nel pieno della guerra. Io non l’ho mai conosciuto. Prima del temporale, in certi pomeriggi d’estate, le pojane si levavano in volo dal greto del fiume per raccogliersi sul mio colle e salutare l’acquazzone con le loro evoluzioni. Da piccolo dicevo sempre che da grande avrei fatto il pilota. Come papà. E quando divenni grande volai. Fui un pilota militare ed ebbi l’aquila d’oro. Mentre il comandante del corso me l’appuntava sul petto mio padre era lì con me. Avevo una sua fotografia in tasca. E la portavo sempre nella tasca della tuta di volo quando mi alzavo in missione. Continuai a volare anche quando diventati più grande, come pilota di linea. Poi frequentai l’università e, in occasione della laurea, feci una grande scoperta. Imparai che le pojane avevano ispirato i pionieri dell’aria a costruire le prime macchine volanti della storia! Ma non devo aver imparato la lezione delle pojane né quella di mio padre: la sicurezza innanzitutto! Sono decollato dalla pista in pianura troppo tardi nel pomeriggio. Poi mi sono infilato in questa gola perché mi sembrava la stessa in cui fu abbattuto mio padre. Non mi sono accorto del calar della notte. E delle nubi che si abbassavano sulle cime. Mio padre è morto da eroe. Io morirò da allocco. La benzina scarseggia. Sotto di me vedo sempre e solo montagne. Picchi alti come pinnacoli acuminati e creste affilate come lame taglienti. Nessun praticello per poggiare il fragile carrello del mio aeroplano. Dentro la pancia sento caldo. Sopra la schiena ho un freddo intenso. Sulla testa ho come un peso opprimente. Percepisco rivoli di sudore attraversarmi la fronte. Laggiù, nella mia terra, il campo di girasole è diventato giallo. I semi sono maturi. Il raccolto dovrà essere stivato, altrimenti andrà perduto. Basta sognare… col naso sempre in su, e con gli occhi perennemente rivolti al cielo. Papà è morto da eroe. Me lo dicono tutti. Il campo di girasole è diventato bruno per la grande pioggia che ne ha umiliato le corolle. E le foglie scarne non ricoprono più il terreno né lo proteggono dal sole d’agosto. Ma il sole non c’è più. Quassù fa freddo. E la benzina è agli sgoccioli. Mi sembra di scorgere qualcosa che mi vola accanto! Ispeziono lo spazio circostante. E’ un volatile… A questa quota! Soltanto le pojane raggiungono le vette. Non sono più solo adesso. Andrò a morire in compagnia di una pojana. Mi sembra una magia. Ma ne vedo un’altra… due… quattro… tante… Una formazione di pojane sta volando sul mio fianco sinistro. E punta decisamente verso una nube. La mia mente è attraversata da un conflitto atroce. Ma alla fine decido di affidarmi ai falchi. Ed entro nelle nuvole con loro. Nel buio di questa nube intensa mi sembra d’esser cieco. Procedo mantenendo quota e velocità. Le pojane posseggono un altissimo senso d’orientamento. Volano di notte per cacciare. Non possono fallire. Vanno verso la vita. Con esse posso salvare me stesso e salvaguardare l’incolumità di questo piccolo e prezioso aeroplanino. Ora la luna riappare tra le nuvole frastagliate. E la visibilità si apre a dismisura come una festa. Vedo la salvezza! I piccoli falchi cominciano a scendere lentamente. E io con loro. Ormai docile alle loro indicazioni. Riduco lentamente i giri del motore e seguo la formazione. Mi chiedo se sto sognando. No. Le pojane vanno verso la pianura per procurarsi il cibo. Ecco la spiegazione! E il mio piccolo velivolo è stato inserito nella loro formazione. Il motore continua a girare ma so bene che dovrò appoggiare le ruote al primo tentativo d’atterraggio. Non avrò carburante per una riattaccata e un secondo giro. La “Master Light” è ancora accesa. C’è ancora qualche goccia di benzina dentro l’ala. Sento nella pancia la serenità della planata. La fronte è fresca come l’aria della sera. Il suolo è illuminato dalla luna piena. Sono in avvicinamento finale alla pista zeronove, la visibilità è ampia, il vento è calmo, e sono perfettamente allineato con l’asse. Riposa in pace papà! So che stai vegliando su di me. Sto atterrando con l’aiuto delle pojane che tu mi hai mandato per salvarmi.


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Mario Trovarelli

Un volo drammatico

Ali di farfalla la quota di volo indefinita l’ambiente sconosciuto forse sto volando al consueto livello di crociera o forse no non capisco sono sul mare in un paesaggio quasi balneare dal colore azzurrino l’acqua trasparente lascia scorgere le rughe del morbido fondale sembra quasi che le increspature della sabbia riproducano perfettamente le piccole onde che lievemente muovono la superficie del mare memorie antiche del mare adriatico forse il lido di pescara o la spiaggia di francavilla ortona o forse vasto petali di biancospino un’acqua luminosa e turchina poco profonda e perfettamente chiara mi sorprendo per la lentezza del sorvolo a bassa quota la velocità è bassissima tutto è molto placido e strano da quest’altezza dovrei avere la sensazione di uno scorrimento rapidissimo delle immagini del suolo ma non è così un brivido di preoccupazione mi ghiaccia la schiena non ci sono ostacoli e il mare scorre a velocità lenta guardo gli strumenti sul pannello di controllo secondo i parametri di bordo l’aeroplano sta volando correttamente eppure ho l’impressione di veleggiare è come se stessi galleggiando pericolosamente nell’aria ho strane sensazioni di disagio ma il volo è tranquillo liscio e lieve davvero non capisco il mio disagio aumenta all’improvviso avverto un forte scossone accompagnato da un colpo secco come uno schiocco di frusta zolle di terra appena arata un fulmine una gigantesca scarica elettrica a ciel sereno guardo avanti con un presagio di catastrofe il mare blu dal fondo sabbioso il sole e l’azzurro tutto scomparso di fronte al musone del grosso quadrigetto ora vedo con sorpresa il buio nero più pesto ma quando un lampo abbagliante rischiara tutt’intorno è troppo tardi il fianco roccioso di una montagna mi compare minaccioso davanti e si avvicina celermente ho un lunghissimo istante per realizzare il senso di quello che mi sta capitando e comincio a ricordare dream sono decollato da milano otto ore fa con destinazione tokyo il volo verso oriente contrae il tempo perché la velocità del sole che ci viene incontro si somma a quella dell’aeroplano che avanza verso il sole si parte con la luce del giorno ma il buio sopraggiunge rapidamente sono un primo ufficiale di B747 in servizio di linea il comandante si è ritirato in cuccetta per un riposino le sue ultime parole mi hanno suggerito di non spegnere il radar abbiamo cumulinembi di prua ad alta quota poi il rollio dolce di una lieve turbolenza che preannuncia temporali lontani il buio del sole tramontato di fretta dietro uno strato spesso di nuvole nere il pennello verde dello schermo radar che disegna il contorno luminescente di grosse nubi all’orizzonte devo essermi assopito foglie d’ortica eleganti e carnose invitano alla carezza sono l’unico pilota ai comandi e sonnecchio lasciando abbandonato a se stesso l’aeromobile forse ho socchiuso gli occhi per sognare il ricordo mai sopito di una nostalgia struggente dev’essere accaduto così ho cominciato a percepire qualcosa che assomiglia all’umore che un tempo assai lontano annunciava i temporali di casa nella campagna d’abruzzo l’erba che sale fino alle narici il fragore delle nuvole basse che si affrettano all’adunata sul monte corno del gran sasso la valle della pescara che si adombra in vista della grande pioggia tutti dentro ché fra poco pioverà raccomanda la nonna colte di sorpresa le pecore si svegliano dal torpore della giornata al pascolo e indispettite rincasano mentre il nonno chiude la stalla le prime gocce cadono sempre troppo presto come troppo presto svanisce l’infanzia spensierata oggi a casa anzitempo per assaporare tutti insieme il profumo delle patate arrostite sotto il coppo e per parlare per ascoltare le preoccupazioni del nonno sui danni che il temporale farà sulla campagna l’anno passato non era piovuto quasi mai e il raccolto era stato magro quest’anno pioverà troppo se comincia così presto e la pescara strariperà raggiungendo il tratturo e inondando d’acqua e limo tutti i campi della piana il raccolto sarà di nuovo scarso la parete rocciosa di duro granito con quella sorprendente eleganza dei suoi ricami d’un candido rosato viene incontro a questo sogno infantile per infrangerlo trecentocinquanta passeggeri a bordo affidati ai miei sogni di bimbo infelice è la fine ho paura poche centinaia di metri mi separano ormai dalla catastrofe sadicamente illuminata da un lampo temporalesco tra le pieghe della dura roccia riesco a riconoscere alcune chiazze bianche di ghiacci d’alta quota e delle oasi di piante d’alto fusto conifere dai tronchi dritti e affusolati come alberi da vela un bel paesaggio davvero che sciocchezza sto per morire uccidendo trecentocinquanta passeggeri paganti e ignari e io mi godo il panorama olmi e ulivi salici e querce sono altrove la mia terra d’abruzzo è assai lontana il tempo sembra dilatarsi all’infinito come per darmi l’occasione di soffrire fino in fondo l’orrore d’una morte colpevole cerco nella mente il ricordo dei miei cari ma il pensiero s’inceppa e non riesco a rammentare i loro volti né i loro nomi mi ritrovo da solo con me stesso in un istante che sembra congelato flash di luce accecante e inutile per un attimo preferisco pensare di essere impegnato al simulatore di volo o di essere annebbiato dal sonno della stanchezza o dall’alcool ma io sono astemio e il pensiero consolatorio non funziona ritornano insistenti le parole del comandante sta’ attento ai temporali e tieni gli occhi aperti e il radar acceso sta’ attento ai pericoli del mondo riecheggia la voce dolce e premurosa della mia nonna contadina mentre mi stringe per l’addio e mi mette nella tasca un pugno di terra preziosa per non doverti separare mai da noi mi disse mi ero messo ad osservare quella catena interminabile di clusters che si muovevano come materia viva ad ogni passaggio del pennello elettronico intanto la fantasia si era abbandonata alle leggende che i piloti anziani raccontavano sui cumulinembi le fucine del cielo fabbricano blocchi di ghiaccio del peso di un grosso meteorite per poi sollevarli verso l’alto come foglie al vento i fulmini schioccano a ritmo incalzante rischiarando a giorno quello scenario infernale non succede niente dice la mamma al bambino spaventato e mentre le bombe esplodono incessanti io mi nascondo nel petto caldo della nonna buona che sa di latte i tuoni irrompono in cabina provocando terribili boati la pioggia diventa orizzontale a causa dell’enorme velocità dell’aereo e impatta i finestrini anteriori con rumore assordante il ghiaccio cattivo della pioggia sopraffusa rischia di bloccare le superfici di comando non voglio morire invoco dio mi ascolta scoppia il pianto dentro di me ma il mio volto resta immobile tutto nel breve volgere di un attimo addio mia terra lontana è l’inferno una ripetizione eterna dell’errore fatale senza avere la possibilità di cambiare niente mi affido all’onnipotente e inaspettatamente l’aeroplano s’impenna in una cabrata quasi verticale la vertigine mi prende lo stomaco è come se la pancia del grosso velivolo ormai prossima all’impatto si rifiutasse di scontrarsi con la roccia viva e all’ultimo momento trovasse una via di fuga in un baleno l’aria si rischiara in cielo terso sono riuscito non so come a svettare ora posso vedere la sommità del monte disseminata di macchie sempre più frequenti di verde erba di pascoli d’alta quota è la majella o il gran sasso con in cima il monte amaro o forse il monte corno ma cosa importa dove sono se il sereno d’improvviso torna a splendere dal finestrino di destra scorgo una chiesetta con il suo chiostro che ha tutta l’aria d’un piccolo convento di nuovo immagini familiari di vita antica ricordi struggenti dell’abbazia di santo spirito a majella o del santuario del volto santo in manoppello dio mi ha ascoltato e sono salvo ora posso finalmente svegliarmi dal mio ricorrente incubo notturno fiori amari e senza colori dentro la tomba sono terrorizzato dalla morte e felice della vita il mio pensiero corre al santuario di montagna e ringrazio dio per avermi consentito ancora una volta di ridestarmi dal mio brutto sogno ho scoperto che dio non vola soltanto per i cieli dell’abruzzo forte e gentile egli è dappertutto e veglia su tutti i piloti credevo di aver fermato il volo abbandonando l’aeroplano invece ho perso le ali lasciando manoppello troppo presto ho smarrito le mie colline ma è sempre troppo presto quando si parte dall’abruzzo adesso lo so e forse un giorno potrò continuare a vivere senza più scontare sulla terra le angosce di un pilota che troppo presto ha smesso di volare

Alla Cavalleria dell’aria. Con riconoscenza!


# proprietà letteraria riservata #


Mario Trovarelli

Aeracnofobia

Manaus, 8 novembre 1960

Sono le undici e venti del mattino, e a quest’ora il sole picchia forte, quaggiù.

La lamiera del vecchio Dakota si sta già surriscaldando, ma se non altro la sua ombra mi protegge gli occhi dal riverbero del sole. Con un cielo così terso non ci sono Polaroid che tengano, ve lo dico io.

Noris mi tira per il gomito, e mi indica il furgone Ford che si sta avvicinando, facendo la gimcana tra i Pipers e i Cessna, là nel recinto dell’Aeroclub.

Lo faccio, distrattamente, poi consulto il mio cronometro da polso, raschio la gola, e sgancio uno sputo che si infrange sull’asfalto scrostato della pista esplodendo in una chiazza bianca come la bomba di un B-52.

Anche questo aeroporto è uno sputo, il mio aereo è una malandata carretta che non potrebbe correre neppure in autostrada. E la compagnia per cui lavoro, la gloriosa Condor Trans-Am, dev’essere ridotta ben male, se il comandante (che sono io) prima di ogni volo deve aspettare in cima alla scaletta i passeggeri con un taccuino in mano, pronto a spuntare la lista d’imbarco. Il Ford adesso è proprio sotto di noi. Sento Felipe tirare il freno a mano, gli pneumatici slittano stridendo, lasciando sul terreno quel poco di gomma che c’è rimasta ancora attaccata. Un’inchiodata, uno scossone violento seguito dalle indignate proteste dei nostri pregiati clienti; d’altronde, che io sappia, tirare il freno a mano è l’unico modo per fermare in uno spazio ragionevole quella sottospecie di furgone, se vogliamo escludere un colpo di mortaio ben assestato. Intanto gli operai che hanno caricato la stiva se ne rimangono seduti nella loro jeep senza decidersi ad andarsene. Non me ne stupisco: da là sotto le cosce di Noris devono essere un gran bello spettacolo, e se uno ha la vista buona… Conto le persone che scendono dal furgone, mentre Felipe tira giù valigie e borsoni dal tetto. Otto, nove, poi, quando credo che siano finite, saltano fuori due marmocchi così piccoli che ti stupisci a vederli camminare già da soli. Felipe intanto si sta assicurando che la scaletta sia agganciata bene, anche perché, se qualcuno dei passeggeri cadesse giù, dopo toccherebbe a lui pulire per terra. E’ un bravo ragazzo Jivaro che darebbe un braccio per tornare dalla sua gente. Solo che la sua gente non c’è più: una banda di garimperos ubriachi di cachassa, un paio d’anni fa, per togliersi di dosso l’umidità della notte, non trovò di meglio che dar fuoco al villaggio della sua tribù. Dopo aver scannato tutti quanti gli indios, s’intende. Anche prima di quella brutta faccenda non è che parlasse molto, ma da allora in poi non gli ho più sentito pronunciare una parola che sia una. Tante volte lo scopro a guardarmi di traverso, e chissà perché subito mi sento la pelle di cappone. Eppure io sono tra quelli che gli stanno simpatici: bah!, si vede che è il colore della mia pelle a non essere più di suo completo gradimento. E in questo posso anche capirlo. – Benvenuti a bordo. – cinguetta Noris, e intanto il primo tizio, un biondo barbuto in vestito coloniale che sembra appena uscito da un film di Tarzan, passa in mezzo a noi. – Le mie kasse zono già state karicate? – chiede tirando in su i suoi occhialetti rotondi cerchiati d’oro. Con la sinistra alzo il berretto in segno di saluto, mentre l’indice e il pollice della destra si uniscono in un cerchio: tutto a posto, tutto sotto controllo, e intanto penso che l’unica cosa che gli manca per essere perfetto è un bel retino da farfalle. I due mocciosi si sono arrampicati intrufolandosi tra le gambe degli altri passeggeri, inseguiti invano da una ragazza con i capelli rossi come i loro, dalla pelle assolutamente candida, e due tette da urlo che sobbalzano pericolosamente a ogni gradino della scaletta. Quando il terzetto arriva in cima, scomparendo nella penombra della carlinga, Noris si volta verso l’interno, e con un movimento rapido blocca i bambini afferrandoli per i colletti delle camicie; ma per farlo deve piegarsi in due, offrendo ai tre missionari che salgono faticosamente verso di noi una veduta mozzafiato della parte migliore di sé. Devono essere proprio dei sant’uomini, o soffrire tutti di cataratta, visto che non fanno una piega. Il più giovane dei tre (si fa per dire) fruga nella tasca della tonaca scura, e mi porge le carte d’imbarco, stropicciate e incipriate di tabacco giallo da fiuto. Le due coppie arrivano per ultime. Persone di mezza età, che più che sposi sembrano fratelli, somiglianti come sono nei fieri lineamenti amerindi, nella pelle brunita dal sole, indurita e rugosa come il cuoio di un vecchio stivale. “ Abbronzatura da contadini. “ annoto da qualche parte del cervello. Quando mi sono vicini avverto distintamente il profumo di frittelle e salse speziate di cui sono intrisi i loro vestiti. Quando guidavo la corriera, in Italia, gli uomini puzzavano di sigaro, e le donne di cipolla e pomodoro. Seduto nella cabina di pilotaggio mi sento decisamente più a mio agio. Sbatto via la carta di navigazione, ormai la rotta la conosco a memoria, poi con tutto quello scotch appiccicato per tenerla insieme non ci si capisce quasi più nulla. Mentre cominciamo a rullare, faccio un rapido conto: il tedesco, le due coppie, i preti e la ragazza coi bambini … poi ci siamo io e Noris. In tredici, porca vacca, siamo in tredici! E’ la seconda volta che accade in tre anni, e quando è successo l’altra volta, all’atterraggio il carrello s’è aperto male, e abbiamo dovuto riverniciare la pancia metallica di questa vecchia carretta, e la Madonna della chiesa della Santa Vergine di Manaus per tutto il mese successivo s’è guadagnata la sua brava candela. E un po’ di cera la faccio colare anche adesso, quando me ne ricordo. Appesantito com’è da tutta quella roba che stamattina gli hanno ficcato nella stiva, il vecchio “Garrincha” sembra non volerne sapere di alzare dalla pista il suo culo di latta. (l’idea di cambiare nome all’aereo venne a Paulo, il figlio del padrone, per celebrare la conquista da parte della Selecao della prima Coppa Rimet, in Svezia) Mi viene in mente che solo per caricare bagagli e impicci del mangiacrauti, c’è voluta quasi un’ora, stamattina: chissà cosa cavolo si porterà dietro, che Dio lo strafulmini! Non c’è più manetta da dare, e ancora la cloche non manifesta sintomi d’erezione, e quando ormai credo di andarmi a infilare nella rete di recinzione del campo, hop! il vecchio puledro si decide a spiccare il salto, superando l’ostacolo di non più di un paio di spanne. Mi asciugo sul collo quel sudore che solo la strizza riesce a spremerti così ghiacciato, poi agguanto il microfono e, come se niente fosse, con la voce più calma di questo mondo, avviso i passeggeri che il decollo è avvenuto regolarmente, che non sono previste perturbazioni, e che, viaggiando a una velocità di crociera di circa 170 nodi, saremo a Belèm alle … L’odore che si diffonde nella cabina mi va dritto al cervello: è il caffè che sta preparando Noris, (l’unico lusso concesso ai passeggeri della Condor Trans-Am) e vi assicuro che l’espresso è in assoluto la seconda specialità del suo repertorio. Una delizia, niente da invidiare a quello che la mattina, giù in Italia, tanti anni fa, preparava per tutti zia Assunta. Un tozzo di pane e mortadella in tasca e via, tutti a lavorare!, anche se a quell’epoca invece è a scuola, che sarei dovuto andare. Tempi grami, anche se ogni volta che ci penso mi si annodano le viscere sotto l’azione di una specie di incomprensibile nostalgia. Chi di voi ha un po’ di dimestichezza con queste faccende si starà chiedendo già da un po’ come mai non vi ho ancora parlato del secondo pilota. Beh, la verità è che da quando è morto il vecchio Roberto, con quello che costa il personale, il capo non ha voluto saperne di assumerne un altro: così ha sganciato una mancia a non so quale maggiore dell’aeronautica e adesso risulta che Noris è titolare di un brevetto di volo coi fiocchi. Peccato che lei non sappia guidare neanche una bicicletta, ma l’importante è che le carte siano a posto, e come vi ho già detto per il resto è una ragazza di grandi risorse … Mando giù il nettare bollente (per me c’è una tazzina di porcellana, non uno di quei schifosi bicchieri di carta), sono o non sono il capitano, eccheccazzo! Dopo, inserisco il pilota automatico. E’ una specie di rito, chiamatelo un tic, ma a questo punto mollo sempre tutto e vado a farmi una ricca pisciata. Sono lì dentro con l’affare in mano, non so se mi spiego, quando Garrincha ti va a beccare uno delle più fottute discendenze in cui mi sia mai capitato di inciampare. Quelle che i borghesi chiamano “vuoti d’aria”, tanto per intenderci. Per fortuna siamo già parecchio in alto, perché quando cominciamo a scendere come un sasso sembra proprio che non debba più finire. Il danno minore è che mi bagno i calzoni, quello più serio che con una forte capocciata sfascio lo specchio, e una scheggia di vetro mi si infila proprio a due millimetri dall’occhio. Fuori dal gabinetto sento volare di tutto: borse da viaggio, macchine fotografiche, donne, preti e bambini; per non parlare del carico nella stiva, credo che ci sia stato un gran frullato, lì dentro. E come strillano, sembra stare al Maracanà quando l’arbitro fischia un rigore contro il Botafogo. Poi, se Dio vuole, finalmente tutto finisce, e Garrincha si rimette in linea. Noris ha un ginocchio viola, ma si sta già dando da fare con bende e cerotti. Benedetta ragazza, è proprio una brava garota. Quando mi sarò stancato di passare il mio stipendio alle puttane di Mama Rosa non è del tutto escluso che le chieda di sposarmi. Uno dei missionari, quello che sniffa tabacco, s’è fatto un bello sfregio in mezzo alla fronte. Gli altri due gli stanno intorno, uno cerca di fermare l’emorragia con una pezza bagnata, il più anziano con ago e filo cerca di ricucire alla meglio una manica sgarrata. Fino a qui tutto sotto controllo. I bambini giocano acquattati sul pavimento del passaggio tra i sedili, completamente indifferenti alle proteste di Noris, costretta a scavalcarli ogni volta che passa. La rossa più di tanto non può impallidire, c’è un limite a tutto, no? Allora se ne sta lì a sfogliare una rivista di moda, tanto per darsi un contegno, senza accorgersi neppure che ce l’ ha in mano capovolta. Le due coppie di contadini devono essere abituate a gestire problemi ben più gravi di un salto in basso: gli uomini si sono accesi due monumentali sigari, e spippettano con la solennità di due sakem indiani: il fumo non riesce a nascondere il livido bluastro e gonfio in cui affonda l’occhio di uno di loro. Quello che sta peggio di tutti è il tedesco. In faccia non ha segni particolari, il biondo, ma lo vedo imbambolato al suo posto, con gli occhiali spezzati in grembo, e lo sguardo appannato fisso sui grandi misteri della vita. Solo quando gli passo accanto, ha un sussulto. Mi sento artigliare il gomito: è una cosa che odio. – Defo kontrollare bagaglio, prego! – Gli tiro via la mano. Con uno spintone lo respingo contro lo schienale. – Non se ne parla neppure: la stiva non si apre fino a quando non siamo arrivati! – e proseguo dritto. Ho ben altro da fare, adesso. – Tu non capire, herr kommandant: si tratta di una ferifika azzolutamente indispensabile … – Arrivato in cabina sfilo dallo zigomo la scheggia di specchio e siedo al quadro comandi. – Per favore, Noris, fai mandar giù al crucco un paio di pasticche di Valium, e se prova a muoversi dal suo posto assestagli un pugno sul naso – ordino, mentre una per una verifico tutte le spie di quell’albero di Natale. Se sapessi quali sono le mani del buon Garrincha, gliene stringerei una, per congratularmi: almeno a un primo e sommario esame sembra essere uscito del tutto indenne dal gran ballo di poco fa. Mica male, per un vecchietto come lui. Mentre il naso comincia gonfiarsi di sangue pesto e dolore, sento Noris, alle mie spalle, fare ingresso in cabina. Il profumo amaro che mi avvolge è una squisita miscela di bergamotto e di essenza di femmina, e quando sento le punte dei suoi capezzoli pungermi attraverso il cotone della camicia – Passami una paglia. – riesco appena ad articolare, ma è ben altro quello che vorrei chiederle. – C’è ancora un po’ di casino, là dietro … – mi alita sul collo, e subito, là in basso, nel mio profondo sud, la situazione mi si fa estremamente critica. – … ma nessun ferito grave, credo. – e mentre le chiedo come se la passi il mangia-kartoffen, m’infila la mano nella tasca destra dei pantaloni per arraffare il pacchetto delle Pall Mall. – “Stanghette d’oro” dev’essere rimasto rimbecillito dal colpo. – mi relaziona, sussurrandolo come se fosse una dichiarazione d’amore. – Prima era agitato, continuava a urlare come un ossesso perché l’aiutassi ad alzarsi, e l’accompagnassi a fare una ricognizione nella stiva. Poi si vede che le pillole e la botta hanno fatto effetto insieme … Avresti dovuto vederlo: si è fermato a metà di una frase, gli si sono abbassate le palpebre ed è ricaduto sullo schienale del sedile afflosciandosi come un sacco vuoto. Adesso dorme come una creatura. – Infila di nuovo la mano, spingendola più in fondo, lentamente, finché non trova i fiammiferi. Credetemi, è un vero supplizio. – Noris, accendimi questa cazzo di sigaretta e torna di là, che è meglio! – abbaio alla fine, e mentre lei se ne va imbronciata, per distrarmi abbasso lo sguardo sulla più grande moquette del mondo srotolata proprio sotto di noi. Nel bel mezzo di quel tripudio di verde, di tanto in tanto, per ricordare a tutti d’essere sempre lui “Sua Maestà”, il Rio delle Amazzoni manda su riflessi dorati intensi come lampi di flash. E, a proposito di fotografie, dal settore passeggeri parte il primo clic, un altro, un altro ancora, scatti secchi che si rincorrono per mezzo minuto come il ticchettio di una macchina da scrivere sotto le dita d’una segretaria d’azienda. Poi una battuta incomprensibile seguita dall’eco di una sonora risata collettiva. Buon per loro, vuol dire che la paura è passata. Per un’ora buona andiamo avanti senza problemi. Così tranquilli che un paio di volte mi trovo con la faccia incastrata nella cloche, e mi sveglia soltanto il dolore boia che dal naso mi trapana la cervice. Accanto a me Noris se la dorme di grossa, stravaccata sul sedile del secondo pilota. E dire che le avevo chiesto di aiutarmi a rimanere sveglio: mica facile lavorare, quando sei stato su la notte intera a sambare al Mocambo. Quando riapre finalmente gli occhi, il mio “pilota in seconda”, è fradicia di sudore. Non voglio dire che questo sia necessariamente un guaio: il cotone bagnato tende ad appiccicarsi alla pelle, e a diventare trasparente, lo sanno anche i bambini. Beh, per farla corta: nei cassetti della sua camera da letto Noris ha un’intera collezione di reggiseni. (e non chiedetemi come faccio a saperlo) Lei dice di adorarli, e che ne indosserebbe uno diverso ogni volta che esce di casa … se non fosse per colpa di quella fastidiosissima allergia che le provocano sulla pelle del seno! È esattamente per questo che da diversi anni non utilizza più quel genere di indumento. Così avrei tanto bisogno di una doccia fredda, credetemi sulla parola. Invece qui dentro fa un caldo feroce. Una bella scrollata del capo per snebbiarmi la mente dai cattivi pensieri. – Noris, senti che afa! I passeggeri staranno soffocando, puoi scommetterci. Sarebbe il caso di servire una bibita fresca, non credi? – Lei mi guarda ancora semiaddormentata. Spinge le braccia indietro e il torace in avanti, e si stira languidamente. Sento distintamente lo scricchiolio dei primi bottoni della camicetta sotto tensione. Una semplice doccia adesso non servirebbe più. Molto meglio una caraffa di valeriana. La fermo mentre sta per uscire in corridoio. Appena in tempo. – Metti su il giacchino, cara, se non vogliamo rischiare che qualcuno di là si becchi un infarto. – Un’alzata di spalle, con la boccuccia imbronciata. Si sistema due riccioli che gli sono rimasti incollati alla fronte, si liscia la gonna, infila il giubbino blu con il condor d’oro all’occhiello e và. A “ore 12”, proprio davanti al muso di Garrincha, intanto è comparso un cumulo di nuvolaglia nera, che mentre ci avviciniamo continua a gonfiarsi minacciosamente: è il fiato umido della foresta e del grande fiume che si appresta a tornare giù, com’è abituato a fare quasi tutti i giorni dalla notte dei tempi. Ci sarà parecchio da ballare, lì dentro, e mancano ancora due ore per arrivare a Belèm. Dalla foga con cui spalanca la porta della cabina, ci sarebbe da pensare che, anziché aprirla, probabilmente Noris intendeva passarci attraverso. Un gran botto, che mi fa voltare di colpo: se ne sta in piedi tra frammenti di bottiglie e una pozza frizzante di aranciata e pepsi, con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata in un urlo che non le riesce di cavare fuori dalla gola. Mi alzo a mia volta, cosa volete che faccia? Le strappo di mano il vassoio; ormai è vuoto, ma devo allargarle le dita una a una, per portarglielo via, e ci vuole tutta la mia forza. – Che ti è successo? – le chiedo subito dopo, prendendola per le spalle e scuotendola forte di qua e di là. Niente. Prima di convincermi definitivamente che è partita di testa, c’è un ultimo tentativo da fare: le rifilo due schiaffi che farebbero girare la testa a un cavallo, e lei si rimette in moto d’incanto, come la puntina di un grammofono bloccata nei solchi di un vecchio “78 giri”. – Di là … – mormora, indicando dietro le sue spalle. Non ha neppure il coraggio di voltarsi indietro. Grosse lacrime cominciano a scenderle lungo le guance, ma non sta piangendo: è troppo atterrita per farlo. Sento la schiena attraversata da una corrente gelida a 220 volts, e la scoperta di come la mia colonna vertebrale funzioni da conduttore meglio di un filo di rame non riesce a esaltarmi più di tanto. – Cos’è successo? Parla! – e probabilmente nel tono di voce e nello sguardo che le sparo addosso Noris coglie qualcosa che la convince di quanto sia meglio rispondermi subito. Si passa la mano sulle gote ancora paonazze. – Scorpioni, ragni, e non so cos’altro. Vieni a vedere. – Parla col tono animato della voce telefonica del segnale orario. Mi fanno schifo gli insetti. Ma la responsabilità di tutto è mia, quassù in alto. Le passo davanti e, scavalcando i cocci di vetro, esco in corridoio. In prima fila, a sinistra, il tedesco ronfa rumorosamente. Beato lui. Dietro due poltroncine vuote, poi le mature coppie di sposi. Gli uomini hanno allentato i nodi delle cravatte, e slacciato le stringhe delle scarpe. Le donne si sventolano con i ventagli multicolori ornati di pizzo. E intanto, tutti e quattro, bevono vino e mangiano pane e formaggio. I preti sono disseminati nella fila di sinistra. Uno legge il breviario, un altro scrive qualcosa, il terzo, quello ferito alla testa, si è addormentato mentre sgranava il Rosario, che infatti gli è rimasto intrecciato alle dita. Avanzo ancora. Dietro di me posso quasi sentire battere i denti di Noris, che mi segue passo passo, aggrappata alla cintura dei miei pantaloni. La sento irrigidirsi, appunto lo sguardo, ma non vedo altro, in fondo, che la ragazza dai capelli rossi che dorme con la mascherina nera sugli occhi, e ancora più in là, davanti alla porticina del bagnetto di bordo, nel piccolo slargo che divide i sedili dei passeggeri dalla stiva, i due mocciosi che giocano ridacchiando rumorosamente. Mi volto verso Noris. In questo momento non mi ispira sesso, neanche un po’: il suo sguardo è quello che doveva avere la settima moglie di Barbablù dopo avere messo il naso nella stanza proibita. Insomma, si è di nuovo inceppata, al punto che le si contraggono i muscoli facciali nello sforzo supremo di dirmi: – Gu-guarda be-bene, V-Vincenzo. – (è il mio nome, ma quando lo pronuncia lei, nel suo portoghese deliziosamente contaminato dal dialetto di Bahia, in un primo momento penso sempre che stia parlando con un altro) Comunque accetto l’invito, faccio altri quattro passi in avanti trascinandomela dietro (“ da come sta puntando i piedi c’è pericolo che da un momento all’altro si aggrappi ai sedili”) e guardo bene. La mascherina nera sul viso della rossa si muove, e ha le zampe. Un magnifico esemplare di vedova nera, non c’è che dire. La donna invece non si muove: più morta di così non si può, direi. I bambini non devono essersi accorti di nulla, visto che continuano a far confusione come se niente fosse. Hanno in mano dei giornali arrotolati, e con quelli spostano qualcosa sul pavimento. Sono tre, sono pelose, devono essere le sorelle maggiori di quella che si è fatta la loro mamma. Mollo Noris e faccio un salto in avanti. Stringo due braccine esili e tiro su con uno strappo, senza badare se procuro dolore: i nuovi giocattoli farebbero certo peggio di me. Li deposito sul sedile più vicino, poi tiro un po’ di calci a quelle schifezze nere, ma sono più svelte di me, si dividono e si disperdono con la perfetta coordinazione di una banda di ladri all’arrivo della polizia. Butto un occhio alla porta dissestata della stiva: è da lì che esce la processione, e a giudicare da quanti sono i partecipanti oggi deve essere la ricorrenza del Santo Patrono. L’urlo di Noris è come la sirena di mezzogiorno nella fabbrica di scarpe che c’è sotto casa mia. All’improvviso sono tutti svegli, tutti in piedi a chiedere cosa stia succedendo ancora: ci manca poco che anche la rossa si alzi e chieda cos’è tutto questo bordello, ma per i miracoli ci stiamo ancora attrezzando. All’improvviso la situazione precipita. Come dalle bocche dell’inferno, da sotto i sedili sciamano fuori decine, centinaia di insetti schifosi, la maggior parte ragni, ma anche scorpioni, scarafaggi supercorazzati e chissaddìo cos’altro. Non ho ancora realizzato bene lo scenario, che il tedesco comincia a urlare: – Afefo detto io! Zi zono rotti i kontenitori dei kampioni! – Bastardo, se avessi in mano una pistola gli farei saltare via la testa. Un brontolio cupo, un lampo accecante, scroscio d’acqua sulla fusoliera, il fragore assordante di un tuono, e Garrincha che s’inclina di lato e comincia a ballare la bossanova. Rogna fottuta, alla faccia delle previsioni meteorologiche!, siamo già sotto la doccia. – Noris, prova con l’estintore! – urlo, mentre corro verso la cabina per riprendere i comandi. Il rumore dei miei passi oscilla tra uno splat (quando affondo la suola o il tacco in uno di quei ragni grassi come topi) e un crac (quando invece frantumo il guscio di una blatta). Proprio a metà corridoio faccio l’errore di alzare lo sguardo: non è piacevole accorgersi che il soffitto, da grigio che era, è diventato un confuso brulicare nero. “ Ma quanti campioni aveva raccolto, quel mentecatto? “ Ho voglia di vomitare, mi sento prudere e pungere sotto i vestiti, ma per fortuna è soltanto suggestione. Prima di richiudermi la porta alle spalle, do ancora un occhiata a quello che sta succedendo in carlinga. Noris sta innaffiando di schiuma pavimento e poltroncine: vorrei sbagliarmi, ma mi sembra che stia ridendo come una pazza. I quattro contadini utilizzano riviste e giornali per menare colpi a destra e a manca: sono infaticabili, metodici, sembra che stiano battendo il grano dei loro campi. Il tedesco se ne sta in piedi, immobile come una statua di sale. E piange in silenzio. Due dei preti sono distesi per terra, e non è facile riconoscerne i lineamenti, nascosti come sono sotto quel tappeto di piccoli mostri. Il terzo, il più giovane, saltella come un disperato. E’ davvero ridicolo, ma d’un tratto capisco perché faccia così: mi vengono in mente i suoi piedi nudi, protetti soltanto dai sandali di cuoio. Faccio ancora in tempo a individuare i due piccoli, cui l’istinto di conservazione ha suggerito di avvolgersi completamente in un plaid: speriamo che non lascino nessuno spazio scoperto. Afferro la cloche, cercando di ricondurre alla ragione Garrincha. Gli acquazzoni sono all’ordine del giorno quaggiù, siamo d’accordo, ma a quanto pare oggi siamo capitati in una delle più rognose tempeste tropicali degli ultimi vent’anni, e la situazione va via-via peggiorando. Il rumore dell’uragano soffoca i rumori e le grida della battaglia che si sta svolgendo al di là della porta. Ma non del tutto, purtroppo. Fuori non riesco a vedere più niente. Abbasso la levetta del baracchino di bordo. – Belèm, qui CDR 811. Mi sentite? – Mi risponde una salva di disturbi-radio e pernacchie elettrostatiche. Vado avanti lo stesso, tentar non nuoce. – Siamo capitati in una grossa turbolenza, Belèm. E … abbiamo un problemino a bordo. – Figurati. Sembra che dentro il cruscotto abbia fatto il nido uno sciame di vespe incazzate. Meglio spengere. Anche perché, nel bel mezzo della tempesta, si apre incredibilmente uno spazio sgombero di nubi e di correnti. Saranno vere quelle stronzate sull’occhio del ciclone? Provo a reinnestare l’autopilota: voglio rendermi conto di come vanno le cose là dietro. Mi si presenta una scena allucinante: frotte di insetti immondi hanno conquistato ormai ogni spazio libero, piovono addosso ai passeggeri dal tetto della carlinga come fiocchi di neve nera; completamente imbiancata di schiuma antincendio, Noris usa la bombola ormai scarica come una mazza, e intanto continua a ridere sguaiatamente. Del crucco non si riconoscono più i capelli biondi. E neppure la barba. E’ ancora in piedi, ma dev’essere andato già da un pezzo: non si respira bene con la bocca piena di quei cosi. Il prete ha finito di saltare, adesso è ripiegato come una vecchia palandrana sulla spalliera della sua poltrona. Dei quattro contadini soltanto due stanno ancora lottando: uno pista sul pavimento gli stivali neanche fosse nel catino dell’uva dopo la vendemmia, la donna cerca con le mani di liberare dall’orrenda invasione il viso del marito morto. Anche se ha infilato i lunghi guanti di seta bianca tenuti in serbo per il Casinò di Belèm, non credo che resisterà a lungo. Noris è chiaramente esausta. Penso con raccapriccio alle sue scarpe scollate. Mando al diavolo il buon senso e corro da lei, la sollevo tra le braccia, e mentre lo faccio vedo soccombere gli ultimi combattenti. Come una furia torno indietro, rischiando di scivolare sulla schiuma che rende viscido il corridoio. “ Per fare prima ho lasciato la cabina aperta, ma forse è stato un errore! “ penso con raccapriccio, mentre frettolosamente mi richiudo la porta alle spalle. Noris mi sviene mentre l’adagio sul sedile del pilota in seconda. Intanto la tregua è finita, la tempesta imperversa più furiosa di prima e la carcassa del povero Garrincha ricomincia a scricchiolare come se il diavolo in persona ci stesse provando sopra il suo schiaccianoci gigante. Insomma, pare che sia richiesto immediatamente un mio intervento, ma devo prima controllare qualcosa. Sembra tutto a posto, poi lo vedo, il bastardo: il più grosso e repellente ragno che mai mi sia capitato d’incontrare mi aspetta comodamente appostato proprio sul mio sedile. Spappolarlo con un gran fendente della chiave inglese è il momento clou della giornata. Un vero spasso. Pulisco quella merda con la mappa, rendendomi conto che forse è venuto davvero il momento di chiederne una nuova. Mi siedo e guardo fuori, verso la sottile linea luminosa apparsa laggiù in fondo. Ancora venti minuti e usciamo definitivamente dalla bufera: ci sono un cielo color indaco e un magnifico sole ad attenderci. – CDR 811, rispondete! – gracchia la radio. Vorrei baciarla. – Qui Belèm. Allora, si può sapere o no cosa sta succedendo lassù? – E mentre spiego che sarà meglio farmi trovare sulla pista una bomboletta di insetticida molto, molto grossa, Noris finalmente si sveglia. Sbatte gli occhioni impiastrati di trucco sciolto. Il gemito doloroso di chi si ridesti dopo aver vissuto nel sonno un incubo terrificante persino a raccontarsi. – I BAMBINI! – grida, e fa per alzarsi. Le stringo il polso, tirandola giù. – Sono morti. Morti, lo capisci? Cosa vuoi fare? Seguirli all’inferno anche tu? – – Si erano protetti con le coperte. Potrebbero ancora … – e mentre sto per interromperla, invitandola a non dire altre minchiate, una vocina attutita, appena percettibile, chiama: – Mamma! – Si libera facilmente dalla mia presa, lasciandomi di sasso per la sua inattesa energia. Fruga nello scomparto sopra alla sua poltrona, tirandone fuori una tuta di plastica. – Dammi le tue calze e le tue scarpe, e soprattutto non azzardarti a fermarmi. Perché se solo ci provi ti ammazzo. – Faccio quello che dice, naturalmente, ma non distolgo gli occhi, mentre si sfila quello che ha indosso. Quando è pronta si china su di me, schiaccia le sue labbra sulle mie e mi bacia come non ha mai fatto prima. – Ti ho sempre amato. – sussurra, poi infila un paio di guanti di gomma, apre di scatto la porta e se n’esce, richiudendosela diligentemente alle spalle. – Parla la torre di controllo. CDR 811, abbiamo preparato quello che ci avete richiesto. Clear to land! – Fancùlo, un altro pischello che ha visto troppi film americani. Fammi spazio, sto arrivando, bamboccio! E mentre controllo l’altimetro e comincio a togliere potenza ai motori, un urlo acutissimo di donna mi polverizza il sangue nelle vene.

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Lagonegro, 1 febbraio 1994

Avevo poco più trent’anni quando, accaddero quei fatti. Ora ne ho quasi sessantacinque. Queste poche parole le sto dettando al registratore, perché da molto tempo le mani mi tremano al punto da non poter neppure reggere una penna biro. Non fu certo il più morbido atterraggio della mia luminosa carriera, inutile raccontarvi balle, ma alla fine riuscii comunque a posare le zampe del vecchio Garrincha sull’asfalto dell’aeroporto. Ancor oggi non so come feci, viste le condizioni pietose in cui ero venuto a trovarmi dopo la morte di Noris: anche perché, ve lo confesso, almeno un paio di volte dovetti vincere la tentazione fortissima di schiantarmi al suolo portando con me quelle immonde bestiacce. Non si erano ancora fermate le eliche che già salivano a bordo gli uomini della disinfestazione con i loro scafandri da palombari, e posso assicurarvi che in seguito mai profumo mi risultò più gradevole di quel DDT vaporizzato senza risparmio. Non sono più salito su un aereo, e questo non dovreste avere difficoltà a capirlo. Per tornare in Italia preferii sobbarcarmi un mese di navigazione oceanica, ma non mi pesò più di tanto. Da allora non sono più riuscito a dormire più di tre ore per notte, almeno fino a quando ho scoperto gli effetti soporiferi del vino rosso della mia terra di origine. Molto meglio persino della capirinha, sapete? Ma ci si abitua anche ai sonniferi più efficaci, e quando succede non ti rimane altro che aumentare la dose. Forse ho esagerato, però. I medici dicono che il mio fegato ormai è ridotto a una schifezza, e che non ci sono speranze di salvare la pelle. Ma non è questo l’aspetto peggiore. In camera da letto ho sostituito al materasso uno di quei sacchi a pelo a chiusura ermetica, ce li avete presenti? Perché, quando calano le prime ombre della notte, piccole macchie nere cominciano a passeggiare sui pavimenti dell’appartamento, lungo i muri, e persino sui soffitti; e continuano a farlo, anche se tengo accese tutte le lampade di casa. Ho stipato i ripiani di legno dello sgabuzzino d’ogni tipo e marca di insetticida in commercio, una vera e propria collezione, e ne spruzzo continuamente in ogni stanza, in ogni angolo, anche se finora non è servito a niente. Adesso però credo di aver trovato la soluzione giusta. Stamattina il medico, fissandomi con un’espressione strana, mi ha detto che quelle piccole belve escono da dentro di me, perché a furia di circolare nelle mie vene, tutto quell’alcool ha finito per attaccare anche il cervello. Boh! Una malattia con un nome latino, “Delirium Tremens”, ha detto. L’importante però è che dopo tante ricerche finalmente io abbia trovato la tana dei piccoli mostri. Mescolo con il cucchiaino da caffè nel bicchiere la polvere bianca che è venuta fuori dal flacone di metallo verde con il simpatico disegno di uno scarafaggio stecchito a pancia in su. E un quadratino giallo con teschio e tibie, giù in basso. Presto si scioglie nel vino, rosso, naturalmente. Alzo il calice e brindo a una donna che non vedo ormai da troppo tempo. Vuoi saperlo, Noris? Anch’io ti ho sempre amato.


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Patrizio Pacioni