[ Capita che l’uomo, anche se mutilato di ciò che e’ suo, continui a vivere e poi rinvigorisca ciò che gli è rimasto.
Come una pianta che potata, cresce nuovamente e prospera con un unico scopo: unirsi al cielo sopra di sé. ]
Bello il tempo al suo variare in quei giorni in cui l’estate lascia il posto alla nuova stagione. Il sole ancora caldo sembra amico finché una nube, più veloce dell’ancora lontano fronte scuro e minaccioso, lo copre. Ed allora, solo allora, provi una prima sensazione di freddo, repentina e veloce, come la corsa della nuvola che presto si scosta. Subito risenti la pelle scaldarsi come se nulla fosse stato. Guardi la parte sgombra del cielo, luminoso e fulgido con i raggi che scintillano sull’acqua del mare come tante stelle, ma là in fondo il fronte avanza e segna la nuova stagione.
Così vedeva Luca il cambiare del tempo in quei giorni sulla costiera.
Quel pomeriggio si era recato su, al bastione saraceno.
Aveva percorso prima la lunga strada lastricata ed infine era arrivato al castello dove erano state antiche fortificazioni per le lunghe notti di veglia delle sentinelle. Il lato del bastione che dava sul mare era imponente, aveva resistito al tempo ed alle tempeste, e da lì si potevano ammirare di pomeriggio, quando il vento soffiava tiepido,i marosi che impetuosi si frangevano sulla scogliera, improbabile punto di approdo di invasori e nemici.
Sulla cuspide di roccia all’estremità destra del bastione stava la torre.
Lì si poteva osservare lo spettacolo dei gabbiani che giocavano con il vento.
Il vento, batteva sull’alto muraglione, e poi fuggiva, veloce e verso l’alto, e così gli scaltri uccelli si avvicinavano alle mura rasentando le onde per poi salire in traiettoria verticale e senza un battito d’ala.
Passavano a pochi metri dallo sguardo di Luca che li ammirava nell’imponenza della loro apertura alare e mentre muovevano la testa a destra e a sinistra, con fare noncurante, come a godersi il paesaggio durante un riposo. Arrivati molti metri più in alto il vento li lasciava, ed ecco allora che loro muovevano un’ala in maniera impercettibile e con un’ampia virata, morbida ed elegante tornavano indietro, giù in basso, a rasentare nuovamente le onde, per ripetere il carosello senza fine.
Guardò in alto Luca a seguire il volo di uno di essi, poi portò mani vicino alle labbra, con le palme aperte, come ad amplificare il suono che avrebbe emesso, infine lanciò verso il cielo un verso simile al grido ed al gracidio. Lo aveva imparato da un suo amico pescatore che talvolta accompagnava nelle sue uscite in mare. Si alzavano la mattina con il buio, uno per vivere, l’altro per divertirsi, ed uscivano in mare con il gozzo. Il pescatore, aveva insegnato a Luca nelle brevi pause dopo mangiato, come fare ad imitare quel verso.
In realtà non chiamava i gabbiani, ma chiamava un gabbiano che con il passare del tempo era diventato suo amico e compagno di pesca.
Quando il gabbiano era presente nella moltitudine che volava sopra la sua testa, allora gli rispondeva. Così Luca aveva imparato a sua volta a chiamarlo, a riconoscerne le fattezze ed in qualche modo ad esserne amico e compagno. Poi il pescatore partì, tirò il gozzo a secco in un posto riparato ed emigrò dove gli sarebbe stato più facile vivere. Luca, fortunato, era rimasto, e con lui era rimasto anche il gabbiano che saltuariamente rispondeva al suo richiamo al bastione.
Quel giorno probabilmente il gabbiano era altrove e quello che Luca aveva creduto di riconoscere non era altro che un semplice volatile.
Luca ammirava la perfezione del volo di questi uccelli. La gestualità naturale che li portava a compiere evoluzioni, a vivere nel vento e a sorprenderlo con la loro eleganza nei giochi al bastione.
Tanti anni prima, da giovane, Luca volle provare la sensazione del silenzio che solo nel vuoto si può sentire. Si imbracò, salì e saltò.
La delusione fu grandissima, non riuscì ad abbracciare l’aria come avrebbe voluto; il suo essere uomo lo aveva richiamato alla paura del vuoto e così si rannicchiò in posizione fetale finché non rimase appeso ad un paracadute che gli dava la sensazione di galleggiare nel vuoto. Nel silenzio, si certo, nel più profondo silenzio, però in una maniera che era un trucco e non certo la perfezione del volo.
Gli rimase il sogno.
Capitava a lui di sognare di volare, ed ecco che con le braccia aperte e senza minimo battito volava e picchiava verso le onde e la spiaggia per poi cabrare e stallare e riprecipitare in un gioco senza fine.
E sempre nello stesso sogno, a volte, si vedeva dall’esterno, sgraziato, nudo, volare con le sembianze rigide di un Cristo tolto dalla croce. Non era importante volare, ma come volare.
Apparteneva definitivamente alla terra.
Si accorse che anche l’acqua era pur simile all’aria e che anche il più elegante nuotatore, sbuffava, digrignava, sbatteva sull’acqua delle membra per un risultato davvero misero. Si appassionò cosi ogni giorno di più alla gestualità e cominciò a scrivere l’alfabeto.
Dapprima minuscolo, poi maiuscolo, poi le parole ed infine a scrivere da sinistra a destra e da destra a sinistra. C’era una frase, che in particolare sapeva scrivere con un’eleganza che raggiungeva per lui la perfezione della calligrafia. Presto dovette però soccombere anche a ciò e capì che erano solo dei diversivi, dei rivelatori per qualcosa di più grande che doveva invece appartenere all’uomo in qualche parte della sua esistenza. Probabilmente ciò era nella quotidianità, nei gesti più semplici, nel raggiungere la perfetta consapevolezza del momento presente, senza il passato a turbare la mente, senza il futuro con false chimere a distoglierci dall’attimo. Quello che vedeva intorno a sé era invece un tumulto di pressioni, persone che rimbalzavano, spinte, tirate, strattonate in una rappresentazione di disordine universale.
Si avviò verso casa, un po’ preso dai suoi pensieri ed un po’ contento di essere stato al bastione. Costeggiò il molo del piccolo porticciolo che nel pomeriggio riparava le barche dal mare agitato e vide giù presso una grossa bitta Andrea.
Andrea era un vecchio, suo amico, con il quale divideva un po’ del suo tempo quando poteva e quando lo incontrava giù al molo a pescare.
Andrea era cieco, lo accompagnava lì la nipotina, sebbene fosse in grado di arrivarci anche da solo, e stava seduto sulla sua seggiolina a pescare in silenzio e con i suoi occhiali scuri ed il cappello di paglia. Era vestito sempre in maniera molto semplice, con una camicia vecchia, ma pulita, ed i pantaloni ricuciti qua e là. Sicuramente non era ricco, ma pieno di dignità e portamento.
Pescava con una vecchia canna di bambù, di tipo oramai introvabile e di cui lui si vantava non avere spezzato il cimino da anni.
La montava lentamente e con gesti misurati riusciva a trovare la scatola posta per terra, lì vicino, che conteneva la lenza. La prendeva, la annodava e si preparava a gettare l’esca.
Luca si avvicinò ad Andrea e lo salutò, con la voce piuttosto fioca, come si usa con i pescatori. Andrea si voltò e sorrise mostrando tutto il disegno delle rughe sul volto.
“Come và?” disse Andrea.
“Bene, sono stato al bastione” rispose Luca.
“Al bastione, a sentire i gabbiani ” mormorò il vecchio quasi fra sé.
“Sì, a vedere i gabbiani” rispose Luca.
Andrea pescava seduto, con i gomiti appoggiati alle gambe e proteso leggermente in avanti e tenendo la canna lievemente, quasi in equilibrio nella mano destra. Non usava il galleggiante, era oramai diventato attentissimo ad ogni minima vibrazione e ciò gli bastava.
Passavano il tempo senza parlare troppo, a volte basta la presenza per capirsi.
Ad un tratto, senza alcun preavviso, Andrea mosse il polso in maniera decisa ma non strattonata ed accompagnò il movimento alzandosi in piedi. In quel momento Andrea aveva in mano la canna che era piegata in un’ampia curva e la teneva con padronanza, salda, e seguendo il pesce con piccoli movimenti a destra e a sinistra.Teneva la lenza sempre in tensione, ma senza strapparla e questa, invisibile, univa il vecchio, che apparteneva alla terra, dalla curva del bambù fino in acqua dove, forte ed elegante, un muggine lottava per la sua libertà.
Portò il pesce fin sotto, ed infine con maestria lo tirò fuori dall’acqua, e lo posò sul molo.
Appena la tensione della lenza venne meno il pesce si slamò: guizzava per terra, senza più alcuna bellezza, alla ricerca disperata dell’acqua.
Allora Luca vide Andrea davvero cieco, senza più sguardo, fisso davanti a sé.
Si chinò, bagnò le mani sul pelo dell’acqua, prese il muggine e lo buttò in acqua.
Clock.
Un rumore secco, armonioso.
Il pesce con un solo movimento rapido ed elegante guizzò via.
Andrea, noncurante della sua cecità, aveva compiuto tutto come se fosse stato
un rito del gesto e Luca l’aveva finalmente percepito nell’attimo del suo svolgersi.
Si sedette nuovamente, Andrea sorrise a Luca e cominciò a smontare la canna da pesca, poi si volse verso di lui e gli disse:
“Domani mi porti al bastione, a sentire i gabbiani …”
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