Ho ripreso dalla libreria un vecchio libro. Un’ antica conoscenza. Avevo cominciato a leggere questo libro qualche decennio fa, ma lo avevo abbandonato quasi subito.
Dopo aver letto “La grande giostra”, dello stesso autore, questo mi era sembrato scialbo, indefinibile, quasi incomprensibile. Inoltre, la guerra di cui vi si narrava era ambientata in Algeria, un paese di cui avevo appena sentito parlare, i nomi dei luoghi e delle città erano troppo strani, il “nemico” non aveva una connotazione inconfondibile come “i tedeschi” o “i giapponesi”. I nemici, qui, erano “i Fellagha”, insorti o ribelli che dovevano essere scovati e poi attaccati con modalità sconosciute. Niente di paragonabile alle tipiche operazioni militari così consolidate durante la Seconda Guerra Mondiale.
Clostermann era un veterano delle F.A.F.L. ovvero le Forze Aeree Francesi Libere, che combattevano a fianco dei piloti della R.A.F (Royal Air Force britannica) e delle Forze Aeree Americane di stanza in Inghilterra. Volava inizialmente con uno Spitfire, mitico caccia inglese che tante vittorie aveva conquistato nei cieli europei e non solo. Poi aveva volato sul Typhoon e infine sul Tempest, uno dei più micidiali aerei della Seconda Guerra Mondiale, sia per potenza del motore che per potenza di fuoco.
In Algeria l’autore si ritrova a volare su un aereo sconosciuto, piccolo, di scarsa potenza, lento, quasi un aereo da turismo. Una delusione anche il nome: Broussard. Mai sentito prima. Era anche piuttosto bruttino nella forma.
E che cosa faceva con questo aeroplanetto? Volava raso terra per vedere con i propri occhi gli insorti e riconoscerli dai comuni civili, per poi segnalarli ai caccia a reazione che volavano in alto, affinché scendessero ad attaccarli. Lui si doveva occupare di sganciare una bombetta fumogena per segnalare la posizione dei ribelli. Intanto, però, questi “Fellagha”, che stavano ben nascosti, sparavano a lui mentre li sorvolava.
Dalle stelle alle stalle. Che brutta fine aveva fatto! Lui che aveva abbattuto decine di aerei e distrutto treni, navi, ponti, mitragliato aeroporti, truppe, carri armati etc.!
Ma perché un asso come lui si ritrovava in quella parte di mondo a svolgere un lavoro tanto pericoloso e di così basso profilo?
La risposta è lui stesso a darcela nelle prime pagine del libro. In estrema sintesi, dopo la fine della guerra, dopo aver corso mille pericoli in azione, non poteva smettere subito, di colpo, per tornare ad una vita normale. Così si era cercato e trovato un altro teatro di guerra. La Francia aveva le colonie, dove i fermenti per conquistare l’indipendenza andavano sedati. Dove si combatteva per questo. Molti veterani, nel mondo, si erano cercati un’altra guerra. Ne avevano bisogno perché non potevano smettere di colpo, per motivi psicologici e anche fisici. Avevano forse un estremo bisogno di quelle scariche di adrenalina che erano diventate la loro droga. Una sorta di dipendenza che aveva portato tanti americani ad andare a combattere in Corea, o in Israele, o in Africa.
Clostermann, francese, era andato in Algeria. E lì aveva incontrato altri francesi, anche piloti, che avevano combattuto con lui in Europa.
Il libro non è scritto in prima persona. Ha preferito raccontare le avventure di guerra aerea attraverso un altro personaggio: Dorval. Chi è Dorval? E’ un pilota, ex combattente con le FAFL durante la Seconda Guerra Mondiale etc. etc.
Dice Clostermann:
“[…] non si tratta di un’autobiografia né di un’opera letteraria di fantasia. Sotto forma di racconto storico, è piuttosto un reportage fotografico nel quale le parole tentano di sostituirsi alla pellicola. I principali episodi delle missioni ivi narrati sono autentici e io li ho vissuti. I paesaggi li ho sorvolati e i personaggi, per immaginari che siano, li ho veramente conosciuti: ho incontrato in Algeria diversi Dorval, che pensavano ed agivano come lui […]”.
I francesi leggerebbero un libro come questo con un altro spirito e probabilmente, alla fine, direbbero che è loro molto piaciuto. Noi italiani non sappiamo un granché dell’Algeria e delle sue guerre interne. A noi queste avventure sembrano strane, aliene, perfino incomprensibili. Ma devo dire che, alla fine, dopo aver terminato la lettura, ho scoperto un altro mondo, ampliato la mia conoscenza, scoperto un altro pezzo di storia.
Il libro si trova sulle bancarelle, ma è piuttosto comune. Ancora meglio si può acquistare su Internet.
Queste vecchie edizioni della Longanesi, che risalgono agli anni settanta, sono volumi usati e riusati. E’ bene non attendersi copertine pulite e senza segni di usura. Spesso anche le pagine interne sono ingiallite e le rilegature possono presentare segni di cedimento dovuti al peso del tempo e delle riletture. Ma tutto ciò costituisce semmai un valore aggiunto e nulla toglie alla qualità del contenuto.
Consiglio di comprarlo e di leggerlo. Dopo potrà prendere il suo posto nella libreria in attesa di essere riletto, prima o poi. E anche quegli strani nomi, quelle località, quelle città, pian piano durante la lettura, diventano meno aliene, anzi, quasi familiari. Nella nostra era, volendo, possiamo sempre aprire Google Maps o meglio Earth e andarle a cercare, per vederle a volo di uccello come le ha viste Clostermann, senza neanche il timore che ci sparino addosso.
titolo:Ali di travertino – Un cacciabombardiere allo Stato Maggiore
autore:Bruno Servadei
editore: SBC edizioni
collana: I luoghi & i giorni
anno di pubblicazione: febbraio 2012
ISBN:978-88-6347-254-7
A Roma, a ridosso della zona universitaria e della centralissima Stazione Termini, ha sede lo Stato Maggiore dell’Aeronautica (per brevità SMA).
L’edificio che lo ospita, realizzato durante l’epoca fascista, è talmente monumentale che non può non essere notato. Anche il passante più distratto o il turista interessato alle antiche vestigia romane piuttosto che all’architettura moderna, non può non notare l’enormità e la particolarità di quel palazzo: una gigantesca aquila con le lunghe ali adorna il tetto della facciata principale come a proteggere coloro che si trovano sotto di essa.
Come buona parte dei rivestimenti esterni dell’edificio, la colorazione bianco-grigiastra dell’animale lascia supporre che sia realizzato in travertino.
Che siano dunque queste le ali di cui parla Bruno Servadei nel suo libro intitolato appunto: “Ali di travertino – Un cacciabombardiere allo stato maggiore”? … ebbene sì, in parte … anche, ma non solo. Sveliamo dunque l’enigma.
La carriera di un pilota militare, salvo imprevisti, è quasi predeterminata sin dalle selezioni di accesso all’Accademia Aeronautica e, dopo aver svolto il servizio presso un reparto di volo ed essere transitati per la Scuola di Guerra Aerea di Firenze, prevede di approdare appunto allo SMA.
Anche Bruno Servadei, ha svolto questo percorso. Così, se nel suo primo libro: “Vita da cacciabombardiere” egli racconta le sue esperienze di pilota militare vissute durante la prima parte della sua carriera, era pressoché inevitabile, considerato il buon successo di critica e di lettori, che anche la seconda parte della sua vita professionale ci fosse svelata in forma più o meno narrativa. Tuttavia, se ci aspettiamo un volume monotono o un elenco asettico delle attività praticate all’interno del palazzone romano, rischiamo di cadere in un terribile errore.
Il racconto di Servadei invece, mette in luce una realtà sconosciuta al generico cittadino, al cosiddetto “uomo della strada” giacché gli svela una sorta di cronaca di “vita ignorata” all’interno del complesso monumentale.
In effetti lo SMA è quello che chiameremmo “la stanza dei bottoni” dell’Aeronautica Militare Italiana e le variegate attività che una parte del personale militare svolge al suo interno, sono spesso frenetiche. O perlomeno lo sono state quelle dell’autore.
Egli, nei tre anni di prevista permanenza, ha avuto modo di approfondire alcuni aspetti, ha svolto incarichi e instaurato contatti a tutti i livelli così intensi e frequenti da doversi portare il lavoro a casa e non avere il tempo di occuparsi dei problemi che aveva vissuto in prima persona durante il suo servizio come caccia-bombardiere. Problemi che – ce lo confida non senza malcelata amarezza – si era ripromesso di sanare una volto giunto proprio allo SMA.
Purtroppo ne esce fuori la descrizione di un luogo che è lo specchio, se vogliamo ancor più negativo, di una nazione – la nostra -, minata dal clientelismo, l’affarismo, e l’interesse personale. Per non parlare di una burocrazia ottusa e inutile.
Benché frequentato da molte persone di valore animate da sani principi morali, ecco che, a seguito dei vari episodi svelatici da Servadei, scopriamo uno SMA quale ricettacolo di cialtroni, di profittatori, di arrivisti ormai dimentichi del significato della divisa che indossano, di affaristi che si piegano alle proposte allettanti dell’industria bellica (aeronautica in particolare) invece di porle i requisiti stringenti cui ottemperare per conseguire commesse e forniture varie.
Insomma, al termine della lettura di questo libro, verrà spontaneo domandarsi come l’Aeronautica Militare che, istituzionalmente, “dovrebbe” difendere i cieli patri, possa farlo davvero con i mezzi (volanti e non) e soprattutto le risorse umane che ha sua disposizione. Questo in prima battuta … l’istante successivo sarà invece un moto di stupore misto a disgusto a salirvi dal profondo dell’animo perché la lettura di alcune vicende al limite del grottesco – non c’è che dire – vissute in prima persona dall’autore e non riportate “per sentito dire”, vi faranno apparire Bruno Servadei quale un testimone oculare impotente ma equo come solo potrebbe essere il famoso “uomo delle strada” il cui buon senso e non già una lunga e profonda preparazione tecnica – come nel caso dell’autore -, gli farà letteralmente urlare a pieni polmoni: scandaloso!
Ad ogni modo, è risaputo che noi abitanti del suolo italico riusciamo a intravvedere il sereno pure attraverso il cielo più cupo … cosicché, anche il nostro ex ufficiale, non venendo meno a questa proverbiale dote, dopo aver dipinto lo sfacelo e il malaffare più torbido, alla fine vi strapperà un sorriso riportando quella battuta ricorrente che i suoi colleghi gli rivolgono stupiti negli uffici e nei corridoi dello SMA: “Mica vorrai fare la guerra sul serio?”
Maurizio de Rinaldis, autore della prefazione, tenta di fornirci una sua personale chiave di lettura a questo libro e, nel tentativo di stemperare i contenuti delle pagine a seguire, dichiara:
“[…] Ali di travertino non è una critica, non esprime il pensiero di chi non condivide alcune scelte indotte da una politica di difesa troppo condizionata da quella industriale, non vuole essere una macchia di inchiostro caduta da una penna difettosa o peggio ancora un evidenziatore giallo di problemi o malfunzionamenti di un sistema. Questo è il libro del vecchio saggio guerriero che ha speso gran parte della vita combattendo sui campi di battaglia. Combattendo dapprima in situazioni operative con vere bombe e cannoni ed un po’ più tardi con appunti e riunioni. Il tutto con un solo fine: quello di onorare, proteggere e migliorare l’Aeronautica Militare e la propria Patria.[…]”
Onestamente, a noi, questo libro è apparso ben di più: un libro di denuncia a tutti gli effetti. Uno di quelli che, se fosse stato pubblicato negli Stati Uniti, avrebbe sicuramente provocato un terremoto nelle stanze del palazzo e – non stenteremmo a crederlo – finanche l’eliminazione fisica dell’autore.
E in Italia? Figuriamoci! … in Italia, sorniona e indifferente a tutto e a tutti, al contrario, questo volume costituisce un titolo di genere; ad oggi, può essere considerato come il classico testo scritto da un militare rinnegato da dare in pasto ai pacifisti inveterati o agli anarchici, insomma a quei simpatizzanti che sono contro le istituzioni dello stato, specie se militari. Qualcuno potrebbe interpretarlo addirittura come un resoconto velenoso di un ex Aeronautica Militare che, ormai in pensione, si è voluto togliere qualche sassolino dalla scarpa. Che, per inciso, a nostro parere, poi tanto “ino” non è.
Per questo motivo non ci siamo stupiti affatto quando, cercando delle spigolature in rete, ci siamo imbattuti in alcune interviste dell’ex gen Servadei interpellato ad arte a proposito del tanto “chiacchierato” programma di acquisto degli F35.
Ebbene il professionista ha risposto da par suo spiazzando completamente chi si aspettava una risposta scontata … ma questa è un’altra vicenda che esula dal libro in oggetto.
Di sicuro dobbiamo riconoscere al sanguigno Servadei di aver avuto il coraggio di scrivere un libro verità e dunque di aver reso noto un malcostume manifesto eppure tollerato in un ambiente dove, per antonomasia, dovrebbe vigere sovrano il rigore e la lealtà. Perché il malcostume deve essere condannato e non già la schiettezza di un ufficiale che, suo malgrado, non è riuscito a cambiare il sistema agendo dal suo interno.
Tornando al libro, anche lo stesso autore, consapevole della bontà ma anche dei limiti del suo volume, nella postfazione dichiara che:
“[…] di certo queste pagine non potranno attirare l’attenzione degli appassionati di volo come le precedenti”
intendendo quelle del suo primo libro “Vita da cacciabombardiere”. Poi, riferendosi sempre a questa sua ultima fatica letteraria e lasciandosi ad una riflessione amara, ammette che:
“[…] è la visione un po’ delusa e amareggiata di un giovane tenete colonnello, pieno di belle speranze e la voglia di risolvere i problemi rilevati al reparto […]”.
Infine conclude con un messaggio dal quale traspare tutta l’italica fiducia in un futuro migliore:
“[…] Mi fa piacere sperare che chi mi ha sostituito nelle mansioni che ho svolto nello SMA alla fine degli anni ’70 oggi possa godere di maggiore credito di quello che mi è stato riservato […]”
E a quest’augurio ci uniamo compatti in qualità di semplici cittadini contribuenti, di appassionati di aviazione e di ammiratori silenziosi del personale tutto dell’Arma Azzurra, soprattutto dei piloti.
Dal punto di vista della lettura, sotto gli occhi di un generico lettore, il testo scivola che è un piacere, fatto salvo per alcuni rari passaggi ove la prosa si fa un po’ meno scorrevole del solito, tuttavia ci teniamo a precisare che non si tratta di un libro riservato ai tecnici del settore, semmai ad appassionati di volo o di aviazione e, non ultimi, a coloro che osteggiano le Forze Armate, altrimenti chiamati “pacifisti”…
La veste grafica è curata e assai gradite sono le foto che, a mo’ di piccoli francobolli, adornano qua e là il testo. Esse consentono al lettore meno navigato in questioni aeronautiche di vedere il velivolo oggetto o citato nel corso della narrazione.
A piè di pagina, forse sarebbero risultate utili delle note esplicative di alcuni termini tecnici ma l’autore, senza farcene rendere conto, ce ne spiega già il significato nel corso della narrazione e dunque risultano quasi superflue.
Azzeccata la copertina e assolutamente esplicativa la retrocopertina; strepitoso il titolo; forse un po’ lenta la prefazione nella sua parte iniziale, decisamente necessaria la postfazione.
Un libro da leggere e rileggere, da tenere in libreria e prestare agli amici in attesa di affiancargli gli altri volumi che, nel frattempo, ci ha regalato Bruno Servadei.
In verità, proprio perché – nonostante tutto – abbiamo letto con piacere questo libro e dunque abbiamo apprezzato lo scrivere leggero sebbene tecnico dell’ex generale, non possiamo fare a meno di augurargli di aumentare la propria autonomia (di volo, s’intende) e di superare i confini del genere letterario in cui – fino ad ora – ha “volato”, quello dell’autobiografia, appunto.
Per esempio saremmo davvero lieti di apprendere che, finalmente impostata senza indugio alcuno una virata stretta in direzione del cielo sconfinato della narrativa aeronautica, il l’ex generale abbia finalmente intrapreso il sorvolo di un terreno per lui inesplorato in cui esperienze vissute, una buona dose di fantasia e un talento verace trovano la coniugazione perfetta: il romanzo a carattere aeronautico.
Buon vento, generale, e a presto rileggerci.
Recensione a cura della Redazione
NOTA della Redazione:
dello stesso autore è presente in hangar il racconto: “Coppia” che ha partecipato alla I edizione del Premio letterario “Racconti tra le nuvole” .
collana: Edizioni tascabili / I libri pocket (nr 8)
anno di pubblicazione: 1965
ISBN:non presente
“[…] and in the narrow cockpit I wept, as I shall never weep again, when I felt the concrete brush agains his wheels and, with a great sweep of the wrist, dropped him on the ground like a cut flower […]”
“[…] Ed ho pianto, nella stretta cabina, come non piangerò più in vita mia, quando ho sentito il cemento della piasta sfiorare le sue ruote e con una pressione della mano l’ho costretto al suolo come un fiore reciso […]“.
Ho deciso di cominciare questa recensione con alcune delle ultime parole del libro di Clostermann, versione inglese, perché … per tanti motivi. Ma uno fra tutti, perché sono la naturale chiusura di un capitolo della vita di una persona, un pilota da caccia, che ha vissuto avvenimenti talmente intensi e concentrati in un periodo relativamente troppo breve per essere realmente assimilati o perfino compresi, da rimanere impressi nella memoria di chi ne è stato protagonista e di chi oggi li legge soltanto, per sempre.
Clostermann ha scritto questo libro riferendosi alle sue registrazioni giornaliere che aveva conservato per suo padre e sua madre. Si era impegnato fermamente ad annotare su un quaderno tutti i fatti importanti della sua vita di pilota da caccia. Alla fine i quaderni erano diventati tre. Pensava che, se non fosse arrivato vivo al termine del conflitto, quei diari avrebbero comunque permesso ai suoi genitori di conoscere come era stata la vita del loro figlio fino all’ultimo giorno. Ma non fu necessario. Poté raccontare lui stesso tutto quanto. Allora decise di scrivere un libro, per condividere con tutti la sua guerra.
“Le Grande Circle”, questo era il titolo originale in francese, è stato scritto nel 1948, quando la guerra era da poco terminata. Pierre Henry Clostermann era nato a Curitiba, Brasile, il 28 febbraio 1921, ed è morto a Montesquieu-des-Albères, un paesino sui Pirenei, il 22 marzo 2006.
Era figlio di un diplomatico francese. Studiò dapprima a Parigi, ma poi proseguì gli studi negli Stati Uniti, dove si laureò in Ingegneria. A diciassette anni aveva già conseguito il brevetto di pilota di aeroplano.
Nel 1942 rispose all’appello del generale Charles de Gaulle arruolandosi nelle Forces aériennes françaises libres, la componente aerea della Francia libera.
Il libro comincia con il suo arrivo in Inghilterra, dove frequenta la scuola caccia e vola sul famoso Spitfire sin dall’inizio.
Chiunque abbia anche solo un minimo interesse per la storia della guerra aerea nella Seconda Guerra Mondiale non riuscirà a smettere di leggere questo libro. E lo stesso vale per chiunque abbia la passione per il volo.
Dall’inizio alla fine il libro contiene la descrizione magistrale di tutto ciò che riguarda le vicende di un pilota di guerra, compresi i fatti collaterali della vita di tutti i giorni, i criteri con i quali si effettuavano tutte le operazioni militari e non, la radiotelefonia dell’epoca, i rapporti tra i commilitoni, i trasferimenti, gli incidenti, l’esaltazione e la disperazione dovute all’alternarsi delle sorti della guerra etc.
Non c’è neanche una sola frase nella quale l’interesse venga meno un istante.
Questo libro è destinato ad essere, non solo letto, ma riletto diverse volte. E alla fine si ha l’impressione di aver vissuto la guerra insieme a Clostermann.
La descrizione dei combattimenti aerei, degli abbattimenti, degli immancabili incidenti (l’aeroplano ha ucciso più piloti di quanto abbiano fatto gli avversari), della tempesta di emozioni che travolge l’autore ogni istante, è talmente vivida che ci si trova coinvolti come se si fosse lì in quel momento.
Un pilota di oggi difficilmente riesce ad immaginare fino in fondo una simile realtà che però era quella di ogni giorno. Per questo è tanto interessante questo libro. Perché ce la racconta.
Clostermann ha volato dapprima sullo Spitfire, che era un mito già allora. Poi è passato sul Thypoon e infine sul Tempest. Tutti aerei potenti, ben armati e difficili da pilotare.
Di estremo interesse sono anche le impressioni di pilotaggio di questi famosi aerei, che oggi possiamo vedere solo sulle foto dell’epoca oppure nei musei.
Durante la lettura del libro sono incappato in un punto nel quale Clostermann descrive un combattimento aereo tra le nuvole. Arrivato all’apice di una risalita, in condizioni di visibilità marginali, si attarda un po’ troppo nella rimessa in volo normale. Il Tempest stalla ed accenna ad entrare in vite. Così Clostermann descrive il momento:
“Il Tempest risale a tremila metri veloce come un razzo e mi ritrovo, madido per la paura e l’angoscia, rovesciato sul dorso. Il motore dà una scossa violenta, poi pianta e mi arriva in faccia una pioggia di terriccio, di ferraglia, d’olio; l’apparecchio cade in vite. La vite del Tempest è la cosa più pericolosa che vi sia: un giro, due giri e si è come un cencio, sbattuti con forza contro le pareti della cabina nonostante le cinghie che tengono legato al seggiolino”.
Un aereo del genere non dovrebbe entrare in vite accidentale per tanti motivi. Il lettore troverà tutte queste informazioni durante la lettura. Ma un aereo che arriva a sfiorare velocità soniche, dell’ordine dei milleduecento chilometri orari, pesante e con inerzie notevoli, se entra in vite non esce certo dopo mezzo giro e neanche dopo un giro. Se questo avviene a quota troppo bassa è finita.
Personalmente, ma su mezzi moderni, ho eseguito la vite intenzionale con parecchi aerei e alianti e so cosa significa.
Mentre Clostermann descriveva il momento in cui il suo Tempest stallava e cominciava ad avvitarsi ho provato una specie di capogiro, come se avessi già vissuto quel momento, esattamente nello stesso modo, ma in una vita precedente.
Non credo a queste suggestioni, ne ho solo sentite parlare, ma è ciò che ho provato. Probabilmente, sulla mia reazione hanno influito sia l’esperienza personale che la capacità descrittiva dell’autore, insieme alla tragicità di quegli eventi.
Un altro punto interessantissimo del libro riguarda il racconto della morte di un pilota tedesco, quindi un avversario, ma ben conosciuto dagli alleati per il suo indiscutibile valore, onorato anche al di qua delle linee. Si tratta di Walter Novotny del quale, chi vuole, può cercare informazioni su Internet.
Le notizie sulla morte di questo asso sono un po’ contrastanti. Di sicuro si sa che pilotava un bireattore di modernissima concezione che aveva fatto la sua comparsa nei cieli di Normandia in quel periodo finale della guerra. Si tratta del Messerschmitt Me 262. Era talmente veloce che riusciva a colpire e ad allontanarsi sottraendosi così alla caccia avversaria. Gli alleati potevano riuscire a prenderlo soltanto quando rallentava per atterrare. E infatti ne avevano abbattuti alcuni in questo modo. Ma i tedeschi avevano predisposto le loro difese. Avevano piazzato file di affusti di cannone di contraerea lungo il sentiero di avvicinamento all’aeroporto, su entrambi i lati. Un corridoio di fuoco nel quale il Me 262 entrava e rallentava in relativa sicurezza, mentre l’inseguitore doveva rimanere lontano per non essere colpito.
Novotny aveva abbattuto più di una sessantina di aerei nemici. Era veramente un valoroso.
Scrive Clostermann:
“Stasera il suo nome ricorre spesso nelle conversazioni alla mensa. Ne parliamo senza rancore e senza odio… Oggi è una rivincita per noi, salutare un nemico appena morto, proclamare che Novotny ci appartiene, ch’egli fa parte del nostro mondo nel quale non ammettiamo né ideologie, né odi, né frontiere.”
Un pilota del gruppo, poco dopo, dirà:
“Il primo che ha osato dipingere una coccarda sull’ala di un velivolo era un porco”.
Dicevo che le notizie sulla morte di Novotny sono incerte. Esistono testimonianze contrastanti e sarebbe davvero interessante sapere la verità.
Clostermann scrive sul suo libro:
“Il quindici marzo scorso, io conducevo una sezione di quattro Tempest in una caccia al topo su Rheine-Hopsten, a duemila e cinquecento metri di quota. Improvvisamente vedemmo apparire a volo radente un Messerschitt 262 senza mimetizzazione, con le ali lucide, brillanti al sole. Era già nel corridoio della contraerea e si apprestava ad atterrare. Lo sbarramento di traccianti si alzava per proteggere il suo avvicinamento. Io avevo deciso, conformandomi alle nuove disposizioni, di non attaccare in quelle condizioni, allorché senza preavvertirmi, il numero quattro della mia pattuglia si lanciò in candela verso il piccolo punto lucente che si avvicinava alla lunga pista in cemento. Bob Clark, lanciato come un bolide, attraversò per miracolo, senza essere colpito, il baluardo di fuoco e sparò una lunga raffica sull’Me 262 argenteo che era nella fase finale del suo atterraggio. Il Me 262 si fracassò in fiamme proprio al limite del campo”.
La notizia che quel Me 262 era di Novotny arrivò dopo due settimane. Un tempo sufficiente a deformarla e renderla imprecisa, specie in giorni tanto difficili.
Dopo che per anni la guerra aveva causato tanta distruzione e innumerevoli vittime, dopo tanti combattimenti aerei molto cruenti, mitragliamenti di aeroporti, treni, truppe, paesi, Clostermann era stanchissimo, come tutti i piloti della sua squadriglia. Il medico della base lo voleva mettere a terra, ma c’era bisogno di tutti e ognuno doveva continuare a volare, aiutato da dosi sempre maggiori di farmaci. I piloti cadevano come mosche, di giorno e di notte, in una palla di fuoco, in cielo come a terra.
Lo sforzo finale della guerra è descritto da Clostermann in una maniera inedita e altamente espressiva. Sono gli ultimi giorni, i peggiori, ma la vittoria arriva inesorabile e improvvisa.
Dice Clostermann:
“Poi venne l’armistizio e fu come una porta che si chiudesse”.
E inevitabilmente, tutto quel volare non è più necessario. Gli aerei, come i piloti, sono a pezzi. Viene il momento di consegnare le armi, che nel caso di un pilota, significa consegnare l’aereo. E qui, Clostermann scrive qualcosa che, a parer mio, è pura poesia. Parla del suo aereo come se fosse un compagno di avventure umano, vivente. Perché tale è, dopo aver combattuto con lui per tante ore, giorni, anni.
“[…] E nel ritorno sono salito con lui molto alto nel cielo d’estate senza nubi, perché solo là potevo dirgli addio. Per l’ultima volta, insieme io e lui, abbiamo puntato dritto incontro al sole. Abbiamo fatto un looping, forse due, alcuni tonneaux molto lenti, accurati, amorevoli, per poter portare via nelle mie dita la vibrazione delle sue ali obbedienti e agili. Ed ho pianto, nella stretta cabina, come non piangerò più in vita mia, quando ho sentito il cemento della pista sfiorare le sue ruote e con una pressione della mano l’ho costretto al suolo come un fiore reciso …
E quando i piloti e i meccanici che mi attendevano mi hanno visto con la testa bassa e le spalle scosse dai singhiozzi, hanno compreso e si sono avviati in silenzio verso il dispersal […]”.
Non è difficile trovare “La Grande Giostra” nei mercatini o su Internet. Compratelo subito, se vi capita. Leggetelo, questo libro. E dopo che lo avrete letto lo collocherete in un posto comodo della vostra libreria, dove lo potrete riprendere con facilità, per leggerlo ancora.
Recensione a cura di Evandro A. Detti
Nota della Redazione
Nel 2014, per iniziativa della casa editrice Odoya, il libro di Pierre Clostermann è stato ripubblicato. In basso le coordinate editoriali:
Titolo: La grande giostra. Nei cieli della seconda guerra mondialeTraduttore: Santarone P.Editore: OdoyaCollana: Odoya libraryData di Pubblicazione: Aprile 2014ISBN: 8862882335ISBN-13: 9788862882330Pagine: 284Formato: brossura
Ero entrato in una libreria di Orbetello, in provincia di Grosseto. Di solito vado in quella libreria a vedere se è uscito qualche nuovo libro sulle trasvolate atlantiche che proprio da Orbetello sono partite. Ogni tanto trovo qualche novità e ne aspettavo una anche in quei giorni. Ormai i gestori mi conoscono e mi tengono informato su eventuali nuove edizioni.
Uno degli addetti alla vendita mi stava parlando con notevole entusiasmo di un piccolo libro che aveva letto tempo prima e che gli era piaciuto moltissimo, ma non riusciva a ricordarsi il nome dell’autore. Ricordava invece il titolo perché era semplicissimo: “La virata”.
Con l’aiuto del computer si mise a cercare nel loro database, ma non lo trovò. Deluso, continuò a parlarmi di questo semplice libro tanto piacevole e interessante. Alla fine mi disse che il libro costava pochissimo e valeva veramente molto e che, se lo avessi voluto leggere, me lo avrebbe ordinato per quando fossi ripassato da lì. Naturalmente accettai.
Nella visita successiva, appena entrato, ecco arrivare l’addetto con in mano il librettino. Mi dice, tutto soddisfatto, che sarei stato felice di leggerlo. Infatti, ora che l’ho letto, sono anche più entusiasta di lui.
Il libro è piccolo davvero, costa 5,50 euro e conta in tutto una settantina di pagine. Ma sono pagine di vera delizia.
Ho letto tanti libri sull’argomento aviatorio: storia aeronautica, racconti di volo di guerra e di pace, biografie di piloti e non, manuali vari. Perfino libri di filosofia aeronautica. Ma questo è stato una sorpresa davvero.
In verità, non parla solo della virata in senso stretto, ma affronta e sviscera aspetti particolari della virata, con un gran numero di riferimenti storici, medici e tecnici. Qualunque pilota, per esperto che sia, pur sapendo di cosa l’autore sta parlando, rimarrà inevitabilmente sorpreso.
Il nome di questo autore, William Langwiesche, non mi diceva assolutamente nulla, all’inizio. Ma poi, verso la fine della lettura, dalle pagine scritte ha cominciato a venir fuori un vago ricordo di qualcosa che già avevo letto altrove …
Il padre di William aveva scritto un libro intitolato “Stick and rudder”. E questo titolo evocherà lo stesso vago ricordo anche a parecchi altri piloti.
Sembra impensabile di poter scrivere tanto su una sola manovra come la virata. Oltretutto senza neanche affrontare direttamente la spiegazione di come si esegua questa manovra. Senza formule matematiche o di fisica.
Nessuno si aspetta l’esistenza di così tante implicazioni che della virata fanno parte. E che sono passate attraverso la storia di oltre un secolo, senza che ce ne accorgessimo, sebbene in questi decenni, tutti noi piloti abbiamo effettuato innumerevoli virate, in tutte le condizioni possibili.
Occorre dirlo chiaramente: in Italia, l’aviazione generale, sportiva e non, annovera una sparuta schiera di praticanti e/o sostenitori … figuriamoci il settore della letteratura aeronautica. Dunque come catalizzare l’attenzione dei potenziali autori e, soprattutto, di lettori acquirenti di volumi? … ma certo! … un concorso letterario.
Deve essere stata questa la lungimirante intuizione che ha indotto Valeria Napoleone nel voler organizzare nel 2009, sotto la bandiera della casa editrice di famiglia, l’IBN (Istituto Bibliografico Napoleone), la I edizione del concorso letterario Penna alata.
Ebbene, il volumetto oggetto della presente recensione contiene appunto i vincitori di quel lodevole concorso.
Valeria Napoleone, curatrice anche del volume, nella prefazione al libro confessa che:
“L’idea del concorso “Penna alata” è nata così per caso, in libreria, la nostra Aviolibri, divenuta un ritrovo di appassionati” e aggiunge: “[…] A questo punto, ho sentito quasi il dovere di trasformare questo salotto virtuale in qualcosa di cartaceo […]”.
Beh – replichiamo noi – l’intento è stato ampiamente raggiunto giacché i testi contenuti nel volume non lasciano adito a dubbi circa l’aspetto qualitativo nonché meritocratico. In “Bomba a bordo e altri racconti …” troverete 11 modi diversi di fare narrativa aeronautica, 11 storie diversissime per stile, ritmo e inventiva, oltre che per contenuti. Semmai l’unico obiettivo che non è stato centrato sono le dimensioni di questo libricino fin troppo “ino”. Possibile che non ci fossero altri testi degni di essere premiati e dunque pubblicati? Possibile che l’editore potesse concedersi un investimento economico pari a solo 106 pagine? E sia! … d’accordo, meglio di niente. Per stavolta la perdoniamo, anche in virtù delle belle foto presenti a commento dei testi che ritraggono i soggetti protagonisti dei testi medesimi.
Sempre nella prefazione, la visionaria Valeria Napoleone dichiara: “[…] tra i molti partecipanti, sia autori noti che alle prime armi, sono stati selezionati dalla Giuria quei racconti che, per vari motivi, sono sembrati più significativi” […].
Premesso che non ci è dato sapere da chi fosse composta la Giuria, né quali siano stati i nomi/testi dei molti partecipanti, certo è che, scorrendo i nomi degli autori premiati, non stupisce la presenza di penne alate assai note come quella di:
– Evandro Detti (autore di “Zingari del cielo” e del tuttora validissimo “Manuale di pilotaggio dell’aliante veleggiatore”),
o di:
– Gian Piero Milanetti (che ha firmato l’ottimo volume “Le Streghe della Notte”, dedicato alle vicende storiche delle aviatrici russe),
oppure di:
– Nicola Malizia (prolifico scrittore di monografie e di volumi dal notevolissimo valore storico),
e ancora del poliedrico:
– Michele Raffaele Gagliani (autore di innumerevoli pubblicazioni a carattere aeronautico) fino a giungere a quella di:
– Eugenio Vecchione (impagabile divulgatore delle sicurezza del volo e del fattore umano in aviazione).
A conferma della totale bontà dell’idea alla base del concorso, invece, viene da chiedersi se un autore perfettamente sconosciuto, tale Marco Forcina, avrebbe mai goduto dell’opportunità, al di fuori del concorso letterario Penna alata, di partecipare, vincere e vedersi pubblicati, ben tre racconti. Siamo di fronte ad un nuovo exploit letterario? Finalmente un nuovo virgulto della narrativa italiana si è svelato a noi? … vedremo!
Completano lo stormo degli autori: Marco Zuccadelli, pilota in erba a soli 17 anni (ma che poi le vicissitudini della vita hanno allontanato dall’aviazione) e l’unica gentildonna, Agnese Roda che scrive per diletto poesie e racconti (molto più vicina al mondo della musica e dell’arte in generale che all’aviazione).
Elencati gli autori non ci resta che passare in esame i racconti.
Ebbene il primo racconto è quello dal quale ha preso il titolo l’intera raccolta “Bomba a bordo”, proprio di quel Marco Forcina di cui sopra. La scelta è stata assai felice – aggiungiamo noi – perché si tratta di un racconto leggero, piacevole quasi confidenziale. Fin dall’inizio si avverte un alone sottilmente ironico che poi deflagra in un finale a sorpresa strappa sorriso – fenomeno assai raro per un racconto di aviazione -.
L’antefatto vede il comandante di un aereo di linea della compagnia di bandiera italiana che è intento nei controlli pre-volo sul piazzale dell’aeroporto di Amburgo. La collocazione temporale non è meglio definita ma, a naso, siamo all’incirca intorno alla fine degli anni ’70.
La noia della routine pervade la cabina pilotaggio finché il secondo pilota irrompe dichiarando che c’è un emergenza: una bomba a bordo!
Ovviamente non vi sveleremo il prosieguo della vicenda … possiamo solo aggiungere che il pragmatico pilota, più che altro preoccupato di aver speso inutilmente del tempo a recitare l’odiosa check list, disinnescherà la “bomba non bomba” mostrando quel genuino disincanto e pragmatismo tipico di noi italiani.
Per inciso, secondo la nota in calce al racconto, pare che si sia trattato di un episodio realmente accaduto. Mah … ci crediamo sulla fiducia.
Il secondo racconto, sempre a firma di Marco Forcina, ha per titolo: “Lasciami lassù” e, al contrario del primo, vi procurerà un senso di tristezza e, ai più sensibili, addirittura un moto di pianto – e non stiamo esagerando: a noi è accaduto -.
Il testo prende spunto da un episodio realmente verificatosi, in quanto documentato dal diretto protagonista, Charles Lindbergh (il primo trasvolatore oceanico in solitaria), nel suo libro autobiografico “We”, pubblicato nel 1928.
Attorno ad un semplice flash di Lindergh, l’autore ha creato una vicenda verosimile che vede quali protagonisti un’anziana balia asciutta di colore e il futuro trasvolatore. Al termine di una delle sue esibizioni in una sperduta località del Mississipi, l’Aquila solitaria (questo uno dei soprannomi di Lindbergh) verrà avvicinato dalla donna, provata da anni di fatiche e di soprusi, minata nel corpo e nell’anima, beh … cosa pensate che possa aver chiesto la vegliarda al bel pilota biondo, a colui che può salire in cielo a suo piacimento tra gli angeli bianchi? … a voi svelarlo.
“Là dove volano i cetrioli” è invece una fiaba mascherata da racconto. Una fiaba che, come tutte le quelle che si rispettino, si contraddistingue per il tipico testo destinato ai bambini, apparentemente, ma che in realtà, con la dovuta chiave di lettura, è diretto invece agli adulti, specie quegli adulti – come recita la nota finale dell’autore – che rivestono incarichi istituzionali in quegli enti locali desiderosi di dotare il proprio territorio di un aeroporto, possibilmente internazionale.
Anche in questo caso non vi vogliamo svelare il contenuto della fiaba bensì la sua morale. Proprio ad assessori comunali, consiglieri provinciali, amministratori regionali e politici non meglio identificati l’autore lancia il seguente monito: meglio avere un campo di cetrioli succosi e saporiti che un aeroporto deserto e inutile alla collettività.
E non aggiungiamo altro … se non l’autore del racconto che, qualora non l’abbiate intuito, è sempre quel Marco Forcina – ancora lui – che, con la sua terza composizione, dimostra di saper scrivere di tutto e con qualsiasi formula narrativa, dai contenuti strappalacrime a quelli giocosi ma sempre sorprendendo piacevolmente il lettore per originalità mista a buoni sentimenti.
Nell’antologia del concorso “Penna alata”, Evandro Detti è presente invece con due racconti: “I simboli perduti” e un “Merlo da marciapiede”.
Nel primo, il cronografo, la spilla con l’aquiletta dorata e tanti altri simboli tipici del mondo dell’aviazione, costituiscono il pretesto per l’autore per raccontare un po’ di sé e soprattutto di quel mondo che ha frequentato, attraversato in lungo e largo e che, nel corso degli anni, è mutato anche nei suoi simboli. Alcuni sono stati ormai tralasciati, altri ne sono stati acquisiti ma ciò che risulta invariato, pur con l’avvicendarsi delle generazioni di piloti, è il piacere puro ed unico del volo. Ebbene – senza possibilità di essere smentiti – questo piacere è rimasto inalterato e traspare nell’autore che, con tono fraterno ed una prosa semplice, ce ne rende partecipi.
Questo del buon Evandro non è dunque un vero e proprio racconto quanto piuttosto un rimuginare ricordi misti a considerazioni personali amalgamati in un testo molto scorrevole e piacevole che, per taluni aspetti, ha il sapore divulgativo del saggio. Osando un paragone … il nostro Detti potrebbe essere il Piero Angela del cielo, ossia un fine divulgatore di un mondo che rimane, nonostante tutto, assai distante dalla grande massa.
E’ più o meno sulla stessa lunghezza d’onda anche il secondo racconto di Detti che, pur essendo incentrato su un personaggio animale (un merlo che vive nell’albero di fronte all’abitazione dell’autore), è un ottimo testo divulgativo circa la fauna aerea che popola e spesso condivide il cielo con i piloti. Con la differenza – e questo l’autore ben lo sottolinea – che gli uccelli si trovano nel loro habit naturale mentre noi umani siamo solo ospiti.
Molti gli spunti di riflessione che scaturiscono da questo testo che, beninteso, non deve essere considerato un trattato di ornitologia … certo non stonerebbe affatto all’interno di riviste blasonate come l’illustre National Geographic o l’italianissimo Airone. Di sicuro la sua lettura colma quelle lacune di conoscenza che minano indifferentemente l’uomo della strada quanto i piloti più navigati. E di questo siamo riconoscenti al Detti.
Il sesto raccontonell’antologia del concorso “Penna alata” è: “L’aviere” di Marco Zuccadelli e ammettiamo che Valeria Napoleone non avrebbe potuto trovargli migliore collocazione giacché si tratta di un racconto di fantasia allo stato puro.
Il pretesto narrativo è costituito dal ritrovamento in un casolare del Monferrato del diario di un certo Marco Arcuri alla fine dell’agosto 2008 e dunque la vicenda si dipana secondo la cadenza delle registrazioni quotidiane tipiche di un diario.
Chiunque viva o abbia vissuto nella pianura Padana sa bene quanto possa essere torrida l’estate e dunque non si stupirà di leggere di “sudore che esce da tutti i pori” o di “pareti che grondano sudore” oppure di “aria che frigge”. Ciò che invece vi stupirà – e non poco – sarà la visione in cui incapperà il protagonista, prologo di un’allucinazione ben più articolata quanto sorprendente dall’esito già preannunciato.
Il testo si legge tutto d’un fiato perché la prosa ha un ritmo incalzante che ben si addice alla dinamica della trama … insomma un ottimo racconto tanto che quella di Marco Zuccadelli riteniamo essere una delle “penne” più promettenti del concorso Penna alata.
E bravo Zuccadelli!
Che il mondo del volo fosse contraddistinto da persone alquanto eccentriche … beh, non avevamo dubbio alcuno ma che il racconto di Michele Gagliani ce ne fornisca la conferma, non lo avremmo mai creduto.
“Un eremita alato” ci introduce già il suo protagonista: un ex allievo dell’autore soprannominato: “Mani d’oro” che ha scelto di vivere un esistenza fatta di un camper, un aeroplano e il volo.
La “penna alata” di Gagliani – qualora fosse necessario – si conferma validissima, basata su una prosa schietta, non incline ad alcuna forma retorica e che trae dalla realtà le fonti d’ispirazione, quasi fosse un reportage giornalistico.
Un racconto fin troppo breve, purtroppo.
Ha invece il taglio tipico del racconto storico la composizione di Nicola Malizia dal titolo: “Estate 1943” e sottotitolo: “Un atto di umana pietà per un pilota tedesco”.
Sulle capacità narrative dell’autore non avevamo dubbi e questo racconto sembra far parte di un libro di storia. Rimane il dubbio se la vicenda narrata sia realmente accaduta: se lo è stata, Malizia dà prova di grande narratore e se non lo è stata … pure, giacché, oltre a dare dimostrazione di essere un sapiente narratore, egli denota una notevole dose di fantasia.
La vicenda si snoda sulle montagne del casentino, nell’estate del ’43, in pieno conflitto mondiale. Nel corso di un combattimento aereo, in condizioni di forte inferiorità numerico, un giovanissimo pilota tedesco viene abbattuto e, seppure ferito, riesce a portare a terra il suo caccia crivellato di colpi. A quel punto non esistono più colori e nazionalità, c’è solo un uomo in pericolo di vita ed ecco da qui l’atto di grande umanità compiuto dai pastori italiani, intere famiglie di sfollati che lottano per la propria sopravvivenza e che pure hanno ancora la forza di un grande gesto.
E’ ambientato più o meno nello stesso periodo ma a migliaia di chilometri di distanza, ovverosia nei desolati e grigi cieli del fronte russo, il nono racconto di questa antologia. E’ intitolato: “La steppa” e l’autore è Gian Piero Milanetti.
Di questo racconto adrenalinico è davvero difficile fare un sunto … vi diremo solamente che è la videocronaca di un duello aereo tra un Macchi MC200 Saetta italiano e uno Yakovlev Yak-1 russo. Dunque isolatevi dal resto del mondo e prendetevi tre minuti tutti per voi … perché salirete a bordo del Macchi e vivrete questa esperienza indimenticabile in cui da cacciatore diverrete cacciato e di lì fino al finale a sorpresa.
Un racconto palpitante scritto in modo magistrale in cui Milanetti dà prova di grande capacità descrittiva, oltre che di storico. Davvero splendido.
Il racconto che qualunque appassionato di storia dell’ Aviazione militare vorrebbe leggere. Un mirabile esempio di narrativa aeronautica.
Molto più pacato nello svolgimento, seppure attraversato da una sottile e crescente tensione emotiva, è invece il racconto di Eugenio Vecchione dal titolo “L’Allocchio Bacchini” che ha per protagonista, appunto, il famigerato apparato radio frutto dell’italico ingegno e che è stato il mezzo di comunicazione di un’intera generazione di piloti da diporto i quali, per alcuni versi, hanno inaugurato una nuova categoria di velivoli dell’Aviazione Generale dotata – fa quasi tenerezza a dirlo – di apparati radio VHF per le comunicazioni bordo-bordo e bordo-terra. Una vera rivoluzione.
In realtà la composizione del buon Vecchione scivola tranquilla e quasi serena perché siamo in volo, assieme all’autore, a bordo di un bel Aermacchi MB308, confidenzialmente chiamato “Macchino”, per svolgere un raid, ossia un volo di trasferimento in solitaria dall’aeroporto del’Urbe di Roma fino a quello di Napoli – Capodichino che consentirà al pilota in erba di accedere all’esame del brevetto di secondo grado .
Un racconto piacevole, cronaca di un’esperienza importante per l’autore, all’epoca all’incirca diciottenne.
Ultimo, ma solo in ordine di impaginazione, il racconto di Agnese Roda intitolato: “Baracca”.
Un racconto blandamente aeronautico che vuol essere più che altro un’occasione di riflessione partendo da elementi legati al mondo aeronautico come il cavallino rampante, Lugo di Romagna e lo stesso “Asso degli Assi”.
Tutto nasce dall’incontro infantile con la statua di Baracca appunto, che adorna la piazza principale della cittadina di Lugo di Romagna e da qui partono le diversioni verso argomentazioni che, apparentemente, nulla hanno di aeronautico e che invece hanno contenuti autobiografici.
Un racconto breve, talvolta criptico, se vogliamo psicologico.
In definitiva si tratta di un’antologia che copre diversi gusti e generi dell’ambito narrativo e dunque lascia ben sperare in una II edizione cui – ci auguriamo – ai cinque autori della scuderia IBN – in quanto abitualmente editi da quell’editore -, vadano ad aggiungersene molti altri ugualmente talentuosi. Ciò affinché venga scongiurato il rischio che la prossima edizione del concorso rimanga pressoché “in famiglia” o quasi.