titolo: Return to Earth – [Ritorno alla Terra]
autore: Buzz Aldrin e Wayne Warga
editore: Random House (1973, prima edizione), Open Road Media (2015, edizione digitale)
ISBN: non disponibile
“When I began this book I had two intensions. I wanted it to be as honest as possible and to present the reality of my life and carreer not as mere fact but as I perceived the truth to be. The second and more important intention was that I wanted to stand up and be counted”.
[Quando ho cominciato a scrivere questo libro avevo due intenzioni. Volevo essere il più onesto possibile e presentare la realtà della mia vita e della mia carriera non come neri fatti ma come percepivo fosse la realtà. La seconda e più importante intenzione era che volevo stare in piedi ed essere contato].
Due propositi che Aldrin ha dichiarato all’interno del suo libro e che ha puntualmente mantenuto, in maniera chiara e particolareggiata.
Sto per parlare di un’opera estremamente interessante, avvincente, coinvolgente al punto che, dopo aver letto l’ultima pagina, si ha l’impressione di aver vissuto con gli astronauti ogni giorno delle loro avventure.
Sulla copertina frontale del libro, almeno nella versione per kobo, campeggia una frase a supporto del titolo:
“A candid story of achievement and challenge: Buzz Aldrin’s journey to the historic first moon landing and the personal struggle that followed”.
[Una storia candida di realizzazione e sfida: Il viaggio di Buzz Aldrin verso il primo storico allunaggio e le tribolazioni che ne sono seguite].
Ed è esattamente questo il contenuto del libro.
Mentre Armstrong, Aldrin e Collins si trovavano nell’orbita lunare, in attesa di separare i due veicoli affinché il LM (Lunar Module) potesse scendere sulla superficie della Luna, molti erano i controlli da espletare e le procedure da seguire con maniacale diligenza con il supporto del Centro di Controllo sulla Terra.
Le comunicazioni si susseguivano ed i dati venivano sottoposti ad un controllo continuo. I computer di bordo e quelli di terra dovevano essere in sintonia.
Ma cosa sarebbe successo se d’improvviso le comunicazioni si fossero interrotte, lasciando i tre astronauti da soli nello spazio profondo, all’interno di un veicolo spaziale che era poco più grande della cabina di un’auto station wagon, a circa cinquecentomila chilometri da casa?
Avrebbero avuto semplicemente una chance: cavarsela da soli.
Per tornare indietro, abortendo la missione, avrebbero avuto il solo supporto della loro dotazione tecnologica di bordo. Check list complesse e computer. Ma su quest’ultimo c’era un pulsante contrassegnato da una scritta: Retourn to Heart [Ritorno sulla Terra]. Spingendolo avrebbero attivato un programma che li avrebbe guidati attraverso la grande mole di operazioni e calcoli da compiere per lasciare l’orbita lunare e immettersi sulla traiettoria di rientro.
Il titolo del libro prende spunto da quella scritta.
Tuttavia, visto che la vita personale di Aldrin ha risentito moltissimo degli effetti della missione, tanto da rendergli difficile il riadattamento alla vita normale di ogni giorno, queste tre parole assumono anche il significato di tornare con i piedi per terra. Sembrano richiamare l’immagine di qualcuno che, dopo essere stato sulla Luna, ricade miseramente sulla Terra. Come dire, svegliarsi bruscamente da un sogno. E questo è proprio quello che è successo a quasi tutti gli astronauti. Che lo abbiano ammesso oppure no.
Ma perché mai si dovrebbero avere problemi di riadattamento, sia pure dopo un’impresa così grande?
Aldrin spiega questo argomento come meglio può.
Una cosa accaduta a lui, ma poi si scopre che era accaduta anche ad altri, sebbene nessuno le avesse attribuito importanza e ne avesse parlato, riguarda alcuni piccoli flash che durante le ore di riposo, nel buio assoluto, aveva visto occasionalmente, sebbene avesse anche gli occhi chiusi.
Investigata a terra, la faccenda era stata spiegata. Alcune piccole particelle di qualche genere erano capaci di attraversare la capsula spaziale, attraversando il corpo degli astronauti. Potevano attraversare anche la testa e il cervello, indipendentemente dalla presenza del casco. Si era scoperto che questi attraversamenti potevano produrre danni piuttosto ingenti e di natura ancora sconosciuta.
Questa sembrava essere una spiegazione, ma non la sola.
Un’altra spiegazione risiedeva nel lungo e durissimo addestramento al quale erano sottoposti continuamente, senza avere, a volte, neppure il tempo di rilassarsi. La loro formazione richiedeva l’uso di simulatori che spesso si trovavano in stati diversi, presso le case costruttrici. Ne conseguiva la necessità di spostarsi, di solito usando un jet militare biposto che avevano a disposizione. Ne avevano diversi e su questi effettuavano anche le ore per il mantenimento delle licenze di volo.
In uno di questi spostamenti era avvenuto un incidente ed erano morti due astronauti.
Un altro incidente era avvenuto sulla rampa di lancio, quando una delle navicelle si era incendiata e i tre astronauti che in quel momento erano a bordo per delle prove non riuscirono ad aprire il portello e ad uscire. Morirono bruciati all’interno.
Episodi di questo genere rendono ancora più difficile lo svolgimento dei durissimi ritmi ai quali erano sottoposti. Ritmi che, tra l’altro, portavano ad un esagerato senso di competitività.
Quando tornavano a casa, quelli che avevano una famiglia, non avevano più energie neanche per parlare. Spesso andavano a dormire e basta, solo per alzarsi il giorno dopo all’alba e tornare al lavoro.
Compiuta la missione, specialmente una missione che li aveva portati a camminare su un altro corpo celeste, in altre parole, dopo aver portato a termine un compito così importante, si trovavano a cercare qualche altro obiettivo di pari livello, o addirittura superiore.
Ma non ce n’erano affatto.
Dopo, cominciava una serie di viaggi di rappresentanza in giro per il mondo, perché ogni stato richiedeva la loro presenza, con audizioni, visite ufficiali, pranzi e conferenze. Ancora una volta senza respiro, senza vita privata, anche se le famiglie degli astronauti partecipavano sempre.
Alla lunga, pochi matrimoni resistevano. Prima o poi si arrivava al divorzio e allo sfacelo delle relazioni familiari.
Aldrin non ha fatto eccezione. Ad un certo punto si è reso conto che stava cadendo in depressione. Con l’aggiunta di problemi di alcool. E in un periodo in cui l’alcolismo e la depressione non erano molto conosciuti. Non si sapeva con precisione neppure quale fosse la causa, se genetica o dipendente da altri motivi.
Oltre tutto, per un militare, un ufficiale superiore, un pilota e addirittura un astronauta, dichiarare di avere certi problemi nuoceva immancabilmente alla carriera.
Ma nascondere certi disagi avrebbe portato a danni peggiori nel tempo.
Dopo un lungo e travagliato periodo di riflessione, Aldrin decise di mettere in primo piano la salute. Non solo per sé stesso, ma anche per gli altri che si fossero trovati nella sua stessa situazione.
“It is my devout wish to bring emotional depression into the open and so treat it as one does a physical infirmity. I want my children to know so that if they too become ill they will see the symptoms and seek help. It doesn’t truly matter whether or not the cause is genetic or environmental. The point is that it must be treated, and the sooner the better”.
[E’ mio profondo desiderio portare in evidenza la mia depressione emozionale e trattarla come si tratta una malattia del fisico. Voglio che i miei figli sappiano, così che se dovessero ammalarsi possano riconoscere i sintomi e chiedere aiuto. Non importa davvero se la causa è genetica o ambientale. Il punto è che deve essere curata, meglio se il prima possibile].
Nel corso degli anni emerse che la causa genetica della depressione, nel suo caso era da escludere. Molto probabilmente, l’assenza di stimoli che seguiva la conclusione e il raggiungimento di compiti simili, lasciava un vuoto enorme, impossibile da colmare, se non impegnandosi in un altro compito altrettanto importante. Infatti, la vita normale, la routine quotidiana, ormai non erano più soddisfacenti.
“I spent hours each day in tought… Few men, particularly those who are motivated toward success, ever pause to reflect on their lives. They hurry forward with great energy, never pausing to look over their shoulders to see where they have been. If a man does this at all, it is usually near the end of his life, and it happens only because there is little else for him to do. My depression forced me, at the age of forty-one, to stop and, for the first time, examine my life”.
[Ho passato ore ogni giorno immerso nei pensieri… Pochi uomini, specialmente quelli motivati dal desiderio di successo, si soffermano a riflettere sulla propria vita. Si affrettano con grande energia, senza mai voltarsi indietro per vedere dove sono stati. Se mai qualcuno lo fa, di solito è vicino alla fine della sua vita, e succede solo perché non ha più altro da fare. La mia depressione mi ha costretto, all’età di 41 anni, a fare una pausa e, per la prima volta, esaminare la mia vita]
Mettere a rischio la carriera, ma per cercare aiuto e guarire da quella che era chiaramente una malattia, offrendosi come esempio da seguire per coloro che ne avessero altrettanta necessità, è una decisione che Aldrin stesso valuta come una delle migliori della sua vita.
La cura, tuttavia, è lunga e difficile.
Il percorso di guarigione, incerto e tortuoso, passa attraverso anni di alti e bassi. Niente più voli spaziali, niente più voli normali.
Il racconto passa attraverso vicende scabrose, con tradimenti e traumi matrimoniali, trasferimenti, ricadute nella depressione e infine divorzio.
Intanto Aldrin decide di lasciare l’USAF, l’Aeronautica militare statunitense.
Da civile le cose non vanno meglio. Seguono anni di difficoltà e pochi veri successi.
Alla fine le cose, un po’ si stabilizzano.
Il libro si conclude con alcune pagine di foto che rappresentano le pietre miliari del percorso di vita di Aldrin. Una vita certamente parecchio sopra le righe. Un mondo, il suo, davvero molto interessante. Mi è sembrato di leggere l’autobiografia di un dio dell’Olimpo, piuttosto che quella di un essere umano. In fondo si tratta pur sempre di un uomo che è sceso sulla superficie della Luna e ci ha camminato sopra, anche se è stato il secondo ad imprimere la sua orma sulla polvere lunare.
Eppure, quando descrive le sensazioni che ha provato nel lasciare l’Aeronautica Militare degli Stati Uniti, mi sono ritrovato a leggere qualcosa che conoscevo bene. Anch’io, un giorno lontano, dopo nove anni di vita militare, ho lasciato l’Aeronautica Italiana. Sono emozioni travolgenti che non si dimenticano facilmente nel corso della successiva vita civile.
Parecchie delle sensazioni che Aldrin descrive sono praticamente le stesse.
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer)
Nota della Redazione
Tutte le fotografie presenti in questa recensione sono state prelevate gratuitamente dallo splendido sito web Apollo archive che vi invitiamo a visitare in lungo e largo. Troverete centinaia di scatti a colori e in bianco e nero che ripercorrono le missioni Apollo nonchè le pre e post Apollo. Ricco di didascalie e di ulteriore materiale collaterale, è un sito divulgativo cui non smetteremmo mai ti attingere. Perchè se è vero che la storia, per essere viva, deve essere vissuta, ebbene siamo certi che questa è la migliore opportunità offerta a coloro che vogliano farlo davvero
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