titolo: Vita da Cacciabombardiere
autore: Bruno Servadei
editore: Amazon
anno di pubblicazione: 2008 (I edizione), 2018 (II edizione)
ISBN: 1730700632 oppure 978-1730700637
Questo è uno dei migliori libri che mi sia capitato di leggere. Almeno nel campo aeronautico.
Spiegare perché lo considero al top assoluto non è facile, ma sono certo che molti piloti, dopo averlo letto, sarebbero d’accordo con me. E’ possibile che una recensione non arrivi a trasmettere ad altri potenziali lettori cosa li attende nella lettura di questa pregevole opera. Si tratta di 429 pagine scritte con caratteri piccoli e dense di vita vissuta. Che tipo di vita? Quella di un pilota che, dopo gli anni dell’Accademia Aeronautica, si ritrova ad operare nel pieno della cosiddetta Guerra Fredda, dove per decenni ci si deve confrontare con il rischio costante di una guerra, possibilmente anche nucleare, con le forze del Patto di Varsavia.
L’autore, Bruno Servadei, è un tipo formidabile, la cui carriera comincia così, come pilota operativo di un prestigioso Gruppo di volo. Utilizza alcuni dei caccia di quel periodo, dall’inizio degli anni Sessanta in poi, macchine affascinanti che sono state il sogno di migliaia di piloti. Poi, la sua carriera prende altre strade e si inoltra in ambienti non meno interessanti, verso avventure forse ancora più prestigiose.
Comunque continua a volare, anche dopo essere andato in pensione.
Bruno Servadei ha molti meriti. Ma solamente alla fine di questa recensione rivelerò uno dei suoi meriti più importanti.
Il libro comincia con il racconto del viaggio di trasferimento da Rimini, dove l’autore aveva una casa di famiglia, verso il reparto presso il quale avrebbe dovuto prendere servizio. Infatti, il capitolo si intitola: Verso il mio reparto.
Il periodo dell’Accademia era terminato e ora lo attendeva la vera vita di Reparto di volo, la vera vita del pilota di caccia dell’Aeronautica Militare Italiana.
La macchina era una piccola BMW con motore bicilindrico di derivazione motociclistica. Un motore boxer di piccola cilindrata.
Era l’Agosto del 1963.
Già alla seconda riga si fa riferimento ad una strada che l’autore stava percorrendo: la Romea.
Ecco come un libro ghermisce il lettore sin da subito.
Una recensione, infatti, non è altro che il resoconto di quanto e come un lettore ha trovato o meno interesse a leggere il libro. Nel mio caso, già alla prima riga la mia attenzione era stata ghermita e alla seconda la mia mente già vedeva la scena come in un film.
In realtà io vedevo due film.
Questa scena, molto vivida, di un ragazzo appena ventenne che percorreva la Romea in direzione di Mestre, a bordo di una piccola utilitaria, nel mondo del 1963, tanto diverso da quello di oggi, mi riportava indietro nel tempo, a quando, pochi anni dopo, anch’io viaggiavo verso un reparto dell’Aeronautica Militare dove avrei dovuto prendere servizio.
Le emozioni del passato, rievocate dalle prime due righe del primo capitolo del liro di Bruno Servadei, continuavano a emergere riga dopo riga.
Anche se la mia realtà e la sua erano certamente molto diverse (lui andava a cominciare la sua vita di pilota, io no) a quell’età l’avventura aveva comunque lo stesso sapore.
E forse non c’entra neanche l’età, perché parecchi anni dopo, mi capitò di percorrere proprio la Romea per raggiungere una Torre di controllo di un aeroporto del Nord-Est, dove avrei preso servizio come controllore del traffico aereo. E il sapore dell’avventura era probabilmente lo stesso.
Servadei stava andando a Ghedi, in Lombardia, vicino a Brescia, dove aveva sede la Sesta Aerobrigata, famosa per un prestigioso Reparto di volo, quello dei “Diavoli Rossi“.
Il secondo capitolo descrive l’arrivo. E anche qui la sua descrizione del mondo di allora riporta alla mia mente sensazioni di vita vissuta e dimenticata.
La descrizione dei luoghi, degli ambienti, dell’umanità e dei modi di fare del tempo, sia in ambito militare che non, è talmente efficace da essere, in alcuni punti, travolgente.
Chi ha conosciuto l’Aeronautica degli anni Sessanta si sente riportare indietro nel tempo.
Oggi è tutto diverso.
Nei capitoli successivi si parla dell’assegnazione ad un reparto di volo. Non erano tutti uguali. Servadei spiega bene le differenze. A lui capita un reparto di cacciabombardieri.
Questo deciderà la sua vita operativa futura. E anche il titolo del libro.
Nel corso della lettura, dopo la descrizione del primo periodo dove le giornate erano quasi esclusivamente destinate all’immersione nella realtà del Reparto, senza prospettiva di volare se non davvero saltuariamente e comunque con un jet biposto, un T33, come quello usato alla scuola, subito dopo la fase basica, pian piano si comincia ad intravedere la linea di volo vera e propria.
Gli aerei erano gli F84F, un modello già superato, ma ancora valido, sebbene avesse già fatto la sua comparsa il famoso F104, che però solo pochi fortunati avrebbero utilizzato, almeno nel futuro prossimo.
E da qui in poi, per un pilota di qualsiasi tipo, l’interesse sale a livelli stratosferici. Ma è altrettanto interessante anche per i non piloti.
Servadei ci racconta tutte le fasi della transizione su questa macchina; ed è interessante seguirlo nei suoi primi voli. Conoscere le sue impressioni, le sue soddisfazioni e i suoi timori.
Il tutto, immerso nella vita quotidiana di reparto. Possiamo così “conoscere” i suoi colleghi, i comandanti, i sottufficiali specialisti e anche piloti. Si, perché a quell’epoca esistevano ancora i sottufficiali piloti. Bruno Servadei ne parla molto bene, del resto si è sempre saputo che i sottufficiali piloti erano generalmente eccellenti.
La vita di reparto viene descritta in tutti i suoi aspetti, quelli belli e… quelli meno belli. O meglio, quelli piuttosto brutti.
Con il suo modo delicato l’autore non manca di mettere a nudo gli aspetti più duri della vita nei reparti di volo di quel periodo storico.
Va detto, infatti, che gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, fino alla caduta del cosiddetto muro di Berlino, l’Unione Sovietica e i suoi paesi satelliti, costituivano una sorta di minaccia sempre presente. Parliamo, come ho detto, del periodo della Guerra Fredda, quando era lecito aspettarci un attacco, anche con armi nucleari, all’improvviso e senza preavviso. A questa minaccia si doveva far fronte subito e senza mezze misure.
Le forze della NATO disponevano di Reparti di caccia intercettori e cacciabombardieri, di diverse nazionalità, lungo tutta la linea di confine con i paesi sotto il controllo dell’Unione Sovietica.
Il reparto di Servadei era solo uno di questi. Gli aerei che utilizzava il suo reparto potevano essere equipaggiati con armi convenzionali, ma anche con armi nucleari. In altre parole potevano portare appesa sotto la fusoliera una bomba atomica. All’occorrenza, che ci si augurava non si verificasse mai, i piloti di questi F84 avrebbero dovuto partire, penetrare a bassissima quota nel territorio nemico, per sfuggire ai radar, raggiungere l’obiettivo stabilito, sganciare la bomba e mettere in atto la procedura di scampo per poi tornare, sempre che ci si riuscisse, alla base.
Ecco qual era il compito operativo del nostro giovane pilota e di tutti i suoi colleghi.
Oggi sarebbe difficile raccontare ai nostri giovani la realtà di quegli anni. E dubito molto che la stragrande maggioranza di loro prenderebbe l’iniziativa di leggere un libro come questo.
Chissà se qualche giovane, leggendo la mia recensione, si incuriosirà al punto da prendere l’iniziativa di cercare questo libro e di procurarselo per leggere di una realtà tanto estranea a quella odierna.
Ma una cosa è certa: ogni capitolo rappresenta una sorta di cortina che cela una realtà appassionante, sorprendente, illuminante.
Riga dopo riga la cortina si scosta e la realtà celata si rivela. Poco a poco, le parole di Servadei, magistralmente scelte e combinate tra loro, ci fanno entrare nei suoi ambienti quotidiani, dove viveva ogni giorno senza quasi mai uscire dalla base aerea, per settimane intere.
Non era una vita facile la sua. Neppure quella del circolo ufficiali, dove si giocava assiduamente a carte per ore e ore, quando non c’era attività di volo. A volte la nebbia fittissima della pianura dove aveva sede l’aeroporto di Ghedi non permetteva l’attività di volo e ci si trovava a dover superare la noia di giorni di inattività.
Tuttavia la nebbia, appena si diradava un poco, non riusciva a impedire l’attività di volo, che avveniva ugualmente, sebbene in condizioni di estrema difficoltà.
Servadei ci parla dei diversi profili di missione ai quali prese parte a Ghedi, mentre si formava la sua preparazione per divenire Combat Ready, cioè pronto al combattimento.
Possiamo così leggere di come avvenivano le sessioni di addestramento al poligono di tiro, con diversi tipi di armamento. Le armi erano spesso inerti, ma a volte erano vere.
E poi c’era l’addestramento al lancio della bomba nucleare. E questa era una procedura tutta particolare.
La descrizione dell’attività di volo operativo è lunga e complessa e prende una discreta parte del libro, perciò non posso neppure provare a riassumerla tutta.
Ma non mancano momenti divertenti, qua e là.
Un giorno la squadriglia di Servadei doveva fare da bersaglio ai serventi dei cannoncini della contraerea aeroportuale. Non che gli dovessero sparare davvero addosso per abbatterli. Si usava una procedura di sicurezza, come ci descrive Servadei. I cannoni avrebbero dovuto sparare dalla parte esattamente opposta a dove si trovavano gli aerei e verso il mare, per ovvi motivi.
Ma per un errore, forse di coordinamento, il radar che guidava la squadriglia li diresse verso il mare, proprio dove passavano i proiettili traccianti dei cannoni.
I piloti videro i traccianti salire verso di loro e il caposquadriglia:
“fece uno strillo per radio che probabilmente giù lo sentirono anche senza: ci fu un po’ di silenzio, poi qualcuno, con voce mesta, chiese umilmente scusa”.
Ma una situazione come questa non era un evento raro.
Poco prima Servadei aveva detto:
“… provavo un vero fastidio nel vedere che, a volte, le canne dei cannoncini ci seguivano mentre rullavamo: sarà anche stato un buon addestramento, ma era come se qualcuno ti puntasse una pistola. Va a sapere chi ci stava dietro a quell’arma e se avesse adottato tutte le precauzioni previste”.
Ancora una volta torno indietro nel tempo, agli anni settanta, quando ero in servizio. Nell’uscire dal reparto di servizio, dopo un turno di notte, stavo attraversando un piazzale e fui attirato da alcuni “click” ripetuti che provenivano da una scala d’ingresso all’ala del palazzo. C’era un aviere VAM (Vigilanza Aeronautica Militare) che mi puntava addosso il MAB (Moschetto Automatico Beretta), un mitra.
Sapevo bene che il mitra aveva un caricatore vuoto montato e che i caricatori pieni, avvolti nel cartoncino e nastrati, il VAM li teneva nella giberne. Ma… come dice Servadei, vai a sapere chi ci stava dietro a quell’arma…
Il VAM sghignazzava, sopra gli scalini, e faceva scattare la sua arma, quasi a cercare la mia approvazione per il suo modo di scherzare.
All’uscita andai dall’ufficiale di picchetto, gli riferii il fatto e subito dopo andarono a sostituire quella guardia. Credo che non se la sia passata tanto liscia.
Un’altra occasione del genere avvenne a Guidonia. Trainavo gli alianti con un aereo ad elica, un Robin DR 400. Dopo ogni traino, lasciato l’aliante in quota, scendevo a duecentocinquanta chilometri orari, passavo di fianco alla testata della pista, pochi metri fuori asse e sganciavo il cavo di traino. Poi risalivo, entravo nel circuito e atterravo. Di solito c’era già un altro aliante da portare su, con il cavo appena sganciato attaccato al musetto. E la faccenda si ripeteva.
In uno di questi avvicinamenti, a qualche decina di metri di quota e ridotta la velocità a centottanta-duecento Km/h, scendevo verso la testata pista e il prato dove avrei sganciato il cavo, quando vidi, con la coda dell’occhio, un movimento sulla sommità di una specie di garitta, sopraelevata di alcuni metri da terra.
C’era una guardia, appoggiata alla ringhiera di protezione della garitta. Un VAM in servizio. Mi era sembrato che mi avesse preso di mira con il mitra, ma in quel punto ero basso, veloce e dovevo stare attento a troppe cose e non potei verificare.
Al traino successivo, però, guardai bene.
Sì. Effettivamente il furbacchione mi puntava il mitra, seguendomi nella traiettoria.
Capisco la sua noia, penso che l’arma fosse scarica e che comunque non mi volesse veramente sparare, però… non sai mai chi c’è dietro quell’arma…
Andai al parcheggio. Dal telefono della nostra roulotte che fungeva da ufficio per il volo a vela civile, chiamai l’ufficiale di picchetto.
Dopo poco arrivò una campagnola militare. La guardia venne tirata giù e sostituita. Poi la campagnola tornò al corpo di guardia.
Anche in questo caso non credo che non ci sia stata alcuna punizione.
Non credo neanche che quella guardia possa aver visto chi c’era sul Robin. Ad ogni buon conto, dopo l’episodio, mi guardavo sempre intorno con circospezione, quando ero in aeroporto.
Servadei descrive l’attività al poligono in modo davvero chiaro e preciso. Così che il lettore possa avere un’idea chiara di quale sia il lavoro di un pilota cacciabombardiere.
Ma la massima espressione di questo lavoro riguarda un altro poligono, il più grande d’Europa, che si trova in Sardegna a Decimomannu. Qui si andavano ad addestrare tutti i reparti come il suo, appartenenti agli altri stati della NATO.
Andare in Sardegna, dal continente, implica la necessità di attraversare il mare. C’erano piloti che avevano un certo timore a volare sul mare. Dall’Elba alla Corsica il tratto di mare è il più breve, non ci vuole molto a superare la distanza con un jet. Quasi non ce se ne accorge.
La descrizione di quel trasferimento è un capolavoro. Conosco bene il percorso, le coste, il paesaggio. La breve distanza tra la Corsica e la Sardegna, e lo stupendo paesaggio di quella zona. Poi giù verso Decimomannu.
Servadei ha dedicato un altro libro, dal titolo “Deci 83-86 ricordi di tiro 0“, al suo periodo di servizio, anni più tardi, in questo poligono. Deci è l’abbreviazione di Decimomannu, in Sardegna, di cui ho appena fatto menzione.
I tiri, comunque, erano un esercizio costante nell’attività di un pilota cacciabombardiere. Molte pagine, anzi, interi capitoli parlano di addestramento al tiro con armi di vario tipo, con armi inerti o reali. Ed è veramente accattivante seguire il suo racconto. Pare di essere lì e finalmente possiamo sapere cosa facevano questi piloti durante il servizio in quel famoso poligono.
La vita operativa di Bruno Servadei si snoda nel corso degli anni e passa attraverso molte esperienze.
Ad un certo momento viene trasferito al Sud. Un cambiamento di non poco conto, considerato che in quegli anni le differenze tra le realtà del Nord e del Sud erano notevoli. Questi sono capitoli tutti da leggere.
Nella sua nuova collocazione, a Gioia del Colle, in Puglia, si deve adattare a condizioni e mentalità molto diverse. Le strade, ad esempio, non erano certamente come quelle di oggi e le automobili nemmeno. Per tornare a casa doveva affrontare una specie di odissea.
Ma, a onor del vero, l’Aeronautica di allora, nei weekend, concedeva ai suoi piloti di poter usare il jet per tornare a Ghedi. Come dire, invece di prendere la macchina, prendi pure l’aereo. Basta che domenica sera lo riporti alla base. Che meraviglia!
In questa fase c’è un altro evento importantissimo che lo riguarda: il matrimonio. Vicende che si collegano e si amalgamano con la vita di reparto, in un aeroporto del Sud.
Servadei è stato anche uno sportivo. In quegli anni si addestrava nello sport del bob. E questa è una storia nella storia. Tutta da leggere, sia per i risultati conseguiti, sia per gli aspetti sorprendenti di uno sport così poco conosciuto, ma che ha, a mio avviso, molto in comune con il pilotaggio di un aereo. Furono soltanto impellenti ragioni di servizio che gli impedirono di partecipare alle Olimpiadi del 1972, a Sapporo, in Giappone.
Nel frattempo ci sono da affrontare anche alcune missioni estere. E queste costituiscono un altro elemento di attrazione per un lettore appassionato di volo. Lo svolgimento di queste missioni, nell’ottica di uno scambio di esperienze tra gruppi di volo di nazionalità diverse, rivela aspetti sorprendenti sotto molti punti di vista.
E purtroppo nel libro ci sono parecchie descrizioni di incidenti.
I vecchi F84 e F86 stavano per essere sostituiti, anche se molto gradualmente, dai G91 e dagli F104.
Quest’ultimo, come molti sanno, era un ottimo aereo, ma per una serie di ragioni legate all’impiego che ne venne fatto e ad altri motivi, fu protagonista di frequenti incidenti, che costarono la vita di tanti piloti. Non per nulla venne chiamato “fabbricante di vedove“.
E qui la storia sarebbe lunga. Ma chiunque la volesse conoscere non ha da far altro che leggere questo libro.
Con la sua consueta delicatezza, Servadei affronta l’argomento nell’ultima parte del libro. E anche con competenza, visto che ha utilizzato l’F104 per molto tempo.
Ho trovato molto interessante leggere il resoconto dei suoi primi voli, le sue prime sensazioni, l’impressione che ne aveva avuto.
Si sentiva tanto parlare, all’epoca, della famigerata spinta iniziale del decollo, dato che il post bruciatore, del quale l’F104 era dotato, si conosceva ancora poco. Avevo sentito storie di piloti che, affondata la manetta per decollare, si erano girati di lato a guardare qualcosa e non erano più riusciti a girare di nuova la testa in avanti …
Storie metropolitane. Servadei sfata il mito della poderosa spinta. Il 104 aveva certamente potenza, ma niente di così estremo.
Anche riguardo alla transizione dal volo a velocità subsonica a quella supersonica, Servadei cancella tutte le storie di vibrazioni, scuotimenti e sbandate. L’indice del machmetro passa semplicemente da Mach 0,9 a 1. E poi continua a salire verso valori maggiori. Tutto qui. Anche se dopo ci sono altri fattori da tenere in considerazione, ben descritti e di grande interesse per chi non ha mai pilotato un F104, ma avrebbe tanto voluto farlo.
Arriviamo in fondo al libro. Alla postfazione.
Se questo libro mi era così piaciuto, quando lo lessi nel 2008 o all’inizio del 2009, tanto che ho voluto rileggerlo prima di scrivere questa recensione, devo dire che stavolta mi è piaciuto ancora di più.
Ho dovuto prendere il telefono ed esortare alcuni miei amici ex Aeronautica Militare a tirare fuori il libro e rileggerlo a loro volta, cosa che hanno fatto. Uno di loro era controllore al GCA (Ground Controlled Approach) dell’aeroporto di Grosseto e si è ricordato di alcuni episodi, compreso un incidente di volo proprio sul cielo campo dell’aeroporto, dove si sono scontrati due F104 e alcuni dei pezzi erano caduti a pochi metri da lui, vicino alla capannina del GCA. Uno dei piloti si era dovuto lanciare, l’aereo era finito in un campo appena fuori dall’aeroporto.
L’epoca dell’F104 è rimasta indimenticabile.
Ma torniamo alla postfazione. Avevo dimenticato questa parte.
Servadei scrive:
“L’idea di scrivere queste memorie mi è venuta parecchi anni fa, quando mi fu chiaro che mio padre non avrebbe mai scritto le sue, che sarebbero state di gran lunga più interessanti. Allora mi sembrò un delitto lasciare che tanti eventi vissuti in prima persona da mio padre in un periodo così complesso e discusso, come quello degli ultimi anni del fascismo e dei primi anni del dopoguerra, andassero dimenticati solo perché riteneva inutile scriverli, convinto com’era che nessuno avrebbe avuto il coraggio di pubblicarli.
Così la mia reiterata richiesta di mettere su carta le sue memorie andò del tutto disattesa, nonostante la mia promessa che le avrei conservate in vista di tempi migliori per renderle pubbliche. Dopo la sua scomparsa mi ripromisi che non avrei fatto altrettanto. Per quanto poco significativi rispetto a quelli che avevano riguardato la sua vita, gli eventi che avevano riguardato la mia li avrei registrati, a futura memoria. Forse non li avrebbe letti nessuno, ma se a qualcuno, nel tempo, fosse venuta la curiosità di sapere ciò che si faceva e come si viveva in alcuni particolari reparti da caccia dell’Aeronautica Italiana durante la Guerra fredda, avrebbe potuto trovare nei miei scritti qualche spunto interessante”.
Condivido ogni sillaba delle parole di Servadei. Come ho scritto in altre recensioni, ho sempre esortato tutti coloro che avessero qualcosa di interessante da tramandare ai posteri, di scrivere. Senza riguardo verso questioni di opportunità, specialmente quando gli argomenti si vanno ad intrecciare con le vicende del ventennio fascista. La Storia è Storia. E il fascismo ne ha fatto parte. Tanti eroi si sono mossi in quella realtà, compiendo atti di coraggio senza pari. Scrivere le loro vicende e farle conoscere non significa essere d’accordo con le follie perpetrate da qualcuno. Non significa essere fascisti oggi.
Anni fa ho scritto un libro, una sorta di biografia di un pilota che aveva compiuto imprese mirabili ed era infine diventato un pioniere del trasporto aereo civile. Ma tutto questo si era svolto nel ventennio. Alla pubblicazione del libro ho riscontrato molte perplessità, come se avessi fatto qualcosa di male. E ho perfino perso qualche amico. Eppure nel libro la parola fascismo non compare. Inoltre, il personaggio non era troppo allineato con la mentalità del periodo. Infatti dovette scontare due mesi di arresti nella fortezza di Nisida, per insubordinazione.
Sto parlando di Cesare Carra. La recensione del mio libro, a cura della Redazione di Voci di hangar, è presente nel sito in questa pagina.
Peccato che il padre di Bruno Servadei non abbia scritto. Peccato davvero.
Scrive Servadei:
“Era anche un grande appassionato di fotografia: girava sempre con la sua Laica… Sviluppava e stampava le foto in casa, in una camera oscura arrangiata della quale ricordo ancora la luce rossa e l’ingranditore”.
Questo signore ha tutta la mia simpatia. Anch’io ho passato la vita, dai diciassette anni in poi, con una macchina fotografica sempre appresso. Varie macchine, ma quella più longeva è stata una Olympus OM1n, meccanica e manuale che ancora conservo. Con la mia piccola reflex ho documentato due terzi della mia vita. E naturalmente, avevo una camera oscura arrangiata, con l’ingranditore. Passavo le notti intere a stampare le mie foto. E la mattina dopo, con le stampe asciutte e stirate, andavo a proporle a diverse redazioni. Era un hobby, vivevo di altro, ma ci ho guadagnato un po’ di soldi per pagare i miei voli…
Dopo c’è stato l’avvento del digitale e il mondo è cambiato. Così oggi ho una macchina digitale sempre con me, anzi, più di una.
Bruno Servadei, sull’esempio del padre, ha fatto la stessa cosa. Ha usato tante fotocamere e videocamere, con le quali ha documentato ogni sua attività.
Lo dice nella postfazione.
“Documentare con un obiettivo mi è sempre riuscito naturale, e mi ha abituato a guardare gli eventi con occhio critico e a ricordarli”.
Nonostante non fosse consentito, portava questi apparecchi anche in volo, sin dall’inizio, quando volava sul T6.
E aveva raccolto diversi dei suoi preziosi filmati in un paio di DVD.
Giunto alle ultime righe del libro, Servadei scrive:
“Coloro che fossero interessati a ricevere maggiori informazioni sul contenuto del libro o sul DVD possono contattarmi alla seguente email …”.
All’epoca della prima lettura di questo libro Bruno Servadei mi aveva spedito due DVD, ma non ricordavo come avevo fatto a contattarlo.
Forse l’indirizzo email oggi non è più lo stesso. Ma, giunto a queste ultime righe, di colpo mi sono ricordato come avevo fatto a richiedergli i filmati. Gli avevo mandato una mail a questo indirizzo. E lui mi aveva spedito i DVD, due, non uno.
Li ho ancora. E li conservo con cura.
Allora, qual’é uno dei meriti più importanti di Bruno Servadei?
Lo dice lui stesso, sempre nella postfazione:
“Le difficoltà dello scrivere le ho affrontate perché lo scopo di queste pagine non è tanto di far apprezzare uno stile di scrittura, quanto di raccontare dei fatti. Fatti che rimangano come doverosa documentazione del modo di vivere di personaggi che hanno svolto un difficile compito in un periodo di forte contrapposizione fra NATO e Patto di Varsavia che, fortunatamente, oggi non c’è più, a mio parere anche grazie all’impegno ed ai sacrifici che sono descritti in queste pagine”.
Esatto. Questo è il grande merito: aver registrato qualcosa che altrimenti si sarebbe perduto nelle nebbie del passato.
Recensione di Brutus Flyer (Evandro Detti) e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
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